il grido di una ragazza rom: “non siamo così”

Sabrina: “Noi rom non siamo come ci dipingono i media”

Sabrina, 23 anni, vive nel "campo rom" di San Nicolò d'Arcidano, in Sardegna

 

Sabrina, 23 anni, vive nel “campo rom” di San Nicolò d’Arcidano, in Sardegna

Sabrina Milanovic ha 23 anni, è italiana e vive in un “campo rom” a San Nicolò d’Arcidano, in provincia di Oristano, in Sardegna. È stanca dei pregiudizi e degli stereotipi negativi diffusi nei confronti della sua comunità e vorrebbe impegnarsi per promuovere e valorizzare i diritti dei rom nella sua cittadina e nel resto d’Italia.

«Noi rom veniamo continuamente discriminati e questo succede non perché la gente sia cattiva o in malafede. Ma semplicemente perché non ci conosce e di noi sa solo le cose brutte che scrivono i giornali. Ma noi non siamo come ci dipingono i media e non è giusto che per colpa di alcuni a subirne le conseguenze debbano essere tutti i rom»

Dallo scorso ottobre Sabrina frequenta il Corso di formazione per attivisti rom e sinti organizzato dall’Associazione 21 luglio e dal Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC).

«Io voglio fare qualcosa in prima persona per combattere contro i pregiudizi nei confronti del mio popolo, per affermare i nostri diritti e per promuovere un’immagine differente di noi».

A San Nicolò d’Arcidano, la comunità rom è costituita da circa un centinaio di persone, il 3,5% della popolazione totale, composta da 2.800 abitanti. Dal 2011 i rom vivono in un nuovo “campo” dopo che un incendio aveva distrutto l’insediamento provvisorio in cui viveva la comunità.

Sabrina non vorrebbe vivere in un “campo” ma in una casa come ogni altro cittadino italiano.

«Vivere in un campo vuol dire vivere la vita in maniera amplificata. Le casette sono tutte attaccate e non hai un minimo di privacy».

Nel “campo” di San Nicolò d’Arcidano, “campo” realizzato dal Comune, gli abitanti rom vivono in baracche di40 mq ciascuna all’interno delle quali, in alcuni casi, arrivano a dividere lo spazio anche 11 persone.

Secondo il Comitato per la Prevenzione della Tortura, istituito dal Consiglio d’Europa, lo spazio minimo nelle celle per ogni detenuto dovrebbe essere di 7 mq, cioè il doppio dello spazio a disposizione di alcuni residenti rom nel “campo” in provincia di Oristano.

Per Sabrina la strada per rafforzare i diritti delle comunità rom passa attraverso il lavoro.

«Bisogna che anche i rom abbiano opportunità lavorative. Questo servirà a combattere i pregiudizi, a favorire l’integrazione e il vivere insieme. In questo modo potremo non essere più giudicati per quello che non siamo».

(dal sito di ’21 luglio’)




vicesindaco pd sequestra gli spiccioli dei mendicanti!

Guerra ai mendicanti

sequestrate le elemosine

mendicante-bressanone-tuttacronaca

 

come già a Venezia, ora anche a Bressanone:l’amministrazione di sinistra impedisce a mendicanti di raccogliere offerte fuori da chiese e cimiteri, anzi sequestra loro le monetine ricevute

meno male che la caritas locale ne prende criticamente le distanze ricordando a queste amministrazioni che “occorre combattere la povertà non i poveri”

iVietato l’accattonaggio davanti alle chiese ed ai cimiteri. Ancora più vietato, poi, se i mendicanti sono troppi ed eccessivamente aggressivi, come dicono i cittadini. Per questo motivo le autorità di Bressanone sono passate alla linea dura e hanno sequestrato le elemosine. Secondo il vicesindaco Gianlorenzo Pedron (Pd), “l’iniziativa si è resa necessaria per evitare le molestie che i mendicanti arrecano, specie alle persone anziane”. Spiega Pedron: “Vi sono anziane che non hanno più il coraggio di andare al cimitero per ricordare i loro defunti perché davanti all’ingresso c’è chi chiede soldi anche per riempire un annaffiatoio”. Al momento, sono state una decina le confische dell’elemosina. In passato a una simile contromisura aveva fatto ricorso anche il Comune di Venezia, ma era stato poi bocciato dal Consiglio di Stato. Molte però le critiche e le proteste ricevute, soprattutto da parte della Caritas, che sottolinea anche l’ingiustificato sequestro delle monete elemosinate”: occorre combattere la povertà, non i poveri”. “Non intendiamo fare gli sceriffi, ma solo far rispettare la legge”, ribate il vicesindaco Pedron.




dimissioni di papa Francesco?

i due papi

 

strillata così da ‘Libero’più che una notizia è una bomba che fa pensare a chissà che cosa, a quali intrighi e bocciature drestiche e insuperabili dentro i sacri palazzi, che magari poi ci sono, ma non nel senso di ‘obbligare’ il papa a delle dimissioni a breve per impossibilità di procedere sulla via del cambiamento e della ‘rivoluzione’ intrapresa … in realtà si tratta né più né meno di proseguire una linea realistica della presa d’atto , quando sarà l’ora, di condizioni psicofisiche che non consentono di ricoprire al meglio il proprio ruolo: in questo sicuramente papa Francesco non sarebbe da meno di altri …

Bergoglio come Ratzinger?

Voci di possibili dimissioni

 

Bergoglio come Ratzinger? Dimissioni a breve di Papa Francesco sulla scia del suo illustre predecessore?
 L’ipotesi a prima vista potrebbe sembrare fantascientifica o clamorosa a seconda dei punti di vista. Però viene prese in considerazione da un paio di fonti illustri.
 In primis Guillermo Marcò, ex portavoce di Papa Francesco quando ancora era arcivescovo di Buenos Aires. “Dopo il gesto di Benedetto non sembrerebbe strano che Francesco rinunciasse, dopo aver fatto quello che pensava di dover fare e se sente che la sua forza si sta indebolendo”, ha spiegato nel corso di un’intervista radiofonica. Un Pontefice “possa dimettersi, come fanno i vescovi, sarebbe positivo, perché permetterebbe di nominare successivamente gente più giovane”.
Pensiero molto simile a quello di Caroline Pigozzi, la giornalista francese che ha firmato insieme al gesuita Henri Madelin «Ainsi fait-il», un volume sulla figura di Francesco. La cronista e scrittrice oltre al precedente aggiunge anche la tradizione della Compagnia di Gesù. “Credo che Francesco abbia una visione tutta sua del potere, una visione gesuita e personale. E’ arrivato tardi, ha una missione da compiere e sa quello che fa”, ha detto Pigozzi, in un’intervista a Infobae, aggiungendo che “il giorno che sente che non può andare oltre, che le forze lo stanno abbandonando, potrebbe andarsene, come ha fatto il suo predecessore”.
Secondo la sua visione questa diventerà “una nuova regola nel Vaticano”, perché se Francesco si dimettesse anche lui creerebbe “in questo modo un fatto storico, che entrerebbe a far parte della consuetudine nel Vaticano”.



A. Paoli visto da V. Mancuso

paoli

 

Vito Mancuso riflette sul nuovo libro di Arturo Paoli: ‘cent’anni di fraternità’ presentando tutta la sua vita come una vita da teologo della libertà

Arturo Paoli, una vita da teologo della libertà
di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 2 dicembre 2013
Escono i ricordi del “profeta” del cristianesimo senza potere che ha compiuto 101 anni.
‘Cent’annidi fraternità’

Cent’anni di fraternità è il nuovo bellissimo libro di Arturo Paoli, un titolo che suona come una
metafora dell’esistenza in contrapposizione ai Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez, ma che
certifica anche una vita individuale che il 30 novembre scorso ha compiuto 101 anni. Nato a Lucca
nel 1912, sacerdote, medaglia d’oro al valor civile e giusto tra le nazioni per aver salvato molti
ebrei, Paoli risulta presto sgradito alla chiesa di Pio XII e viene allontanato dall’Italia. Va in
Argentina dove trascorre 13 anni e finisce tra le liste dei condannati a morte del regime, si salva
andando in Venezuela dove rimane 12 anni, poi in Brasile dove passa vent’anni, torna in Italia nel
2005.
Maestro spirituale, profeta mite e severo, autore di numerosi libri che mostrano vasta cultura e uno
stile letterario affascinante, la sua opera è un’anticipazione profetica e una coerente applicazione
della Teologia della liberazione. In gioco vi sono due liberazioni, la prima riguarda i poveri e gli
sfruttati del pianeta perché «tutto il Vangelo è una denuncia contro coloro che stanno sopra», perché
«Dio si trasforma in un’immagine tirannica se l’uomo non lo raggiunge per il cammino della
relazione con gli altri», perché se è vero che esiste una dimensione della vita più profonda della
sfera economica è ancora più vero che «rinunziare a guardare in faccia l’economico è come
svuotare la croce di Cristo». Il segno più chiaro dell’identificazione con Cristo ha molto a che fare
con l’economia, il Vangelo la chiama fame e sete di giustizia.
La seconda liberazione promossa da Arturo Paoli riguarda lo stesso cristianesimo, spesso ridotto a
ideologia che difende i privilegi dei potenti e che va riscattato da tale alienazione. Questo
cristianesimo ecclesiastico nemico della liberazione degli uomini si manifesta nelle idee «che hanno
portato i vescovi dell’Argentina ad aderire con un tacito assenso alla furia diabolica dei militari…
con la complicità della Nunziatura apostolica, dunque del Vaticano». Nessuno può ignorare infatti
che «i generali argentini si dichiaravano cattolici», «paladini della civiltà occidentale cristiana», né
può essere un caso che lungo la storia dell’umanità «le nazioni cristiane sono quelle che hanno
creato più guerre».
Parole durissime, di un uomo sempre pacifico e sorridente ma che non fa sconti quando c’è di
mezzo la giustizia, raro profeta all’interno di un cattolicesimo italiano così schiacciato sui calcoli
politici e sempre generosamente ossequioso verso il potere. Arturo Paoli al contrario è sempre stato
amico dei poveri, mai dei potenti, lo dimostrano le pagine di critica esplicita verso Karol Woytjla e
Joseph Ratzinger per l’opera di demolizione della Teologia della liberazione e delle comunità
ecclesiali di base. Temevano la contaminazione marxista, «però quelli che parlano di questi pericoli,
non sono forse nel pericolo di far convivere tranquillamente la fede cristiana con l’ingiustizia e
l’oppressione?».
Oggi l’anziano profeta scrive che «con papa Francesco sembra inaugurarsi uno stile nuovo di vita»
e si dichiara «felice di ricevere dalla Chiesa l’elogio della Teologia della liberazione di cui sono
stato fedele seguace». Attenzione però, niente mezze misure, perché occorre «rifondare un
cristianesimo nuovo» e al riguardo Arturo Paoli non teme di affrontare il nesso strutturale del
cristianesimo ecclesiastico, cioè la dottrina peccato originale-redenzione. Egli denuncia che Gesù è
troppo schiacciato sul ruolo espiatorio del peccato, mentre «la sua vera missione è quella di
amorizer le monde, non quella di pagare il prezzo di espiazione dei nostri peccati». Gesù è il
maestro dell’amare, non la vittima immolata per la nostra redenzione al fine di rimediare ai danni di
un inesistente peccato originale.
Ma c’è un’ulteriore liberazione per cui lavora il cuore instancabile di Arturo Paoli: si tratta del nostro tempo imprigionato dalla tecnica, in particolare dell’anima dei giovani. Dichiarando di voler
aiutare i giovani «a uscire da questa incredulità generale», confessa: «Devo essere lieto in un mondo
sempre più triste». Egli sa bene infatti che è solo la gioia a poter veramente educare, e per questo
suggella il libro con parole di grande spiritualità: «Più viviamo nella meravigliosa profondità della
vita interiore, più scopriamo che lì si trovano i veri beni dell’essere umano: la sua libertà, la sua
pace, la sua gioia».
Conosco da tempo Arturo Paoli, l’ultima volta l’ho incontrato un mese fa, mi ha detto sorridendo
che non rimpiange nulla della sua vita e che rifarebbe tutto, e io penso che questa sia la più grande
beatitudine. Se il papa argentino si ricordasse di questo padre della Chiesa povera, farebbe il regalo
più bello ai suoi cent’anni di fraternità.




il grido di mons. Bregantini

evan gau

Evangelii Gaudium, mons. Bregantini: “Non lasciamo da solo il Papa!”

 

 “Il vero rischio oggi, di fronte a un documento così innovativo come la Evangelii Gaudium di Papa Francesco, non è quello di contestare ciò che scrive il vescovo di Roma, ma di ignorarlo”. Così,mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso-Bojano, commenta l’esortazione apostolica sulla gioia del Vangelo appena pubblicata dal Pontefice. Il vescovo si spiega con una similitudine calcistica: “E’ come se nella squadra della Chiesa fosse entrato un nuovo giocatore, Papa Bergoglio, che scombina tutti gli schemi di gioco, ma segna molti goal e assicura molte vittorie alla sua compagine”. “Siccome però lui è il goleador, rischiamo di voler lasciare solo a lui questo compito, mentre noi ci limitiamo ad osservare a bordo campo. L’appello che il Papa ci rivolge nell’Evangelii Gaudium è invece proprio di non lasciarlo da solo. Lui ha impostato il gioco, l’ha rilanciato, ma serve una squadra compatta, non basta un fuoriclasse”.“Rivolgo perciò un invito ai cardinali, ai vescovi – conclude mons. Bregantini – a non lasciare solo Papa Francesco. Non limitiamoci ad ammirarlo, ma aiutiamolo nella concretezza e nella fatica quotidiana”. Si dice “confortato e commosso”, dalla lettura dell’Evangelii Gaudium, Sergio Tanzarella, storico della Chiesa, docente alla Pontificia Facoltà dell’Italia meridionale e alla Gregoriana. “Sono parole che attendevamo da molto tempo. Il Papa aveva anticipato molti concetti nei primi otto mesi di pontificato, ma vederli tutti insieme in un documento fa un’impressione notevole”. “Un testo – spiega Tanzarella – che invita più a una vera e propria trasformazione audace e creativa, che a un semplice rinnovamento. Ripensare obiettivi, strutture, stile e metodo di evangelizzazione”. “Qui non si tratta di un documento con un programma del pontificato, come ce ne sono stati di bellissimi in passato. Qui c’è un vero e proprio programma per la Chiesa”, aggiunge Tanzarella. “Siamo davanti a quella che definirei una svolta, perché pone in crisi una prassi che il Papa riconosce non adeguata al compito principale, se non unico, della Chiesa che è quello dell’evangelizzazione. E ricorda come questo compito riguardi tutti, non solo qualche categoria, non ci sono i delegati dell’evangelizzazione, ma tutti i cristiani debbono dare testimonianza. E a rafforzare le sue esortazioni Francesco ci spiega che non si tratta della sua opinione, o di semplici opzioni pastorali, ma di indicazioni della Parola di Dio”. (a cura di Fabio Colagrande)



nomade per cercare lavoro

Io, rom, sono nomade per cercare lavoro

Intervista a Dolores Barbetta

Dolores

le difficoltà dei rom – e anche di una di loro particolarmente favorita e avvantaggiata, laureata e mai stata in un ‘campo nomadi’ – rappresentate al ministro Boldrini
un resoconto dell”associazione 21 luglio’ che ha organizzato l’incontro

Al liceo i compagni di classe si stupivano che non portasse le gonne lunghe delle zingare e che vivesse in una casa con quattro mura e un bagno. D’altronde suo padre, operaio Fiat a Melfi, quando era piccola le ripeteva che avrebbe sempre incontrato persone ottuse e ignoranti. Glielo diceva in romanés, la lingua dei rom, la stessa con la quale ora Dolores Barbetta si rivolge alle nomadi che chiedono l’elemosina in metropolitana: lontane anni luce dalla sua esperienza di vita ma vicine nella tradizione culturale.

“Non sono mai entrata in un campo rom”, confessa questa ragazza di 27 anni, laureata in lettere e residente a Roma, che lunedì varcherà il portone di Montecitorio per incontrare la presidente Laura Boldrini in occasione della Giornata internazionale dei Rom e dei Sinti. Con lei un gruppo di ragazzi rom dell’Associazione 21 luglio: una vittima degli sgomberi forzati, uno studente di Milano, una madre residente in un campo rom romano e un apolide.

associaz 21 luglio

Dolores dice che in quel momento, mentre entrerà alla Camera, si sentirà «una mosca bianca»: «So che la mia vita, la mia realtà, le mie giornate sono completamente diverse e molto più fortunate della stragrande maggioranza dei rom che vivono in Italia». Dolores sta frequentando un corso di ripresa e montaggio: vorrebbe girare presto docu-film. Legge con passione i romanzi di Irène Némirovski e Haruki Murakami. Come moltissimi suoi coetanei, teme di dovere fare le valigie e andare all’estero per trovare un lavoro. E sulla crisi politica dice: «Grillo era una grande speranza e invece sta facendo il despota».

Cosa dirà a Laura Boldrini? Dirò che i rom hanno bisogno di integrazione e gli apolidi, nati in Italia da profughi della ex Jugoslavia, hanno bisogno della cittadinanza italiana. I bambini che vivono segregati in questi ghetti vengono portati a scuola da autobus con una R sulla fiancata, vivono molto lontani dai centri abitati e non possono giocare e fare i compiti con i loro compagni come succedeva a me, a Melfi.

A Melfi esiste una nutrita comunità rom. La sua famiglia ha subito discriminazioni? I rom vivono a Melfi dal 1600. Viviamo tutti negli appartamenti, siamo italiani e abbiamo naturalmente la cittadinanza. Eppure i gagé (i non-rom, ndr) ancora oggi ci guardano con diffidenza. Per esempio i miei nonni materni non volevano che mia madre sposasse “uno zingaro” ma poi il matrimonio si è celebrato ugualmente. E quando si gioca a calcio e arriva una squadra da un’altra città allora partono i cori dei tifosi contro gli zingari. Da piccola mi vergognavo di essere rom ma poco a poco ho capito che questa è la mia cultura di appartenenza e ne sono orgogliosa: i miei bisnonni erano realmente nomadi e giravano la Puglia in carovana, mio nonno lavorava con i cavalli, le mie zie hanno molti figli, una addirittura 13. Io invece sono figlia unica. Ma sogno di avere almeno tre o quattro bambini. Per noi la famiglia è importante, un rifugio che ripara anche dalla diffidenza ma che può ostacolare l’integrazione.

Fatica a dire che è rom agli estranei? No. Lo dico con orgoglio, non mi nascondo. Per fortuna ho amici che mi vogliono bene e raramente ho incontrato persone razziste. L’episodio che mi ha fatto soffrire maggiormente è capitato a quattordici anni, quando un ragazzino che si era invaghito mi scrisse un messaggio per invitarmi a uscire. Gli risposi che non mi andava, e allora si sfogò: “Sei solo una brutta zingara, perché te la tiri tanto?”. I miei genitori mi hanno sempre parlato delle discriminazioni che avrei potuto subire.

Perché non ha mai visitato un campo rom? Lo farò presto. Sto frequentando un corso di montaggio e regia, la mia passione, ma potrei cominciare a lavorare come mediatrice culturale perché conosco il romanés. E quando incontro una nomade che chiede l’elemosina non riesco a sopprimere la mia curiosità, mi avvicino e comincio a parlare con lei per sentire parlare la nostra lingua. È il legame che unisce le comunità rom, un’eredità che non riuscirò a trasmettere ai miei figli: la capisco bene ma la parlo male. E non c’è modo di recuperarla, perché è una lingua non scritta, non esiste una grammatica.

Come si sente quando i rom vengono definiti ladri e criminali? È una strumentalizzazione politica. Lo so che i rom non sono tutti santi, ma è come se dicessimo che tutti gli ebrei sono ricchi. Penso che se i rom finalmente potessero vivere nelle case, se gli italiani capissero che un rom può laurearsi e vestirsi come tutti gli altri, allora le cose cambierebbero.

Vive a Roma da molti anni, sarà per sempre? Roma è una grande città del Sud, una mamma che ti vizia troppo e ti culla. Questo mi fa felice. Ma è anche una città immobile, i romani stanno sempre in macchina, pigri e arrabbiati. Potrei andare a vivere a Milano oppure a Berlino. Se non troverò un lavoro dovrò andarmene, come tanti. Ho votato a sinistra e pensavo che Grillo fosse una speranza ma si sta rivelando un despota. L’Italia ha bisogno di cambiare in fretta.

(Claudio Stasolla, il presidente dell’associazione 21 luglio che ha organizzato l’incontro dei rom con Laura Boldrini, suggerisce a giornalisti e lettori di sostituire durante la lettura dell’articolo la parola “ebreo” alla parola “rom”. Soltanto così, dice, è possibile comprendere l’abisso di discriminazione subita dai cosiddetti nomadi).




tutti gli oppressi gridano! intervista a Boff

Boff

 

una bellissima intervista, anzi un vibrante grido di L. Boff per la liberazione di ogni oppresso: i poveri, gli sfruttati, i dissidenti, gli indigeni, le donne, i discriminati … ma anche gli alberi, la natura, gli animali

la terra tutta grida! l’opzione preferenziale per i poveri si allarga a misura della difesa di tutta la terra

 

Il grido degli oppressi

intervista a Leonardo Boff

a cura di Sonia Zuccolotto

in “Mosaico di pace” del novembre 2013

In uno scenario di straordinaria accoglienza e di calore, quello del Centro di accoglienza e promozione culturale Ernesto Balducci di Zugliano, abbiamo incontrato, in esclusiva per i lettori e le lettrici di Mosaico di Pace, Leonardo Boff, grande teologo, tra i padri della Teologia della Liberazione. Gli abbiamo rivolto alcune domande, per abbozzare con lui un excursus degli ultimi
anni della Chiesa e per accennare alle nuove possibili prospettive che si intravedono. Per una liberazione autentica, delle persone e dei popoli.

Papa Francesco è un latinoamericano, un Papa “nuovo” e vicino alla gente. Cosa ne pensa?
Quali sogni ha lei nel cassetto? Quali urgenze per la Chiesa di oggi?
Io penso che papa Francesco, prima di fare la riforma della curia, abbia cominciato a lavorare per
una riforma del papato, perché di solito, quando uno è eletto Papa, deve seguire un certo rituale
tenendo conto di tutti i simboli storici. Deve assumere i simboli del potere (alcuni di questi simboli
sono espressione del potere supremo legato alla figura del pontefice). Francesco ha lasciato cadere
tutto ciò adattando il papato alle sue convinzioni e al suo stile. Il nome Francesco è un emblema
perché è il nome di una Chiesa povera, di una umanità più semplice e aperta a tutti con una
sensibilità speciale per la natura. Dunque, questo Papa si sta profilando davvero come una speranza
per la Chiesa. Farà sicuramente una riforma della curia, ma prima deve operare una riforma del
papato. Non sarà facile, ma lui è intelligente e ha scelto altri otto cardinali che, insieme e a lui, sono
proiettati verso questo progetto di una vera riforma della Chiesa. Una riforma collegiale. E questa è
un’altra novità di questo processo ed è forse più facile così che procedendo alla organizzazione
strutturale con una commissione interna. Francesco, però, è anche una speranza per il mondo — e
non solo per la Chiesa — perché i suoi discorsi sulla pace e sulla guerra gli conferiscono
l’autorevolezza di un leader mondiale non autoritario, con un grande carisma e una capacità di
comunicazione. Egli sa coniugare lo spirituale con il sociale, il mondiale con il locale. È una
promessa e, nello stesso tempo, una benedizione divina.
Lo si è visto durante la giornata di digiuno e di preghiera da lui indetta per la pace in Siria. È
stato un gesto che ha toccato il cuore delle persone e che dà speranza per il futuro. Le chiedo
qualche parola in merito alla Teologia della Liberazione. Come e cosa è cambiato oggi e quali
sono le priorità nel tempo attuale?
La Teologia della Liberazione (TdL) è nata ascoltando il grido dei poveri. I poveri, gli sfruttati, i
dissidenti, gli indigeni, le donne sotto il patriarcato, i discriminati… Questi poveri gridano e si
sentono oppressi. Contro l’oppressione è nata la Teologia della Liberazione. E per noi la liberazione
è parte del messaggio cristiano, della tradizione profetica, della parola di Gesù. Marx non è mai
stato il padre o il padrino della TdL e noi non lo abbiamo mai “sfruttato” in tal senso. Oggi non ci
sono solo le persone che gridano, ma anche gli alberi, le piante, gli animali. La terra tutta grida.
Quindi oggi bisogna considerare che, accanto all’opzione preferenziale per i poveri, che è il punto
centrale su cui è nata e si è sviluppata la TdL, c’è il bene più ampio che è la difesa della terra.
Adesso si sta elaborando una grande, forte eco-teologia della liberazione, che rappresenta il futuro
di questo cammino di riflessione a partire dalla parola di Dio che sta dalla parte delle creature
oppresse, gli uomini e l’ambiente naturale che ci circonda.
Come è arrivato all’elaborazione di una teologia che abbia a cuore il creato? Dai poveri e
dalla lotta al capitalismo, come è approdato a questa sensibilità ecologica?
Come ho detto, la stessa logica di oppressione che sfrutta le persone, le classi, i Paesi, sfrutta anche
la natura. Sfrutta la terra in un modo e in un tempo illimitati. Cosa vuol dire questo? È in corso un
processo d’appropriazione indebita delle risorse della terra, di devastazione dell’equilibrio ecologico. È una logica “industrialista”, di estremo consumismo… Siamo arrivati al punto da sentire
i limiti della terra. La terra ora ha bisogno di un anno e mezzo per ricomporre quanto gli abbiamo
sottratto in un anno. Quindi, il sistema non è più sostenibile. La terra è ammalata. La forma con cui
si manifesta questa malattia è il riscaldamento globale, gli eventi estremi naturali che colpiscono
alcune zone del mondo, gli sbalzi climatici. Abbiamo capito che la Terra è essa stessa un’oppressa e
che, in quanto tale, grida. E così abbiamo aperto il discorso della TdL anche alla natura e
all’ecologia, includendo la sua tutela. Il pianeta Terra è l’unica casa comune che abbiamo.
La sua appartenenza ecclesiale è stata piuttosto controversa e faticosa. Ma lei è sempre stato
fedele al Vangelo e al messaggio di liberazione dei poveri intrinseco nella parola e nella vita di
Cristo. Come vive oggi questi “contrasti”?
Ho avuto alcuni problemi con il Vaticano e con la Congregazione della Fede. Alla radice c’era un
mio libro dal titolo Chiesa, carisma e potere. Questo libro provava ad applicare i principi della TdL
nei rapporti interni alla Chiesa. Si intuiva bene che la Chiesa non rispetta così bene i rapporti umani,
non mette i laici tutti sullo stesso piano, non accetta la parità della donna. C’è una centralizzazione
molto forte del potere e questo porta a una specie di autoritarismo. La Chiesa può parlare di forma
credibile di liberazione nella società quando essa stessa si apre alla libertà dei rapporti… Così Roma
non ha mai accettato questi discorsi e mi criticava dicendomi che questa impostazione è protestante.
Io ho sempre detto che è un discorso analitico e cristiano. Mi hanno imposto il silenzio e, dopo
alcuni anni, mi volevano imporre di allontanarmi dall’America Latina. Dovevo scegliere tra Corea e
Filippine. Ho detto che lo avrei fatto. Sono un frate e ci sarei andato. Ma ho chiesto anche se lì avrei
potuto insegnare teologia, scrivere e parlare liberamente. Mi hanno risposto di no, che avrei potuto
solo esercitare il ministero e fare il missionario. Ho replicato che non avrei potuto rinunciare alla
teologia perché studio e insegno da cinquant’anni. E così ho dovuto rinunciare al sacerdozio e a
essere frate francescano. Però non ho lasciato la Chiesa, ma solo una funzione che ricoprivo prima:
la funzione di prete. Ho continuato a lavorare come teologo e diversi vescovi mi hanno sempre
accompagnato e sostenuto e continuo con la teologia che amo. Dopo tanti anni vedo i vantaggi
dell’essere laico perché ho un approccio più aperto di tanti sacerdoti. Porto avanti ugualmente il
Vangelo e il messaggio cristiano. Adesso mi occupo molto di etica, spiritualità e di ecologia.
Il prossimo anno si celebreranno i 40 anni dalla morte di Frei Tito Alencar da Lima,
violentemente torturato durante la dittatura degli anni Settanta in Brasile. Ci può tracciare
un suo profilo?
Frei Tito è stato un frate domenicano molto impegnato accanto ad altri domenicani, come frei Betto,
che si opponevano fortemente alla dittatura militare. Avevano elaborato una strategia per salvare la
vita dei perseguitati che sicuramente sarebbero stati torturati e uccisi. Li facevano fuggire dal sud
del Brasile, attraverso l’Uruguay. Frei Tito era uno di questi: è stato imprigionato, terribilmente
torturato.
Il torturatore gli diceva che lo avrebbe torturato in un modo così brutale e profondo che la sua
persona, la sua immagine, gli sarebbe stata sempre “dentro”. Questo atteggiamento, questa pratica
violenta si studia anche in psicologia. E il torturatore è riuscito nel suo intento. Così quando frei
Tito era in Francia, dove è arrivato da esiliato, continuava a gridare contro i suoi torturatori. Finché
non si è tolto la vita lasciando in eredità queste parole: “È meglio morire, piuttosto che perdere la
dignità e la vita…”. È un martire vivo, vittima delle terribili strategie di tortura applicate in tanti
Paesi latinoamericani fino a toccare l’estrema solitudine dell’essere umano. Fino a togliergli la
libertà di vivere. Questa è la più grande atrocità che l’uomo abbia mai potuto mettere in piedi.




Arturo Paoli fratello e amico

paoli

 

La via della fraternità e l’ottimismo evangelico di Arturo Paoli

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire” del 29 novembre 

(detto tra parentesi e sottovoce: fa piacere costatare che ‘Avvenire’ riscopra  oggi persone e situazioni che sembrava fino a qualche mese fa ignorare o non valorizzare adeguatamente; papa Francesco senbra che sia in questo proprio miracoloso … )

Chi vanno a trovare i ragazzi che, ogni sera, bussano alla porta dell’antica casa di pietra di San
Martino di Vignale? Non è facile definire in una parola Arturo Paoli: sacerdote, piccolo fratello di
Charles de Foucauld, ‘giusto tra le nazioni’ per aver salvato centinaia di ebrei dalle persecuzioni
naziste, testimone delle grandi tragedie degli ultimi cinquant’anni da un osservatorio privilegiato,
l’America Latina. Eppure, per adolescenti, universitari, giovani professionisti (spesso non devoti né
praticanti e, a volte, nemmeno credenti), l’uomo che li accoglie nella campagna lucchese, per
condividere un pensiero, un bicchiere di vino o una preghiera, è solo ‘un amico’. Non c’è definizione
più propria per fratel Arturo. Che, per tutta la vita, ha cercato di essere ‘amico’ delle donne e degli
uomini del suo tempo. A imitazione dell’Amico, il vero e più grande amico dell’umanità, quello che
De Foucault chiamava «il Modello Unico»: Gesù. La riflessione sull’amicizia, come quotidiana
prosecuzione evangelica del progetto di Dio, costituisce il cuore di Cent’anni di fraternità, l’ultimo
libro di Paoli appena pubblicato da Chiare Lettere (pagine 168, euro 12). Un mosaico composto da
brani di alcune delle più famose opere pubblicate dal religioso nell’ultimo mezzo secolo. E
arricchito dalle riflessioni scritte, rigorosamente a mano, su un quaderno tenuto sempre sulle
ginocchia, nel suo centesimo inverno di vita. Parole principalmente rivolte ai giovani e pertanto
«difficili e rischiose – afferma, nel cominciare –. È questa una generazione incredula, ma Tu saprai
trovare e dettarmi le verità che romperanno la durezza dei cuori».
Perché questa è anche una generazione spaventata, confusa e affamata di speranza. A lei fratel
Arturo si dirige per dirle che, mutuando l’espressione del gesuita Teilhard de Chardin, è ancora
possibile, e forse più che mai necessario, «amorizzare il mondo». A partire dalla relazione, o
meglio, dalla fraternità.
«Io sono un difensore e seguace del motto ‘guai all’uomo solo’», scrive Paoli, capovolgendo lo
slogan sartriano «gli altri sono l’inferno». Perché «l’essere umano vero è l’uomo per gli altri. La
relazione autentica è quella rivolta verso il futuro». Un concetto non molto diverso da quello scritto
34 anni fa e riportato nella prima parte di Cent’anni di fraternità . A chi gli dice che il mondo non
ha domani e profetizza, non senza fondamento, nuovi disastri e sciagure nucleari (siamo nel 1980),
il religioso risponde: «Che importa se viene il diluvio? L’importante è che ci trovi nell’arca».
Che cosa intenda con questa espressione è subito spiegato.
«Qualunque sia il destino del mondo», afferma, conta solo il fatto che l’avvenimento ci trovi «in
questa ricerca attiva e dinamica del regno, in questa ricerca di costruire le relazioni fra gli uomini.
Non è questa la vera arca di oggi?». Di fronte ai conflitti, ai genocidi, alle pulizie etniche, alle
dittature «folli e dementi» (drammi che Paoli ha conosciuto da vicino), in una parola: alle infinite
manifestazioni del male, la fede resta rifugio inespugnabile. Arturo, l’’anticonformista resistente’,
come lo definisce il premio Nobel per la Pace argentino, Adolfo Pérez Esquivel nella postfazione,
non parla di un principio teorico, bensì della fede «che s’incarna nelle parole giustizia e carità».
L’unica forza davvero in grado, a dispetto dei catastrofisti, di ‘amorizzare il mondo’. A 101 anni che
compie oggi, fratel Arturo resta un ostinato ottimista. Non un ottimista sprovveduto, un ottimista
evangelico.




i pregiudizi dei politici

 la «calata degli zingari»!

 

alcuni ‘nomadi’ fermatisi nei giorni scorsi a Spinetta Marengo (Alessandria) hanno fatto scattare la reazione indignata del dirigente provinciale del pdl di Alessandria Mario Bocchio che si è espresso in modo preoccupato col termine ‘calata’ degli zingari su Alessandria, confondendoli addirittura cogli Unni o i Goti o i Lanzichenecchi …

Il Dirigente provinciale del PdL Mario Bocchio (Alessandria), lo scorso 26 settembre ha espresso il proprio malcontento per la presenza di “nomadi” a Spinetta Marengo, dichiarando: «La “calata” degli zingari su Alessandria? Sembrerebbe proprio di sì […] Non è logico che vengano spesi i soldi delle tasse dei nostri cittadini per rimediare ai danni che causano queste persone. Mi auguro che possa venire individuata una rapida soluzione, che non può che essere lo sgombero immediato e l’adozione di un’apposita ordinanza che vieti la sosta degli zingari sul territorio comunale di Alessandria. Questa città ha già altri problemi alquanto gravi, e non vedo la necessità che ci si interessi anche dei nomadi».

la reazione e la denuncia  dell’Associazione 21 luglio

Le affermazioni del Dirigente provinciale del PdL, per le generalizzazioni effettuate e per i toni adottati, oltre a connotare indistintamente la mera presenza di persone rom come un “problema”, contribuiscono ad alimentare un’atmosfera di ostilità e di allarme sociale infondato. Infine, cavalcando lo stereotipo “rom = zingaro = nomade = problema”, il Dirigente provinciale del PdL di Alessandria delinea la sua proposta di “soluzione”, che per come esposta si connoterebbe comeuna misura dal profilo discriminatorio su base etnica.

Dopo aver valutato l’episodio, l’équipe dell’Osservatorio ha inoltrato una segnalazione agli organi competenti.

FonteTuonoNews




la lunga storia letteraria del pregiudizio ‘rom ruba bambini’

rom ruba bambini

 

nei giorni scorsi diversi episodi sono stati il pretesto per mass media e social media per cavalcare di nuovo il pregiudizio del ‘rom ruba bambini’

a S. Bontempelli (su ‘il Corriere delle migrazioni’ del 25 novembre 2013) si deve questa bella e puntuale ricostruzione dell’origine di questa falsa leggenda, di un vero mito che vanta addirittura una lunga storia letteraria:

 

“i rom non rubano i partiti”

Quella della “zingara rapitrice” è una falsa leggenda, ormai lo sanno (quasi) tutti. Ma pochi conoscono l’origine di questo mito, che risale all’età moderna e ha una lunga storia letteraria.

A volte i fatti di cronaca sono molto istruttivi. A volte, non sempre. Il 19 ottobre scorso, a Farsala in Grecia, i poliziotti trovano una bambina bionda in un insediamento rom. E siccome i rom – così pensano gli agenti – non possono essere biondi, la bambina sarà stata senz’altro rubata. Parte la caccia ai “veri” genitori, che vengono rintracciati nel giro di pochi giorni: si tratta di una coppia di rom bulgari, anche loro tutt’altro che biondi. La bambina non è stata rubata, ma ceduta dalla famiglia di origine, che non poteva mantenerla.
Due giorni dopo, la polizia irlandese ferma una coppia di rom a Dublino e trattiene la loro piccola figlia, anche lei “troppo bionda per essere zingara”. Ma il caso si sgonfia subito: il test del Dna rivela che i due rom sono i genitori “naturali” della piccola.
Il 3 novembre, Il Messaggero riporta la notizia di una rom bulgara che avrebbe tentato di rapire un neonato a Roma. La presunta rapitrice verrebbe dai dintorni di Napoli, dal «campo nomadi di Striano». Bastano poche ore per capire che si tratta di una bufala: a seguito di una rapida verifica, l’Associazione 21 Luglio scopre che non esiste nessun «campo nomadi di Striano», mentre un articolo del giornale online Giornalettismo ridimensionava l’ipotesi del rapimento. La donna – che probabilmente non era rom – era in evidente stato confusionale, e la sua volontà di “sottrarre” il bambino è tutta da verificare.

I rom non rubano i bambini…
Tre episodi di rapimento, rivelatesi tre colossali bufale. Ancora una volta, la storia degli “zingari” che portano via i bambini si rivela per quello che è: una leggenda metropolitana.
Del resto, che i rom non rubino i neonati lo sanno tutti. O, almeno, tutte le persone serie e minimamente informate. Anche perché sul tema si è accumulata una corposa letteratura: dossier, reportage, rilevazioni statistiche, studi e ricerche sistematiche.
Ci sono per esempio i dati della Polizia di Stato sui minori scomparsi. In nessun caso si parla di bambini o adolescenti ritrovati presso famiglie rom o in “campi nomadi” (si veda qui, e per dati aggiornati al 2013 qui).
Poi ci sono inchieste giornalistiche ben fatte, reperibili anche in rete: come quella realizzata nel 2007 da Carmilla Online, dove si dimostrava che i numerosi episodi di presunto rapimento di minori erano delle bufale belle e buone. O come quella, più recente, di Elena Tebano per il Corriere, che arriva alle stesse conclusioni.
Infine, c’è la ricerca dell’antropologa fiorentina Sabrina Tosi Cambini, che ha analizzato tutti i casi di presunti rapimenti, seguendo sia le notizie diffuse dalla stampa che i verbali dei processi nelle aule di Tribunale. L’esito di questa meticolosa indagine è sempre il solito: nessuna donna rom ha mai rapito nessun bambino.

Le origini della leggenda: un mito letterario
Ma allora da dove nasce la bufala dei rom che portano via i bambini? Pochi sanno che si tratta di una storia vecchia di qualche secolo, e che può vantare un’origine “colta”, addirittura letteraria: i primi a parlare di “zingare rapitrici” sono stati infatti i commediografi italiani e spagnoli del Cinque-Seicento. Nell’arco di qualche decennio, la trama delle loro opere è diventata leggenda di senso comune: la finzione, potremmo dire, si è fatta realtà (o, per meglio dire, il racconto è divenuto cronaca e falsa notizia). Ma andiamo con ordine.
Tutto comincia nel 1544 a Venezia. Il luogo non è casuale, perché proprio in quegli anni la Serenissima avvia una dura politica di espulsioni, bandi e atti repressivi contro gli “zingari”. Mentre la gloriosa Repubblica si industria ad allontanare i rom, i veneziani frequentano il teatro, luogo di svago e di vita mondana: e come in un gioco di specchi, gli “zingari” cacciati dalla città fanno capolino sul palco.
Nel 1544 viene messa in scena La Zingana, una commedia di un certo Gigio Artemio Giancarli. Qui si racconta di una giovane rom che sottrae dalla culla un bambino, sostituendolo col proprio figlio: per quanto se ne sa, si tratta della prima traccia del mito della “zingara rapitrice”. Il successo della commedia oltrepassa i confini della Repubblica: nel giro di pochi anni un drammaturgo spagnolo, Lope de Rueda, scrive la Medora, che è nient’altro che una traduzione e un adattamento della Zingana di Giancarli. E attraverso Lope de Rueda, la leggenda della “zingara rapitrice” arriva a Cervantes (l’autore del Don Chisciotte), che ne fa l’oggetto di una delle sue “Novelle esemplari”, La Gitanilla.

Da opera letteraria a leggenda metropolitana
Insomma, la storia della “zingara rapitrice” nasce come trama di commedie, novelle e opere teatrali. Poi, nel giro di pochi decenni, oltrepassa l’ambito letterario: a Milano, agli inizi del Seicento, Federico Borromeo accusa i “cingari” di rapire i bambini cristiani, mentre in Spagna Juan de Quiñones, nel 1631, formula un’accusa simile in un virulento pamphlet che invoca l’espulsione dei “gitani”. I giochi sono fatti: la trama romanzesca si è trasformata in accusa reale, leggenda metropolitana e falsa notizia.
A cosa si deve questa metamorfosi? Sul punto, le ricerche storiche sono ancora agli inizi, e risposte sicure non esistono. Si possono però formulare alcune ipotesi. E, come punto di partenza, occorre ricordare che i rom non erano gli unici destinatari di questa infamante accusa: altri gruppi sociali, altre minoranze erano sospettate – negli stessi anni – di “rubare i bambini”.
C’erano per esempio gli ebrei, già allora discriminati e vittime di persecuzioni (perché l’antisemitismo, è bene ricordarlo, non nasce nel Novecento). Dei “giudei” si diceva sin dal medioevo che rapivano i piccoli cristiani per cibarsi del loro sangue a scopo rituale. Ovviamente non era vero, ma intere comunità ebraiche furono vittime di aggressioni, stragi, processi o condanne a morte.
Poi c’erano i vagabondi e i mendicanti, accusati spesso di rapire i bambini per portarli a chiedere l’elemosina. Piero Camporesi, storico e antropologo, racconta ad esempio la vicenda del «ritrovamento fortunoso da parte di una madre della figlia, rapitale due anni prima, mentre chiedeva l’elemosina in compagnia del suo rapitore davanti alle porte del santuario di Assisi; non solo rapita, ma resa ad arte macilenta e ulcerata sulle spalle per impietosire i fedeli».
Infine, il fenomeno dei rapimenti era diffuso nella pirateria barbaresca: corsari, avventurieri e pirati musulmani solcavano il Mediterraneo, e per guadagnare qualche soldo rapivano uomini, donne e bambini, chiedendo poi un riscatto per la loro liberazione.

Zingari, ebrei, mori, vagabondi
Ebrei, “mori” e vagabondi erano insomma protagonisti di episodi – veri, o più spesso presunti – di sottrazione di minori. Naturalmente, per capire quanto queste figure abbiano influito sull’immagine dei rom occorrerebbe compiere ricerche specifiche. Ma alcuni indizi ci segnalano che, nell’immaginario della prima età moderna, questi gruppi erano spesso confusi, o almeno accostati per similitudine.
La “zingana” della commedia del Giancarli, per esempio, parla un dialetto arabo: all’epoca si pensava che i rom fossero “egiziani”, cioè arabi, mentre la teoria dell’origine indiana si diffuse solo qualche secolo dopo. Lutero, dal canto suo, affermava che il “gergo” dei mendicanti (una specie di lingua segreta diffusa nei “bassifondi” della società) aveva origini ebraiche. Dei vagabondi si diceva che erano discendenti di Caino – e per questo condannati a vagare – mentre per gli “zingari” si ipotizzava una provenienza dalla figura biblica di Cam: ma nei testi dell’epoca Cam e Caino erano spesso confusi, e i rom erano trattati come semplici vagabondi.
Insomma, è come se il mito della “zingara rapitrice” fosse nato per una sorta di “osmosi” con analoghe leggende già diffuse a proposito di altri gruppi. Per dirla in altri termini, è come se lo stereotipo degli “zingari” avesse condensato, e mescolato, le caratteristiche proprie dei “marginali”: erranti come gli ebrei e i vagabondi, estranei e nemici come i “mori” musulmani.

Quando gli zingari eravamo noi
Nato in età moderna, il mito dei rom rapitori di bambini ha dimostrato una sorprendente longevità: ha attraversato i secoli, arrivando pressoché intatto fino ai nostri giorni. I titoli allarmistici dei giornali delle ultime settimane, i resoconti dei fatti di Farsala e di Dublino, sembrano riecheggiare le inquietudini dei commediografi veneziani del Cinquecento.
È difficile comprendere le ragioni di questa “longevità”. Certo è che il tema del “rapimento di bambini” è assai diffuso nel tempo e nello spazio: molti gruppi minoritari, molte comunità marginali e discriminate hanno prima o poi dovuto difendersi da questa infamante accusa, o da altre simili.
È capitato anche ai migranti italiani, nei decenni centrali dell’Ottocento. Dai villaggi rurali del Sud e dalle regioni appenniniche del centro-nord, intere famiglie contadine praticavano all’epoca forme di mobilità stagionale, legate ai mestieri girovaghi di musicante e suonatore. Nel XIX secolo, l’arpa dei “viggianesi” (Viggiano è un paese della Basilicata) e l’organetto dei liguri avevano risuonato nelle strade delle città europee, richiamando l’attenzione dei passanti su queste strane figure di musicisti straccioni.
I bambini che suonavano l’organetto in mezzo alla strada, si diceva, erano stati “venduti” dalle famiglie di origine a trafficanti senza scrupoli. Non erano proprio bambini rapiti, ma quasi: perché i loro genitori, poverissimi, erano spesso costretti a venderli per racimolare qualche soldo. «Il costume di mendicare di città in città col mezzo di fanciulli», scriveva la Società Italiana di Beneficenza di Parigi nel 1868, «ha dato origine ad un traffico che si pratica sotto gli occhi e colla tolleranza delle autorità»: una frase che riecheggia i peggiori stereotipi sugli “zingari”.
Traffico di bambini, mendicità aggressiva, offesa al decoro, furti e criminalità di strada furono i principali capi d’accusa contestati agli emigranti. E, come i rom di oggi, gli italiani di ieri subirono processi, espulsioni, condanne. Subirono, soprattutto, una degradazione della loro immagine pubblica: chi incontrava un italiano metteva mano al portafogli, per paura di subire dei furti. E nascondeva il proprio bambino.

Sergio Bontempelli