Raniero La Valle e la chiesa italiana odierna

diplomazia vaticana

papa Francesco rappresenta una radicale e feconda novità anche per la chiesa italiana che il papa vorrebbe meno burocratica, meno separata dalla vita del mondo soprattutto nei suoi pastori, più capace di condivisione e misericordia verso i più marginali … ma non sembra a R. La Valle che essa si muova convintamente in tal senso, tranne delle poche e apprezzabili eccezioni

quella che segue è un’analisi realisticamente triste della realtà ecclesiale italiana rappresentata dai suoi vescovi che sembrano sottovalutare molto l’invito papale a diffondere capillarmente il ‘questionario’ per il sinodo straordinario sulla famiglia e a trasformarlo in un’opportunità di grande dialogo e partecipazione del popolo di Dio:

SE LA CHIESA RISPONDE

 

Era stato mons. Lorenzo Baldisseri, di fresco nominato segretario del Sinodo dei vescovi, a rompere gli indugi e gli autismi curiali e a direurbi et orbi che tutti potevano liberamente mandare testi di riflessioni e suggerimenti al Sinodo straordinario sulla famiglia, anche senza passare attraverso il canale canonico dei vescovi. Ora quel monsignore è stato fatto cardinale, segno che non ha preso una cantonata, che il papa è d’accordo con lui e che a dare la parola alla Chiesa non si è redarguiti ma si è promossi.  

Del resto c’è una coerenza: che senso avrebbe l’insistenza di papa Francesco sulle periferie, se il rapporto della Chiesa con le periferie fosse un rapporto discendente, paternalistico, di una Chiesa che scende dalle pedane e dai pulpiti per andare a ispezionare le periferie, e non invece un rapporto per cui la Chiesa riconosce tutta se stessa come periferia, e ascolta, e perciò dà la parola, alle periferie?

 

Il riconoscimento delle Comunità di base

 

Negli stessi giorni in cui le periferie erano chiamate a dire la loro sulla pastorale (ma anche sulla teologia) delle famiglie, il papa mandava un messaggio alle Comunità di base del Brasile riunite per il loro XIII incontro interecclesiale nello Stato del Cearà, richiamando la legittimazione data a tali Comunità dall’assemblea episcopale di Aparecida e riproponendo loro il dovere della evangelizzazione; e siccome questo è il “dovere di tutta la Chiesa e di tutto il popolo di Dio”, per il papa ciò equivaleva a dire che le Comunità di base, a differenza di ciò che si è ritenuto altrove, sono parte integrante e legittima della Chiesa.

Dunque questa è una Chiesa in movimento, cui la riforma in corso del papato sta dando nuova vita; farà pure degli errori, ma questo è il prezzo di ogni riforma, tanto che il papa ha detto ai giovani in Brasile di fare confusione, chiasso, “casino”, e nella “Evangelii Gaudium” ha scritto di preferire “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per le chiusure e le comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze”.

Così incoraggiate, molte Comunità di base, associazioni ecclesiale, scuole di ricerca, aggregazioni spontanee hanno preso carta e penna e hanno scritto a Roma per rispondere a tutte o ad alcune delle 38 domande di cui consisteva il questionario messo in rete dalla segreteria del Sinodo. Molte risposte sono state severe, perché hanno criticato le domande stesse, che spesso della domanda avevano solo la veste retorica, ed in realtà erano tradizionalissimi enunciati sul matrimonio e la famiglia. Altre risposte sono state costruttive; ma in ogni caso della natura e della quantità dei documenti venuti direttamente dalla base si potrà sapere solo in seguito, quando qualcuno ne farà la ricognizione.

 

Molto cammino ancora da fare

 

Quello che invece si può rilevare fin da ora è che la Chiesa italiana, nelle sue strutture diocesane, ha accusato una difficoltà nel dare riscontro all’iniziativa del Sinodo. Non sembra che essa si sia messa in movimento, che abbia sollecitato interventi, veicolato proposte, si sia fatta eco di sofferenze e preghiere dei fedeli; si sconta ora il fatto che da cinquant’anni ormai, uscita in stato confusionale dal Concilio, la Chiesa italiana abbia imposto il silenzio ai fedeli e si sia fatta silenzio essa stessa, fino ai livelli di vertice della conferenza episcopale, priva com’è stata di ogni altra parola che non fosse quella del suo presidente.

Così la Chiesa italiana è giunta a questo appuntamento in stato di torpore, non si è fatta scuotere dalla novità di un organismo sinodale che prima di impartire direttive e insegnamenti chiedeva informazioni, pareri e proposte; essa non sembra essere uscita, almeno questa volta, dalle “abitudini – come dice il papa – in cui ci sentiamo tranquilli”.

Ma è solo la Chiesa italiana? Vedremo. Quello che intanto già si può dire è che la difficoltà a rispondere alla sollecitazione romana di una consultazione estesa a tutto il popolo di Dio, rivela un problema che non è solo di qualche comparto ecclesiale, ma è di tutta la Chiesa. Essa non è pronta a questo passo. Non è pronta a pensarsi veramente come popolo di Dio, né del resto le era necessario finché il Concilio, che ne aveva posto le premesse teologiche, era rimasto inattuato nelle sue conseguenze istituzionali e pastorali. Di fatto era rimasta vigente nella Chiesa romana la teologia del laicato, inteso come un esercito di riserva della gerarchia, anche se ormai in disarmo e pressoché inutilizzabile, come avevano dimostrato i velleitari tentativi politici alla “Todi 1” e “Todi 2”; era rimasta l’idea che l’unico vero apostolato fosse quello dei vescovi, a cui laici selezionati erano cooptati a collaborare; era rimasta l’idea  dei “duo genera christianorum”, giustapposti così che il ministero dei fedeli e quello dei chierici “differiscano essenzialmente e non solo di grado”; era rimasta l’idea che l’unica successione dall’evento fondatore della Chiesa fosse la successione apostolica e non anche la successione nella fede dell’universalità dei discepoli e del mondo più prossimo a Gesù; né erano state tratte tutte le conseguenze dall’aver identificato la Chiesa con la nuova figura o immagine di “popolo di Dio”,  che è una figura antropologica ulteriore e dirompente rispetto alla figura biblica di popolo di Dio riservata al popolo d’Israele. E la prima conseguenza di questo mutamento di paradigma rispetto alle immagini bibliche più tradizionali come quelle di gregge, di ovile, di tempio, di edificio di Dio, è quella per cui essere un popolo significa avere la parola, e godere dei diritti innati – ossia di origine divina – alla libertà e all’eguaglianza nel pluralismo di una comunità universale.

 

Che significa essere “popolo di Dio”

 

Non può essere infatti senza conseguenze che, nell’intento di rappresentare la fede e la Chiesa nel linguaggio e nelle forme del pensiero moderno “nel modo che la nostra età esige”, secondo quello che era il compito del Concilio, esso abbia privilegiato l’immagine del popolo di Dio rispetto a quella, finora dominante, del gregge. E’ chiaro che nel linguaggio dell’allegoria, che è uno dei sensi dell’interpretazione delle Scritture, le caratteristiche a cui allude l’immagine del popolo sono ben diverse da quelle cui allude l’immagine del gregge (che ha fiuto, ma non ha la parola, non ha l’autodeterminazione, non ha la libertà). Ed è molto interessante che nella Costituzione dogmatica del Concilio, il passaggio dall’idea del gregge all’idea del popolo è collegata al passaggio da una certa struttura di Chiesa, fondata sull’autorità di un solo capo, a un’altra struttura di Chiesa fondata sull’autorità del collegio apostolico (s’intende, con il suo capo); dice infatti la Lumen Gentium, al n. 22: “Questo collegio (degli apostoli), in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l’unità del gregge di Cristo”; dunque la diversità e universalità nel popolo e nella Chiesa sono legate alla sinodalità e collegialità, l’unità e uniformità del gregge sono legate al ruolo preminente di Pietro: e le due cose devono stare insieme.

Sta qui allora il valore dell’operazione avviata con il questionario diffuso per il Sinodo. La Chiesa collegiale, col suo capo, domanda, il popolo, nella sua varietà e universalità, risponde. E non è affatto detto che allargandosi l’interlocuzione non ci siano da aspettarsi delle sorprese. Ci sono delle risposte che hanno cambiato il mondo. A cominciare dalle risposte che si trovano nei vangeli. E’ quando Gesù chiede: “chi dice la gente che io sia?” che viene la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo”. E’ quando Gesù chiede ai discepoli di Emmaus che cosa era successo a Gerusalemme, che viene svelato il senso delle Scritture che avevano parlato del messia. È quando Gesù chiede a Marta se crede nella resurrezione, che Marta risponde: “Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. È quando Gesù chiede a Tommaso di mettere la mano nelle sue piaghe, che Tommaso risponde: “Mio Signore e mio Dio”; è quando i farisei chiedono al cieco nato di proclamare che Gesù era un peccatore, perché guariva di sabato, che  il cieco risponde con una delle più belle professioni di fede che ci sono nei vangeli: “se sia un peccatore non lo so, quello che so è che prima non ci vedevo ed ora ci vedo”. Ed è quando la donna torna in città per raccontare l’incontro con Gesù al pozzo di Giacobbe, che i samaritani andati a loro volta da lui le rispondono: “non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.

Dunque c’è un ministero della risposta, del rispondere, nella Chiesa, che non è dei letterati, dei sapienti, dei chierici, dei consacrati, ma è dei discepoli, dei semplici testimoni, della gente comune. Nei vangeli, prima che nella predicazione degli apostoli, lo svelamento di Gesù come Signore, come Messia, come figlio di Dio, sta nelle risposte dei discepoli, delle donne, dei mendicanti, degli stranieri.

Ma questo ministero della risposta non si può esercitare se non c’è chi interroghi. Se nessuno chiede niente, non c’è nessuno che risponda. E la Chiesa allora resta muta, è la Chiesa del silenzio.

Per molto tempo nella Chiesa,  e per lo meno fino al Concilio, ai discepoli, ai fedeli, nessuno ha chiesto niente; è stata chiesta obbedienza, è stato chiesto di ascoltare, è stato chiesto di partecipare ai sacramenti, alle novene, ai catechismi e di dare l’8 per mille. Ma nessuno finora aveva chiesto che cosa pensano di Dio, del Cristo, dell’uomo, della Chiesa, dell’amore, del matrimonio, nessuno aveva chiesto come pensassero di poter  rispondere oggi della speranza che è in loro.

Perciò è una così grande novità che ora queste domande siano state poste. E se la Chiesa non è ancora pronta, l’importante è cominciare; l’importante è far crescere questo ministero del chiedere e del rispondere, perché maturi un nuovo modo di essere Chiesa, e anche un nuovo modo di essere mondo, perché finché si domanda e si risponde c’è dialogo, c’è comunicazione, c’è insegnamento e c’è apprendimento, ci può essere comunione, non c’è il fragore della guerra e il silenzio dei cimiteri.

  Raniero La Valle




il monoteismo cristiano è ‘violento’ o possibile generatore di violenza?

 

riflessioni politico-religiose indotte dalla morte di Andreotti

   

 

un corposo documento dei cosiddetti ‘teologi del papa’ (fra cui anche l’italiano P. Sequeri – di cui si riproduce qui sotto una  apprezzabile riflessione -) ha visto la luce in questi giorni con lo scopo di rigettare la critica che troppo spesso viene fatta, soprattutto negli ultimi tempi, alla concezione cristiana di Dio e al monoteismo come possibile fonte di violenza essendo radicalmente violento, in quanto tale, il concetto stesso di monoteismo

di seguito l’articolo illustrativo di M. Burini e la riflessione di P. Sequeri che, al contrario, scorge nella concezione cristiana di Dio l’antidoto stesso alla violenza:

Il monoteismo dei cristiani non è violento. Lo dicono i teologi del Papa

 

di Marco Burini

in “Il Foglio” del 17 gennaio 2014

 

Che monoteismo sia sinonimo di violenza è una di quelle ipotesi di scuola diventate col tempo luogo comune, luogo comune assorbito senza troppi patemi dagli stessi credenti. Per confutare l’equazione, perciò, ci vuole gente attrezzata e piuttosto temeraria. I teologi, stando all’identikit  ne ha fatto Francesco, il 6 dicembre scorso: “Pionieri del dialogo della chiesa con le culture” che non restano nelle retrovie, “in caserma”, ma “in frontiera”.

Bergoglio aveva davanti per la prima volta la Commissione teologica internazionale (Cti), una sorta di selezione mondiale di teologi e teologhe voluta dal Papa (l’idea è di Paolo VI, 1969) per sostenerlo scientificamente nel suo magistero, che in questi giorni pubblica “Dio Trinità, unità  uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza”, dopo cinque anni di studi e confronto. Un documento corposo ma tutt’altro che illeggibile – il che non è poco, visto il genere letterario – firmato da un gruppo ristretto in cui spicca Pierangelo Sequeri, non tanto perché l’unico italiano ma perché la redazione finale del testo è, per chi lo conosce, di sua mano.

La sostanza del ragionamento è chiara: la chiesa non ci sta più a subire una comunicazione pubblica che identifica come intollerante e tendenzialmente violento chi crede nell’unico Dio: ebrei, musulmani e cristiani. Accusa che colpisce specialmente questi ultimi, però, dato che gli ebrei non conoscono il proselitismo (parola detestata da Bergoglio stesso perché fuorviante), mentre dell’islam si ragiona quasi sempre (tranne a Ratisbona) in termini geopolitici e non teologici.

Restano i cristiani, meglio ancora i cattolici – i più numerosi e pittoreschi – soggetti poco affidabili in una democrazia che veste meglio un politeismo sinonimo di tolleranza.

Tramontata l’epoca dell’unico re in nome dell’unico Dio, siamo nell’èra del pluralismo dei  sotto un cielo piuttosto affollato. Eppure la storia ci ricorda che i politeisti non sono affatto teneri.

Proprio Francesco, l’altroieri nell’udienza in piazza San Pietro, ha evocato la persecuzione dei cristiani in Giappone nel XVII secolo; anche una religione porosa e per niente dogmatica come lo shintoismo ha benedetto massacri.

Mentre il dogma fondante del cristianesimo – la morte e resurrezione di Gesù – espelle la violenza che, René Girard insegna, sempre si mescola al sacro. “Il principio di questa verità cristologica di Dio non si è mai perso – ricorda il documento della Cti – a costo di mettere il cristianesimo in contraddizione fra la sua prassi storica e la sua autentica ispirazione”. Insomma, i cristiani sono stati spesso violenti non perché cristiani ma perché tali solo di nome, traditori del dogma originale, ama Dio e ama il prossimo, incarnato in Gesù di Nazaret.

Certo, è dura scalfire la crosta di ignoranza, più o meno in malafede, che riveste una parola come dogma: un pesante macigno che incombe sulla testa di gente inadatta a pensare. Come se oggi la verità non potesse darsi che in maniera dispotica, “una minaccia radicale per l’autonomia del soggetto e per l’apertura della libertà”, notano Sequeri&Co. Proprio mentre si assiste a un “indebolimento, nel costume occidentale, del rispetto per la vita, dell’intimità della coscienza, della tutela dell’uguaglianza, della razionale passione per un impegno etico condiviso e per il rispetto dell’autentica coscienza religiosa”. Insomma, liquidato – anzi pervertito per dirla con Illich – il cristianesimo, la nostra cultura non ha trovato qualcosa di meglio, anzi è ancora lì curva a picconare il simulacro. Certo, c’è voluto “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto dell’assoggettamento”, ma questo potrebbe essere il punto di svolta.

I teologi, che Bergoglio sprona ad assecondare il fiuto del popolo di Dio (sensus fidelium, in gergo), segnalano il grado di maturazione ecclesiale. Si riparte dunque dai fondamentali, recuperando la più genuina tradizione biblica e respingendo la “rozza semplificazione” fra “un Dio cattivo dell’Antico testamento e un Dio buono del Nuovo testamento”, che “ancor oggi continua a essere utilizzata all’interno di certa apologetica popolare (e persino cultura alta)”, buon ultimo Scalfari. Il tesoro della rivelazione sta lì dentro e non ha smesso di sprigionare la sua energia, quel dinamismo divino che prende il nome di Trinità. Ed è nel suo nome che il monoteismo viene riscattato dalla violenza in favore dell’amore (che “non va confuso con la mancanza di coraggio né indicato come irresponsabile ingenuità”) e della giustizia (quella divina, però, che “mette definitivamente al riparo la vittima delle potenze mondane dalla violenza che ha subìto”). E’ un dramma, la storia, e cristiani non ignorano la dialettica tra lo Spirito e la forza. Proprio per questo non ci stanno a essere ridotti a quel monoteismo intollerante che è un dogma dell’opinione pubblica. Ma anche per i dogmi, è meglio diffidare delle imitazioni.

croce

 

Nel monoteismo cristiano c’è l’antidoto alla violenza

di Pierangelo Sequeri

in “Avvenire” del 17 gennaio 2014

Fino all’altro ieri, ‘monoteismo’ era una categoria d’uso corrente, soprattutto fra i dotti studiosi di storia delle religioni, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di ‘Dio’: di fatto, la concezione del divino più coerente con la filosofia occidentale della ragione, e anche la più degna del pensiero umano del trascendente. In una manciata di anni, ‘monoteismo’ sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.

Le tre religioni monoteistiche dell’area mediterranea (giudaismo, cristianesimo, islam) appaiono così, essenzialmente in virtù di questo presupposto, come il seme radicale della violenza fra gli uomini.

La compulsiva diffusione della formula, che interpreta il monoteismo religioso come l’ideologia radicale della volontà di potenza, è certamente frutto dell’ignoranza. Ma anche una semplificazione grave. La formula è culturalmente nobilitata dagli effetti della nuova recezione progressista di Nietzsche, la cui ossessione antireligiosa ha indotto la tradizionale critica occidentale (greca e cristiana) nei confronti della violenza a rivolgersi contro la verità e il bene: che sarebbero le sue più insidiose coperture. Una parte dell’intellighenzia occidentale si è così applicata con metodo alla denuncia totale della religione, della metafisica, della spiritualità e della morale: indicando il cristianesimo come regista e garante dell’alleanza dispotica che le abita. La critica smantella così, con metodico puntiglio, anche tutti i presìdi del logos che ha storicamente cercato il contenimento della violenza, distraendo la nostra attenzione dalla violenza vera e propria. Questa irresponsabile deriva della cultura chiede nervi saldi e senso critico. È certo che esiste, storicamente, un oscuro rapporto fra le umane tradizioni del sacro e l’oscura pulsione della violenza, che ritorna di generazione in generazione (e la Bibbia spiega anche la ragione dell’umana corruzione del sacro, che sta all’origine di ogni peccato). La violenza è un tema cruciale dell’intera storia umana proprio perché essa è in grado di contaminare anche ogni presidio religioso e razionale del suo contenimento culturale. In questo senso, contrastarla è problema comune e dovere sacro di tutte le culture umane. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione.

La testimonianza riflessiva della fede cristiana nell’unico Dio deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica associata al concetto di monoteismo (insieme con la generale intimidazione nei confronti della religione, che vi si accomoda).

Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, indica esplicitamente questa consapevolezza (come appare chiaramente dal primo capitolo, che ne istruisce i termini). Nondimeno, lo svolgimento del testo è guidato da una convinzione propositiva: la riflessione teologica può e deve trarre dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i princìpi della decostruzione di questo pregiudizio. L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione della violenza omicida in nome di Dio, come fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede. Il successivo sviluppo della riflessione, che illustra le premesse e le implicazioni del nucleo cristiano della rivelazione non-violenta di Dio, è dunque ispirato da una duplice attenzione, la quale marca anche l’attualità della sua istruzione e della sua offerta di sintesi. Da un lato è mantenuta una puntuale attenzione all’articolazione della rivelazione di Dio con l’umanesimo non violento della sua attestazione. Dall’altro lato, speciale cura è dedicata al fatto che la rivelazione dell’intimità e della comunicazione trinitaria dell’unico Dio, lungi dal violarla, custodisce intatta l’unità e semplicità dell’essere divino, sigillandola come perfezione della vita e dell’amore. Il documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate. Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole al disinnesco definitivo di antiche ambivalenze. Il cristianesimo ora ha maturato anche storicamente – ai livelli più alti e autorevoli della coscienza di sé, e della forma del suo annuncio – la serietà irrevocabile dell’interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione fra religione e violenza. Inoltre, chiunque parli in questi termini, oggi – nelle sedi degli incontri interreligiosi, come nelle aule del consesso mondiale dei popoli – parla un linguaggio obiettivamente cristiano. Il compito di essere all’altezza di questo kairòs, anche mediante una teologia più trasparente della sua intrinseca verità cristiana, è un impegno dal quale il cristianesimo, per primo, non potrà più regredire.

Il testo dei 30 teologi, che vengono da ogni parte del mondo, non si limita a incoraggiare gli adoratori di Dio a far seriamente lievitare la testimonianza della religione verso la compiuta separazione dall’anti-umanesimo della violenza. Il loro discorso, non senza un tratto di garbata audacia, si spinge anche a suggerire alla filosofia critica e alla cultura politica dell’epoca di riprendere coraggio, per riscattarsi dalla decostruzione alla quale, mestamente o imperativamente, ci esorta. In altri termini, sembra venuta l’ora di chiudere i conti con il lavoro distruttivo del caos, per riprendere fiducia nel lavoro costruttivo del logos. In ogni modo, ognuno esamini se stesso e risponda onestamente all’appello dei popoli. La teologia cattolica ha fatto la sua mossa

 




il commento di p. Maggi

p. Maggi

ECCO L’AGNELLO DI DIO, COLUI CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO

Commento al Vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (19 gennaio 2013) di p. Alberto Maggi, giornata  – la centesima – dedicata alla riflessione sulle migrazioni (segno che non si tratta di una casuale emergenza ma di una realtà strutturale che va cambiando gli assetti mondiali) : dopo il commento di p. Maggi mi piace inserire una breve riflessione su questa centesima giornata di Tonio dell’Olio di ‘pax christi’:

Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fossemanifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una   colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui chemi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Giovanni cadenza il suo vangelo seguendo il ritmo della creazione secondo il libro della Genesi. E’’ per questo che il brano di oggi inizia con l’espressione “Il giorno dopo”. E’ il secondo giorno e l’evangelista cadenzerà questi giorni fino ad arrivare al settimo giorno, il giorno della completezza della creazione, con le nozze di Cana, dove sarà annunziata la nuova alleanza.

Ebbene, Giovanni Battista “il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio ”.

Giovanni Battista identifica in Gesù l’agnello di Dio, cosa si intende con questo agnello? E’ l’agnello pasquale, quell’agnello che Mosè ordinò al suo popolo di mangiare la notte della Pasqua, perché la carne avrebbe dato la forza per compiere questo cammino verso la liberazione e il sangue di questo agnello avrebbe privato gli ebrei della morte che l’angelo distruttore quella notte avrebbe portato su tutto l’Egitto.

Quindi carne per avere la forza di camminare verso la libertà, e sangue che libera dalla morte.

Ebbene Giovanni l’evangelista vede in Gesù l’agnello di Dio. Sono numerosi i riferimenti nel vangelo su Gesù come agnello pasquale, per esempio la sua morte che sarà la stessa dell’ora nella quale nel tempio venivano sacrificati gli agnelli per la Pasqua, il fatto che a Gesù non sarà spezzato alcun osso, come era stato stabilito per questo agnello pasquale al quale non dovevano essere spezzate le ossa. Quindi Giovanni vede in Gesù l’agnello di Dio, colui la cui carne darà la capacità e la forza di iniziare il cammino verso la libertà, la liberazione e l’esodo, e il sangue, che non salverà dalla morte fisica, ma salverà dalla morte definitiva. Consentirà a chi accoglie questo sangue una vita di una qualità tale capace di superare la morte.

Ebbene, la funzione dell’agnello di Dio, secondo Giovanni, è “colui che toglie il peccato del mondo”.

Non si tratta dei peccati del mondo, che darebbe il significato dei peccati degli uomini, ma il peccato del mondo. C’è un peccato che precede la venuta di Gesù e rappresenta un ostacolo alla comunicazione tra Dio e l’umanità. Questo peccato è il rifiuto dell’offerta di pienezza di vita che Dio offre all’umanità, causato dall’adesione a un sistema ideologico, religioso che è contrario alla volontà di Dio. E Giovanni Battista definisce Gesù come “colui del quale ho detto «Dopo di me viene un uomo ”, quindi per adesso viene presentato soltanto come uomo. Dice che non lo conosceva, ma è venuto “a battezzare nell’acqua perché Gesù fosse manifestato a Israele” Israele sarà stato sempre un piccolo gruppo che è rimasto fedele al Signore, all’alleanza, alle sue promesse, e nel libro del profeta Sofonia si legge “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero, un resto di Israele che confiderà nel nome del Signore”

E a questo resto la promessa del Signore. Ma questa promessa che adesso è per Israele dopo con Gesù si rivolgerà da Israele a tutta l’umanità. “Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito»”, l’articolo determinativo indica la totalità dello Spirito, cioè l’energia divina, la pienezza della forza di Dio, cioè l’amore, «Discendere come una colomba dal cielo»”,  ricordiamo che la colomba rimanda sia allo Spirito che aleggiava sulla creazione nel racconto del Genesi, sia all’affetto della colomba per il suo nido «E rimanere su di lui»”. E’ importante come l’evangelista sottolinei non soltanto il fatto che lo Spirito discenda su Gesù, ma che rimanga. Cosa vuol dire? L’esperienza dello Spirito è possibile a molti, ma solo colui sul quale questo Spirito rimane, questi lo può comunicare all’altro; questa sarà infatti l’attività di Gesù che adesso vedremo «Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito’ »” …  ecco di nuovo l’evangelista sottolinea che, non solo lo Spirito, cioè la forza, la potenza di Dio scende su Gesù, ma su lui rimane. Prosegue letteralmente «’… è colui che battezza nello Spirito Santo’»”.

L’evangelista pone in parallelo l’espressione usata “colui che toglie il peccato del mondo” con “colui che battezza nello Spirito Santo”. Questo peccato non deve essere espiato ma deve essere estirpato. Come? Non attraverso una lotta, non attraverso una violenza. Giovanni ha già scritto nel suo prologo che la luce splende tra le tenebre, la luce non combatte contro le tenebre; la luce si limita a brillare e le tenebre se ne vanno.

L’azione di Gesù è di battezzare nello Spirito Santo. Mentre il battesimo nell’acqua significava immergersi in un liquido che era esterno all’uomo, il battesimo nello Spirito Santo significa lasciarsi impregnare, inzuppare con la pienezza della potenza divina che viene da Dio attraverso Gesù. Quindi l’azione di Gesù è comunicare ad ogni persona la sua stessa vita divina.

Mentre su Gesù scende la forza di Dio, lo Spirito, l’azione di Gesù è quella di battezzare in Spirito Santo; ‘Santo’ indica non solo la qualità, la santità di questo Spirito, ma la sua attività di santificare, cioè separare quanti accolgono questo Spirito, dalla sfera del male, dalla sfera delle tenebre. Quindi l’azione di Gesù è quella di comunicare il suo stesso Spirito.

Una volta che questo Spirito è accolto nella persona, questo diventa una sorgente zampillante che comunica, in maniera crescente, continua e traboccante, la vita divina. E conclude il brano, “«E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Colui che era stato annunziato semplicemente come un uomo , “dopo di me viene un uomo che è davanti a me”, ora viene rivelato come il figlio di Dio.

Una volta che è discesa la pienezza dello Spirito Santo, in Gesù c’è la pienezza della condizione divina e Gesù manifesta pienamente la realtà di Dio.

migranti

Il sesto continente 

Tonio Dell’Olio

Domenica prossima in tutte le chiese cattoliche del mondo sarà celebrata la centesima giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Centesima. Segno che non può essere emergenziale l’attenzione per coloro che sono costretti ad abbandonare la propria terra. Che a buon ragione quello dei migranti deve essere considerato ormai il sesto continente. E che lo sguardo va oltre Lampedusa e si sposta ai mille confini del mondo in cui tanta povera gente gioca a dadi col proprio destino. Per cercare una vita dignitosa per sė e per la propria famiglia. Segno che le migrazioni dei popoli cambiano lingua e rotte, modalità e origine, ma sono endemiche. Ce ne dobbiamo fare una ragione. Al contrario la stragrande maggioranza dei soldi del capitolo immigrazione nel nostro Paese vengono destinati per la gestione dei CIE e per i respingimenti. Briciole, solo briciole, per scuola e servizi sanitari che sono i luoghi in cui si costruisce sicurezza sociale. Una politica miope che non riesce nemmeno ad affrontare il tema in senso planetario, ovvero con accordi internazionali e politiche di cooperazione. E intanto il carico delle vittime si fa insostenibile per le nostre coscienze da Prato a Lampedusa, ma anche dai confini messicani a quelli asiatici. Mi dice padre Giovani La Manna: “Per strappare all’anonimato i morti della notte del 3 ottobre a Lampedusa ho deciso di celebrare ogni giorno una messa per ciascuno di loro e mi sono accorto che sono 368 i morti ufficiali. Non mi basteranno tutti i giorni dell’anno”.