L. Boff e la teologia a partire dalla femminilità

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“Papa Francesco ha detto che abbiamo bisogno di una teologia più profonda sulla donna e sulla sua missione nel mondo e nella Chiesa. È certo. Ma lui non può trascurare il fatto che oggi esiste una vasta letteratura teologica fatta da donne dal punto di vista delle donne, teologia della miglior qualità, cosa che ha arricchito enormemente la nostra esperienza di Dio”

così L. Boff, ed è a partire da qui che egli si è impegnato a sviluppare una teologia che tenga conto e faccia tesoro di questa migliore qualità teologica:

 

Teologia fatta da donne a partire dalla femminilità

 L.Boff

Papa Francesco ha detto che abbiamo bisogno di una teologia più profonda sulla donna e sulla sua missione nel mondo e nella Chiesa. È certo. Ma lui non può trascurare il fatto che oggi esiste una vasta letteratura teologica fatta da donne dal punto di vista delle donne, teologia della miglior qualità, cosa che ha arricchito enormemente la nostra esperienza di Dio. Io stesso mi sono impegnato intensamente sul tema, che culmina nei libri O rosto materno de Deus (1989) e Feminino e Masculino (2010) insieme con la femminista Rosemarie Muraro.

Tra tante del nostro tempo, ho deciso di rivisitare due grandi teologhe del passato, veramente innovatrici: Santa Hildegarda di Bingen (1098-1179) e Santa Guliana di Norvich (1342-1416).

Hildgarda viene considerata chissà come prima femminista dentro la chiesa. È stata una donna geniale e straordinaria per suo tempo e per tutti i tempi. Monaca benedettina, ha esercitato la funzione di maestra (abbadessa) del suo convento di Rupertsberg di Bingen sul Reno, profetessa (profetessa germanica), mistica, teologa, infuocata predicatrice, compositrice, poetessa, naturalista, medica non ufficiale e scrittrice.

I suoi biografi e studiosi considerano un mistero il fatto che questa donna, nel mondo medievale maschilista e di limitati orizzonti, sia stata quello che è stata. In tutto ha rivelato eccellenza e creatività. Molte sono le sue opere, mistiche, poetiche, sulla scienza naturale e sulla musica. La più importante e letta fino ad oggi è “Sci vias Domini”, “Impara le vie del Signore”.

Hildegarda fu soprattutto una donna dotata di visioni divine. In una relazione autobiografica dice: «Quando ho compiuto i 42 anni e sette mesi, i cieli si aprirono e una luce di eccezionale fulgore si è diffusa dentro il mio cervello. E allora essa m’incendiò il cuore e il petto come una fiamma, che non brucia ma riscalda… Inmediatamente compresi il significato delle narrazioni dei libri, ossia, dei Salmi, degli Evangeli, e degli altri libri cattolici del Vecchio e Nuovo Testamento». (Vedi il testo in Wikipedia, Hildegarda di Bingen con eccellente testo).

È un mistero il fatto che avesse conoscenze di cosmologia, di piante medicinali, di fisica e di storia dell’umanità. La teologia parla di «scienza infusa» come dono dello Spirito Santo. Hildegarda fu gratificata di tali doni.

Maturò curiosamente una visione olistica, intrecciando sempre l’essere umano con la natura e con il cosmo. È in questo contesto che parla dello Spirito Santo come quella energia che conferisce «Verdezza» a tutte le cose. «Viriditas» viene da verde che significa verdezza e freschezza, segni che marcano tutte le cose penetrate dallo Spirito Santo. (Flanagan, S. Hildegard of Bingen, 1998,53). Lei sviluppò un’immagine umanizzante di Dio, perché lui regge l’universo «con potenza e soavità» (mit Macht und Milde), seguendo tutti gli esseri con la sua mano premurosa e il suo sguardo amoroso.

Lei è conosciuta soprattutto per i metodi medicinali seguiti da Austria e Germania da medici fino al giorno d’oggi. Rivela una sorprendente conoscenza del corpo umano e di quali principi attivi delle erbe medicinali sono appropriati per i distinti disturbi. La sua canonizzazione fu ratificata da Benedetto XVI nel 2012.

Altra notevole donna è stata Giuliana di Norwich (1342-1416, Inghilterra). Poco si sa della sua vita, se era religiosa oppure una laica vedova. Certo è che visse per tutto il tempo reclusa, in una parte murata nella chiesa di San Giuliano. Quando compiva i trent’anni di età fu colpita da una grave infermità che quasi la portò alla morte. A un certo punto, nello spazio di cinque ore, ebbe 20 visioni di Gesù Cristo.

Scrisse immediatamente un riassunto delle sue visioni. Venti anni dopo, avendo meditato lungamente sopra il loro significato, scrisse una versione lunga e definitiva intitolata Revelations of Divine Love (Rivelazioni dell’amore divino: Londra 1952). È il primo testo scritto da una donna in inglese.

Le sue rivelazioni sono sorprendenti, perché permeate da invincibile ottimismo, nato dall’amore di Dio. Per lei l’amore è soprattutto allegria e compassione. Non interpretava le malattie – come era credenza in quel tempo e com’è ancora ancora oggi presso alcuni gruppi – come castigo di Dio. Per lei, le malattie e le pestilenze sono opportunità per incontrare Dio.

Il peccato è visto come una specie di pedagogia attraverso la quale Dio ci obbliga a conoscere noi stessi e a cercare la sua misericordia. Dice inoltre: dietro quello che noi chiamiamo inferno esiste una realtà maggiore, sempre vittoriosa che è l’amore e la misericordia di Dio. Per il fatto che Gesù è misericordioso e compassionevole lei è nostra cara madre. Dio stesso è padre misericordioso e madre di infinita bontà (Rivelazioni, 119).

Soltanto una donna poteva usare questo linguaggio di amorosità e di compassione e chiamare Dio ‘madre di infinita bontà’. Così vediamo una volta di più come una voce femminile è importante per avere una concezione non patriarcale e per questo più completa di Dio e dello Spirito che permea tutta la vita e l’universo.

Molte altre donne potrebbero essere qui ricordate come Santa Teresa d’Avila (1515-1582),Simone Weil (1909-1943), Madeleine Debrel (1904 -1964), e tra di noi, Ivone Gebara e Maria Clara Bingemer, che hanno pensato e pensano la fede a partire dal loro feminino. E continuano ad arricchirci.

 



brutto essere povero!

romni

nei confronti dei rom la povertà è una colpa, e neanche piccola: merita spesso una punizione proporzionata, anche la sottrazione dei figli

talvolta la storia fiinisce bene, quando per esempio spunta il buon cuore di qualche privato benestante, altrimenti! è questo il caso di un nucleo familiare di sei persone rom fuggite un anno fa dalla Romania documentata dal free lance Marco Reis e raccontata, qui sotto, da Remo Bassini de ‘il Fatto quotidiano’:

Così vivono le bambine rom, senza acqua e luce

di Remo Bassini
in “il Fatto Quotidiano” del 18 dicembre 2013

Tre bimbe rom, di 6, 8, 11 anni. È la sera di venerdì 30. Ed è tutto documentato da un video. Si
vedono i piumini colorati delle bimbe, e i volti dispiaciuti di giornalisti e vigili urbani di Vercelli.
Cercano di rassicurarle. “Questa notte dormirete al caldo, con la mamma. Salite in macchina,
venite, le previsioni dicono che nevicherà”. Non si muovono, loro. Le piccole mani artigliano il
giubbotto del papà, vogliono che resti con loro. Non si può.
Le porta a scuola tutte le mattine, in bicicletta. Lui magari ha le scarpe rotte, ma le bimbe sono
pulite, vestite bene, e hanno sempre un tramezzino, una mela” dicono le mamme e le maestre delle
piccole. È stato un giornalista free lance, Marco Reis, a scoprire che all’interno di un vecchio
casermone cadente, vivono tredici nuclei familiari di cui nulla si sa. O forse si sa, fingendo di non
vedere: in fondo è gente invisibile , quella che sta dentro. Tra questi nuclei c’è una famiglia di sei
persone. Sei rom, fuggiti, un anno fa, dalla Romania. Le tre bimbe, la madre Helena di 28 anni, il
padre Stephan, 32, la nonna della mamma, 72 anni, un bastone e una busta con le medicine per il
cuore sempre dietro. Non hanno trovato né casa né lavoro. Forse in Italia, lo hanno scoperto sulla
loro pelle, si sta come in Romania. Per mangiare o prendono dai cassonetti gli avanzi dei
supermercati, oppure chiedono l’elemosina. Per l’abitazione, trovano il grande casermone in un
rione periferico. Ci sono altri disperati, lì. Il padre, costruisce una baracca. Si sistemano, anche se
mancano acqua e luce, finché non arriva il freddo. Per lavarsi usano dei grandi recipienti. A
settembre provano a mandare le figlie a scuola: vengono accettate. Non potranno mangiare in
mensa con gli altri perché non hanno l’euro a pasto previsto, ma almeno possono imparare
l’italiano, integrarsi. Per illuminare i loro quaderni quando è buio, si usano le candele. Come i
poveri di una volta. Sta di fatto, però, che vivono in un tugurio. Il free lance Marco Reis entra nella
baracca, filma tutto e si stupisce, perché ogni cosa è a suo posto: l’angolo per il cibo, l’angolo della
nonna, quello delle bimbe con un paio di bamboline e delle lattine vuote, di coca, che d’estate
servivano da recipienti per i fiorellini. Ma non c’è il bagno, e per scaldarsi c’è solo una stufa
rudimentale, a legna. E di notte, raccontano le bambine, a volte arrivano i topi. C’è dell’altro però.
Il padre infatti deve sempre vigilare. Qualche vicino ubriaco la sera potrebbe avere intenzioni non
belle. Un anno fa, alcune baracche sono state incendiate, non si sa da chi. Delle bambine non
possono vivere in una situazione così precaria. E così intervengono vigili, assistenti sociali e
giornalisti. E viene trovata una soluzione: tre giorni in una struttura, si chiama Piccola Opera
Charitas, che ospita anziani e donne con problemi. Le tre bimbe non vorrebbero, meglio il gelo e i
topi che staccarsi dal padre. La popolazione si mobilita affinché il nucleo familiare non venga
diviso e così lunedì 2 dicembre viene trovata una seconda soluzione: i Salesiani sono disposti a
ospitare l’intero nucleo familiare. Alle bimbe brillano gli occhi, sono felici. Arriva però la doccia
fredda: non si può. Non si può perché la famiglia risulta in carico ai Servizi sociali del Comune e
quindi non c’è tempo perché la burocrazia, si sa, ha ritmi lenti. Non solo. Il caso è stato segnalato al
Tribunale dei Minori, a Torino. Gli amici italiani e rom della famiglia si preoccupano, temono il
peggio. “Non è che le bimbe verranno tolte a una famiglia colpevole d’essere povera ma che, a
queste bimbe, ha sempre badato nel migliore dei modi?”. “Sarebbe folle, e non può accadere, questa
è gente povera che ci ha insegnato qualcosa” dice il consigliere comunale Mariapia Massa, già
assessore all’assistenza. La voce di una possibile separazione è nata (lunedì e martedì) dal fatto che,
per alcune ore, alla mamma e alle bimbe non sono stati (lentezze burocratiche) restituiti i
documenti. Immediata, l’ipotesi di un comitato a sostegno della famiglia.
NESSUN RIGURGITO razzista, in città, anzi. “Se non si trovano soluzioni, ospito io tutta la
famiglia”, dice un imprenditore. Alla fine i documenti sono tornati nelle mani dei legittimi
proprietari. Che per un mese potranno vivere in tre stanze messe a disposizione dai Salesiani. E poi si vedrà.

“Se ci dividono, ci ammazzano” ha detto la mamma. Sembra una pellerossa, parla poco e
parla male l’italiano. Ma è stata chiara.




vergogna

LAMPEDUSA

DISINFETTATI COME ANIMALI

 

Lampedusa

 

cose inverosimili, eppure succedono: la realtà più macabra supera la immaginazione più crudele, i nostri centri di accoglienza si manifestano ancora una volta dei veri campi di concentramento di infelice memoria

vedere per credere le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

qui sotto la ricostruzione che del fatto fa E. Fierro su ‘il Fatto quotidiano’ e a seguire una riflessione su questo fatto vergognoso di A. Prosperi per ‘la Repubblica’ odierna, e infine una richiesta di perdono che Toni dell’Olio rivolge direttamente ad Ahmed: “Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più”

UN VIDEO DEL TG2 MOSTRA COME, NEL CENTRO DI ACCOGLIENZA SULL’ISOLA, CON UNA MOTOPOMPA VIENE SPRUZZATO IL FARMACO CONTRO LA SCABBIA SUI CORPI DI MIGRANTI NUDI E AL GELO. BOLDRINI: “È INDEGNO”.

Un ragazzo dalla pelle scura nudo, al freddo, altri che aspettano, nudi e in fila. Un uomo con una tuta gialla e una “motopompa” che spruzza il disinfettante contro la scabbia. Non si fa così neppure con i cavalli. Con gli uomini sì, e non siamo in un lager nazista o della Siberia staliniana, siamo in Italia, a Lampedusa. Sono queste le immagini di un servizio trasmesso lunedì sera dal Tg2 (autore Valerio Cataldi), girate con un telefonino da un immigrato rinchiuso nel Centro di accoglienza. “Trattati come animali – racconta il ragazzo che ha fissato la barbarie sul suo cellulare – Ho visto tante cose in sei mesi, le persone che arrivano qui pensano che sia questa l’Italia”.

Le altre immagini mostrano operatori del Centro che urlano, altri che distribuiscono vestiti lanciandoli in aria, e sempre quella maledetta motopompa che disinfetta gli uomini nell’anno del Signore 2013, esattamente come si faceva agli inizi del Novecento su un’altra isola maledetta, Ellis Island, Usa, dove sbarcavano affamati e lerci gli italiani del Sud. Il servizio del Tg2, rilanciato dal web, ha provocato lo sdegno dell’intero mondo politico. Ministri e parlamentari hanno pubblicato comunicati grondanti sdegno e amarezza, fioccheranno le interrogazioni parlamentari. Ma sono parole vuote, tardive e false. Perché tutti sapevano, almeno da ottobre, quando c’è stata l’ultima ecatombe del mare con 600 morti, quali erano le condizioni dei vivi, di quei disperati costretti nel Centro di accoglienza di Lampedusa.

Quando ci fu il primo naufragio con 300 morti, il nostro giornale, le telecamere del nostro sito e quelle dei network di tutto il mondo, documentarono le condizioni di vita dei superstiti. Uomini e donne costretti a vivere all’aperto, bambini che dormivano su materassi di spugna lerci, capanne improvvisate con i sacchi della spazzatura. Cibo scarso e di pessima qualità. In quei capannoni dove potevano essere ospitate al massimo 300 persone, ne dormivano fino a mille. Un bagno solo per centinaia di uomini e donne. Queste cose le hanno viste tutti. Anche Letta e Alfano, arrivati a Lampedusa per un summit e portati per pochi minuti a visitare il Centro. Quelle donne mortificate e i bambini costretti a convivere con i cani randagi sono stati visti anche dalla ministra Kashetu Cécile Kyenge. Quando chiedemmo all’assessore alla Sanità della Regione Sicilia, Lucia Borsellino, cosa aveva visto scoppiò in lacrime. Tutti hanno promesso miracoli, quando a luglio è arrivato sull’isola Papa Francesco e ha gridato forte il suo “mai più”, tutti si sono asciugati le lacrime. Nessuno ha mosso un dito. Le condizioni del Centro sono rimaste come prima, se possibile, peggiorate. Passata l’onda mediatica, andati via giornalisti e tv, su Lampedusa e le sue miserie è calata una pietra tombale. Le uniche indignazioni che vale la pena rappresentare, sono quelle di chi sull’isola vive e da anni offre tutto se stesso per accudire, assistere, consolare gli immigrati venuti dal mare. E allora in questo articolo non leggerete per esteso dichiarazioni di ministri e politici (hanno parlato tutti. Boldrini: “trattamento indegno di un Paese civile”, Kyenge: “Tutto ciò è inaccettabile in uno Stato democratico”), ma quella del dottor Pietro Bartolo sì. L’ultima volta che lo abbiamo incontrato era il mese di ottobre, era sul molo Favarolo a occuparsi dei vivi, e dei morti.

AVEVA GLI OCCHI gonfi di lacrime per i troppi cadaveri di bambini e il corpo segnato da un recente ictus. Era in malattia, ma quel giorno decise di esserci e di fare la sua parte di medico. “È indegno di un Paese civile, un trattamento schifoso che viola la dignità umana. Ma perché non li hanno portati da me, li avrei curati nel mio studio rispettando la loro dignità di uomini e donne”. Giusi Nico-lini, sindaco dell’Isola che da anni si batte per la dignità dei suoi cittadini e dei migranti: “Che dire? Sono sconvolta, è una pratica degna di un lager”. Ora Enrico Letta promette un’inchiesta e minaccia sanzioni per i responsabili, ma è tardi. Perché la condizioni di quel centro e le modalità di gestione da parte di Lampedusa accoglienza, sono state ampiamente documentate da inchieste giornalistiche e reportage televisivi. Che attorno a Cie e Centri di accoglienza si sia organizzato un grande business è noto da anni. E allora, se una decisione va presa subito è quella di chiudere i Cie, di cancellare ogni tipo di contratto con cooperative e società non in grado di assicurare condizioni di vita umane in quelle strutture. Quando in ottobre intervistammo per il fattoquotidiano.it   Cono Galipò, numero uno della società che gestisce il centro di Lampedusa, respinse ogni accusa e contestazione. Per lui le condizioni di vita nel centro erano più che accettabili, al solito erano i giornalisti a fare inutili polemiche. Chissà come commenterà ora queste immagini che fanno vergognare l’Italia di fronte al mondo intero.

Da Il Fatto Quotidiano del 18/12/2013.

 

LA NOSTRA VERGOGNA

A. Prosperi

Il telefono di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi. Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.

Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.

Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamo ed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo.

Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggiquesto strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.

Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose.

L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato.

È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.

Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

Umiliati

Mosaico dei giorni

18 dicembre 2013 – Tonio Dell’Olio

Ti chiedo perdono, caro Ahmed, per tutto il trattamento inumano che ti abbiamo riservato soprattutto da quando sei arrivato in Italia. I fatti del CIE di Lampedusa documentati furtivamente con un telefonino offendono e umiliano non soltanto le persone migranti, ma anche ciascun cittadino di questo Paese. Offendono l’umanità. Si è detto che è una vergogna. Ma è molto di più. Sei eritreo, siriano, tunisno o sudanese. Forse nel centro di Aleppo avevi un negozietto di piccole cose e tiravi avanti, ma la guerra ti ha costretto a fuggire. Non hai trovato altro modo che affidarti agli uomini senza scrupoli dell’organizzazione dei viaggi clandestini. Tutti i tuoi risparmi sono finiti nelle loro mani. Sofferenze indicibili. Viaggio infinito. Umiliazioni per te, per tua moglie e per i tuoi bambini. Cose che a volte non hai nemmeno lo stomaco di raccontare. Poi l’ultimo tratto. Forse il più pericoloso. Il mare. Una volta toccato terra speravi di aver raggiunto la salvezza e invece è stato un altro calvario. Insieme a te contadini, studenti, professionisti, gente comune che in alcuni casi viveva dignitosamente nella propria terra e che ora è umiliata in condizioni subumane, che non hanno nulla a che vedere con l’accoglienza e non sono giustificabili né con il primo soccorso né con l’emergenza. Ti chiedo perdono. Non ho altre parole se non per gli operatori della cooperativa “Lampedusa accoglienza” del consorzio Sisifo che gestisce quel centro e che forse erano in piazza ad applaudire le parole del Papa nel corso della sua visita a Lampedusa. Per ciascuno di voi quella cooperativa incassa 30-40 euro al giorno. L’ultimo segmento della gestione mafiosa dei migranti.

http://www.peacelink.it/mosaico/a/39508.html 




non clericalizzare le donne o declericalizzare la chiesa?

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 è focalizzato nel modo giusto il problema, anche nelle parole stesse di papa Francesco? 

l’intento, giusto, del papa è quello di non clericalizzare le donne nell’accettare di farle cardinali, ma il problema, nella sua radicalità, non è solo quello di non clericalizzare le donne o in genere ‘i laici’,ma forse, tramite questi, inseriti in luoghi decisionale importanti, quello di de-clericalizzare la chiesa: un compito e un percorso che richiede ancora tanti sforzi e passi da fare, e questo non può che spaventare le gerarchie, e almeno qui forse anche papa Francesco …

Quella rivoluzione dottrinale che spaventa la gerarchia

di Gian Enrico Rusconi
in “La Stampa” del 16 dicembre 2013

È spiazzante nella comunicazione pastorale.
E non mette mai in forse la correttezza dottrinale. Papa Bergoglio è suggestivo nel suo stile
personale di esprimersi, ma controllato, persino sofisticato, nel mantenere le posizioni tradizionali
su punti controversi. Prendiamo uno dei passaggi più ironici, breve ma significativo, della sua
intervista alla Stampa: «Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non clericalizzate,
facendole magari cardinali».
L’arguzia dell’affermazione evade la sostanza di un problema dottrinale irrisolto. Mi sarei atteso che
Papa Francesco dicesse: la donna collocata in posti decisionali e in ruoli istituzionali essenziali,
potrà de-clericalizzare la Chiesa così come è oggi. Perché non ha detto così? Si tratta di un limite
personale o del timore che una autentica innovazione su questo tema (che implica una seria
rivisitazione storico-dottrinale) sarebbe intollerabile per molti esponenti della gerarchia?
Papa Francesco non è un ingenuo. È consapevole di muoversi su un crinale fragilissimo: la sua
innovazione espressiva nella pastorale non è un “aggiornamento” vecchia maniera. Molte delle sue
parole hanno un potenziale innovatore che entusiasma ed emoziona – in modo confuso – ampi strati
di popolazione, fedeli credenti e fedeli critici o disillusi. Ma contemporaneamente inquieta molta
parte della gerarchia che non sa decifrare l’esito di questa emozione collettiva .
Ma il Pontefice non vuole affatto creare tensioni o divisioni all’interno della Chiesa. Al contrario,
come nessun altro dei suoi predecessori intende valorizzare al massimo le forme di collegialità
esistenti. Prende molto sul serio il fatto che la problematica, apparentemente minore della
comunione ai credenti divorziati risposati, e quella assai più impegnativa di una riflessione sulla
famiglia, sia affidata alla risoluzioni del Sinodo del 2014. Non alla autorevolezza della sua parola
ma a processi di convincimento della comunità dei fedeli sotto la guida dei suoi pastori.
E’ una prospettiva interessante, anche se non credo che verranno fuori novità. Ma sarà già
importante che a livello di società civile, di dibattito pubblico e soprattutto di normative giuridiche
sparisca lo spirito falsamente militante (legato all’uso e abuso della formula dei “valori non
negoziabili”) a favore di un confronto più maturo e ragionevole fra tutti i cittadini, credenti e non
credenti.
Come si lega tutto questo alle suggestive parole di Papa Bergoglio sulla “tenerezza” e “la speranza”
che è la parte centrale del suo discorso? Sarebbe facile considerare questa parte una edificante
predica natalizia, meno concreta ad esempio delle puntualizzazioni con cui respinge il presunto
marxismo della sua posizione, rivendicando l’anticapitalismo della dottrina sociale della Chiesa. Ma
l’affermazione «quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza, diventano una
Chiesa fredda che non sa dove andare e si imbroglia», introduce considerazioni di sapore mistico
che sono tipiche dello stile di Francesco. Non solo la quasi palpapile «tenerezza di Dio che ti
accarezza» ma anche la dimensione opposta, dura, di Dio che non parla davanti al perché della
sofferenza «Lui non spiega niente. Ma sento che mi guarda. Tu non me lo dici, ma mi guardi».
Il dramma antico dell’ inspiegabilità del dolore, che omologa credente e non credente, trova qui la
sua via di fuga. Che un Papa sappia trovare le parole giuste in una intervista ad un giornale e più in
generale padroneggiando con perizia il circuito mediatico, fa parte della personalità di Bergoglio.
Che questa sia la strada per evitare una “Chiesa fredda” è tutto da verificare.




il papa contro il clericalismo

presente-passato-futuro 

Papa Francesco: quando nella Chiesa manca la profezia, c’è il clericalismo

Quando manca la profezia nella Chiesa, manca la vita stessa di Dio e ha il sopravvento il clericalismo: è quanto ha affermato Papa Francesco stamani nella Messa presieduta a Santa Marta nel terzo lunedì d’AvventoIl profeta – ha affermato il Papa commentando le letture del giorno – è colui che ascolta le parole di Dio, sa vedere il momento e proiettarsi sul futuro. “Ha dentro di sé questi tre momenti”: il passato, il presente e il futuro:

“Il passato: il profeta è cosciente della promessa e ha nel suo cuore la promessa di Dio, l’ha viva, la ricorda, la ripete. Poi guarda il presente, guarda il suo popolo e sente la forza dello Spirito per dirgli una parola che lo aiuti ad alzarsi, a continuare il cammino verso il futuro. Il profeta è un uomo di tre tempi: promessa del passato; contemplazione del presente; coraggio per indicare il cammino verso il futuro. E il Signore sempre ha custodito il suo popolo, con i profeti, nei momenti difficili, nei momenti nei quali il Popolo era scoraggiato o era distrutto, quando il Tempio non c’era, quando Gerusalemme era sotto il potere dei nemici, quando il popolo si domandava dentro di sé: ‘Ma Signore tu ci ha promesso questo! E adesso cosa succede?’”. 

E’ quello che “è successo nel cuore della Madonna – ha proseguito Papa Francesco – quando era ai piedi della Croce”. In questi momenti “è necessario l’intervento del profeta. E non sempre il profeta è ricevuto, tante volte è respinto. Lo stesso Gesù dice ai Farisei che i loro padri hanno ucciso i profeti, perché dicevano cose che non erano piacevoli: dicevano la verità, ricordavano la promessa! E quando nel popolo di Dio manca la profezia – ha osservato ancora il Papa – manca qualcosa: manca la vita del Signore!”. “Quando non c’è profezia la forza cade sulla legalità”, ha il sopravvento il legalismo. Così, nel Vangelo i “sacerdoti sono andati da Gesù a chiedere la cartella di legalità: ‘Con quale autorità fai queste cose? Noi siamo i padroni del Tempio!’”. “Non capivano le profezie. Avevano dimenticato la promessa! Non sapevano leggere i segni del momento, non avevano né occhi penetranti, né udito della Parola di Dio: soltanto avevano l’autorità!”:

“Quando nel popolo di Dio non c’è profezia, il vuoto che lascia quello viene occupato dal clericalismo: è proprio questo clericalismo che chiede a Gesù: ‘Con quale autorità fai tu queste cose? Con quale legalità?’. E la memoria della promessa e la speranza di andare avanti vengono ridotte soltanto al presente: né passato, né futuro speranzoso. Il presente è legale: se è legale vai avanti”.

Ma quando regna il legalismo, la Parola di Dio non c’è e il popolo di Dio che crede, piange nel suo cuore, perché non trova il Signore: gli manca la profezia. Piange “come piangeva la mamma Anna, la mamma di Samuele, chiedendo la fecondità del popolo, la fecondità che viene dalla forza di Dio, quando Lui ci risveglia la memoria della sua promessa e ci spinge verso il futuro, con la speranza. Questo è il profeta! Questo è l’uomo dall’occhio penetrante e che ode le parole di Dio”:

“La nostra preghiera in questi giorni, nei quali ci prepariamo al Natale del Signore, sia: ‘Signore, che non manchino i profeti nel tuo popolo!’. Tutti noi battezzati siamo profeti. ‘Signore, che non dimentichiamo la tua promessa! Che non ci stanchiamo di andare avanti! Che non ci chiudiamo nelle legalità che chiudono le porte! Signore, libera il tuo popolo dalla spirito del clericalismo e aiutalo con lo spirito di profezia’”.




ancora polemiche per il ‘campo sosta’ di Lucca

Al campo Rom altri 25mila euro, ma scoppia la polemica

Servizi sociali, in conferenza dei sindaci solo l’assessore di Altopascio vota contro

Andranno al campo nomadi di Lucca i 25mila euro residui di fondi regionali destinati alle Case della salute. La destinazione è stata decisa dal Comune di Lucca e approvata con il solo voto contrario di Elena Silvano, assessore comunale ad Altopascio con deleghe a servizi sociali, tutela della famiglia, integrazione, pari opportunità e sanità. Sul suo profilo Facebook, la Silvano ha reso pubblica la vicenda. «Situazioni familiari sempre più difficili. Ogni mattina — scrive — incontro persone che piangendo e con vergogna mi raccontano di sfratti, utenze sigillate e di non sapere come fare a fare la spesa. Il Comune c’è e c’è il volontariato ma non basta. Quasi sempre ci sono bambini in queste famiglie o persone anziane con la pensione minima che basta appena appena per mangiare e pagare le bollette. E poi mi chiedono perché in Conferenza dei sindaci ho votato contro (l’unica in rappresentanza di Altopascio) tra i Comuni della Piana all’utilizzo di un residuo di 25.000 euro di fondi da usare per la Piana di Lucca che il Comune di Lucca ha voluto fortemente destinare al campo Rom. Comprendo le ragioni di dignità umana ma in una situazione di emergenza come quella odierna in cui chi ha scelto l’Italia come luogo dove vivere, pagare le tasse e crescere la propria famiglia ha perso i punti di riferimento forse bisognerebbe cercare di dare una boccata di ossigeno prima a queste famiglie».

da ‘la Nazione’ del 16.12.2013




la rivolta ‘liquida’ dei ‘forconi’

‘forconi liquidi’

funerali

forcone

una acuta, arguta e appropriata riflessione di M. Serra (su l ‘amaca’ odierna) sulla protesta confusa, sbriciolata e anche sgangherata rappresentata dai ‘forconi’:

Si rassicurino i tutori dell’ordine repubblicano: nella famosa società liquida, è liquida anche la rivolta. A pochi giorni dalla nascita del movimento i capi dei Forconi (sedicenti o eterodiretti) già temono infiltrazioni, litigano, uno va a Roma l’altro per ripicca resta a Cadoneghe, uno caldeggia un golpe dei Carabinieri l’altro dice che anche i Carabinieri fanno parte della Casta, uno vuole uscire dall’Europa e un paio d’altri vogliono invaderla, uno ha votato Grillo un altro non è mai andato a votare un terzo si è soffiato il naso con la scheda. Uno gli hanno chiuso la fabbrica perché non pagava i contributi, un altro era un operaio che non gli pagavano i contributi. Uno piace al Giornale, l’altro al Fatto.
Uno vuole impiccare i banchieri ebrei, un altro anche i banchieri non ebrei.
Nemmeno l’ultrasinistra degli anni Settanta, divisa in una dozzina di partiti che al primo punto del programma avevano la distruzione degli altri undici, era così impreparata alla rivoluzione. Questo non muta di una virgola il malumore, la paura, la solitudine e la rabbia di qualche milione di italiani. Diciamo, però, che perfino per fare l’antipolitica un poco di politica aiuta.

Da La Repubblica del 17/12/2013.

 



intervista di papa Francesco a ‘la Stampa’

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

 

“Mai avere paura della tenerezza”

intervista a papa Francesco

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa” del 15 dicembre 2013

dopo l’intervista a : E. Scalfari su ‘la Repubblica’, ora l’intervista ad A. Tornielli su ‘la Stampa’ da parte di papa Francesco che conferma così una modalità di evangelizzazione molto immediata, informale e attenta all’uso dei mass media:

«Il Natale per me è speranza e tenerezza…». Francesco racconta a «La Stampa» il suo primo Natale
da vescovo di Roma. Casa Santa Marta, martedì 10 dicembre, ore 12.50. Il Papa ci accoglie in una
sala accanto al refettorio. L’incontro durerà un’ora e mezzo. Per due volte, durante il colloquio, dal
volto di Francesco sparisce la serenità che tutto il mondo ha imparato a conoscere, quando accenna
alla sofferenza innocente dei bambini e alla tragedia della fame nel mondo. Nell’intervista il Papa
parla anche dei rapporti con le altre confessioni cristiane e dell’«ecumenismo del sangue» che le
unisce nella persecuzione, accenna alle questioni su matrimonio e famiglia che saranno trattate dal
prossimo Sinodo, risponde a chi lo ha criticato dagli Usa definendolo «un marxista» e parla
del rapporto tra Chiesa e politica.
Che cosa significa per lei il Natale?
«È l’incontro con Gesù. Dio ha sempre cercato il suo popolo, lo ha condotto, lo ha custodito, ha
promesso di essergli sempre vicino. Nel Libro del Deuteronomio leggiamo che Dio cammina con
noi, ci conduce per mano come un papà fa con il figlio. Questo è bello. Il Natale è l’incontro di Dio
con il suo popolo. Ed è anche una consolazione, un mistero di consolazione. Tante volte, dopo la
messa di mezzanotte, ho passato qualche ora solo, in cappella, prima di celebrare la messa
dell’aurora. Con questo sentimento di profonda consolazione e pace. Ricordo una volta qui a Roma,
credo fosse il Natale del 1974, una notte di preghiera dopo la messa nella residenza del Centro
Astalli. Per me il Natale è sempre stato questo: contemplare la visita di Dio al suo popolo».
Che cosa dice il Natale all’uomo di oggi?
«Ci parla della tenerezza e della speranza. Dio incontrandoci ci dice due cose. La prima è: abbiate
speranza. Dio apre sempre le porte, mai le chiude. È il papà che ci apre le porte. Secondo: non
abbiate paura della tenerezza. Quando i cristiani si dimenticano della speranza e della tenerezza,
diventano una Chiesa fredda, che non sa dove andare e si imbriglia nelle ideologie, negli
atteggiamenti mondani. Mentre la semplicità di Dio ti dice: vai avanti, io sono un Padre che ti
accarezza. Ho paura quando i cristiani perdono la speranza e la capacità di abbracciare e
accarezzare. Forse per questo, guardando al futuro, parlo spesso dei bambini e degli anziani, cioè
dei più indifesi. Nella mia vita di prete, andando in parrocchia, ho sempre cercato di trasmettere
questa tenerezza soprattutto ai bambini e agli anziani. Mi fa bene, e mi fa pensare alla tenerezza che
Dio ha per noi».
Come si può credere che Dio, considerato dalle religioni infinito e onnipotente, si faccia così
piccolo?
«I Padri greci la chiamavano “synkatabasis”, condiscendenza divina. Dio che scende e sta con noi.
È uno dei misteri di Dio. A Betlemme, nel 2000, Giovanni Paolo II disse che Dio è diventato un
bambino totalmente dipendente dalle cure di un papà e di una mamma. Per questo il Natale ci dà
tanta gioia. Non ci sentiamo più soli, Dio è sceso per stare con noi. Gesù si è fatto uno di noi e per
noi ha patito sulla croce la fine più brutta, quella di un criminale».
Il Natale viene spesso presentato come fiaba zuccherosa. Ma Dio nasce in un mondo dove c’è
anche tanta sofferenza e miseria.
«Quello che leggiamo nei Vangeli è un annuncio di gioia. Gli evangelisti hanno descritto una gioia.
Non si fanno considerazioni sul mondo ingiusto, su come faccia Dio a nascere in un mondo così.
Tutto questo è il frutto di una nostra contemplazione: i poveri, il bambino che deve nascere nella
precarietà. Il Natale non è stata la denuncia dell’ingiustizia sociale, della povertà, ma è stato un
annuncio di gioia. Tutto il resto sono conseguenze che noi traiamo. Alcune giuste, altre meno giuste,
altre ancora ideologizzate. Il Natale è gioia, gioia religiosa, gioia di Dio, interiore, di luce, di pace.
Quando non si ha la capacità o si è in una situazione umana che non ti permette di comprendere questa gioia, si vive la festa con l’allegria mondana. Ma fra la gioia profonda e l’allegria mondana
c’è differenza».
È il suo primo Natale, in un mondo dove non mancano conflitti e guerre…
«Dio mai dà un dono a chi non è capace di riceverlo. Se ci offre il dono del Natale è perché tutti
abbiamo la capacità di comprenderlo e riceverlo. Tutti, dal più santo al più peccatore, dal più pulito
al più corrotto. Anche il corrotto ha questa capacità: poverino, ce l’ha magari un po’ arrugginita, ma
ce l’ha. Il Natale in questo tempo di conflitti è una chiamata di Dio, che ci dà questo dono.
Vogliamo riceverlo o preferiamo altri regali? Questo Natale in un mondo travagliato dalle guerre, a
me fa pensare alla pazienza di Dio. La principale virtù di Dio esplicitata nella Bibbia è che Lui è
amore. Lui ci aspetta, mai si stanca di aspettarci. Lui dà il dono e poi ci aspetta. Questo accade
anche nella vita di ciascuno di noi. C’è chi lo ignora. Ma Dio è paziente e la pace, la serenità della
notte di Natale è un riflesso della pazienza di Dio con noi».
In gennaio saranno cinquant’anni dallo storico viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Lei ci
andrà?
«Natale sempre ci fa pensare a Betlemme, e Betlemme è in un punto preciso, nella Terra Santa dove
è vissuto Gesù. Nella notte di Natale penso soprattutto ai cristiani che vivono lì, a quelli che hanno
difficoltà, ai tanti di loro che hanno dovuto lasciare quella terra per vari problemi. Ma Betlemme
continua a essere Betlemme. Dio è venuto in un punto determinato, in una terra determinata, è
apparsa lì la tenerezza di Dio, la grazia di Dio. Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla
Terra Santa. Cinquant’anni fa Paolo VI ha avuto il coraggio di uscire per andare là, e così è
cominciata l’epoca dei viaggi papali. Anch’io desidero andarci, per incontrare il mio fratello
Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, e con lui commemorare questo cinquantenario rinnovando
l’abbraccio tra Papa Montini e Atenagora avvenuto a Gerusalemme nel 1964. Ci stiamo
preparando».
Lei ha incontrato più volte i bambini gravemente ammalati. Che cosa può dire davanti a
questa sofferenza innocente?
«Un maestro di vita per me è stato Dostoevskij, e quella sua domanda, esplicita e implicita, ha
sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa
immagine: a un certo punto della sua vita il bambino si “sveglia”, non capisce molte cose, si sente
minacciato, comincia a fare domande al papà o alla mamma. È l’età dei “perché”. Ma quando il
figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza subito con nuovi “perché?”.
Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un
bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore perché? Lui
non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu
non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo».
Parlando della sofferenza dei bambini non si può dimenticare la tragedia di chi soffre la fame.
«Con il cibo che avanziamo e buttiamo potremmo dar da mangiare a tantissimi. Se riuscissimo a
non sprecare, a riciclare il cibo, la fame nel mondo diminuirebbe di molto. Mi ha impressionato
leggere una statistica che parla di 10 mila bambini morti di fame ogni giorno nel mondo. Ci sono
tanti bambini che piangono perché hanno fame. L’altro giorno all’udienza del mercoledì, dietro una
transenna, c’era una giovane mamma col suo bambino di pochi mesi. Quando sono passato, il
bambino piangeva tanto. La madre lo accarezzava. Le ho detto: signora, credo che il piccolo abbia
fame. Lei ha risposto: sì sarebbe l’ora… Ho replicato: ma gli dia da mangiare, per favore! Lei aveva
pudore, non voleva allattarlo in pubblico, mentre passava il Papa. Ecco, vorrei dire lo stesso
all’umanità: date da mangiare! Quella donna aveva il latte per il suo bambino, nel mondo abbiamo
sufficiente cibo per sfamare tutti. Se lavoriamo con le organizzazioni umanitarie e riusciamo a
essere tutti d’accordo nel non sprecare il cibo, facendolo arrivare a chi ne ha bisogno, daremo un
grande contributo per risolvere la tragedia della fame nel mondo. Vorrei ripetere all’umanità ciò che
ho detto a quella mamma: date da mangiare a chi ha fame! La speranza e la tenerezza del Natale del
Signore ci scuotano dall’indifferenza».
Alcuni brani dell’«Evangelii Gaudium» le hanno attirato le accuse degli ultra-conservatori
americani. Che effetto fa a un Papa sentirsi definire «marxista»?«L’ideologia marxista è sbagliata. Ma nella mia vita ho conosciuto tanti marxisti buoni come
persone, e per questo non mi sento offeso».
Le parole che hanno colpito di più sono quelle sull’economia che «uccide»…
«Nell’esortazione non c’è nulla che non si ritrovi nella Dottrina sociale della Chiesa. Non ho parlato
da un punto di vista tecnico, ho cercato di presentare una fotografia di quanto accade. L’unica
citazione specifica è stata per le teorie della “ricaduta favorevole”, secondo le quali ogni crescita
economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione
sociale nel mondo. C’era la promessa che quando il bicchiere fosse stato pieno, sarebbe trasbordato
e i poveri ne avrebbero beneficiato. Accade invece che quando è colmo, il bicchiere magicamente
s’ingrandisce, e così non esce mai niente per i poveri. Questo è stato l’unico riferimento a una teoria
specifica. Ripeto, non ho parlato da tecnico, ma secondo la dottrina sociale della Chiesa. E questo
non significa essere marxista».
Lei ha annunciato una «conversione del papato». Gli incontri con i patriarchi ortodossi le
hanno suggerito qualche via concreta?
«Giovanni Paolo II aveva parlato in modo ancora più esplicito di una forma di esercizio del primato
che si apra ad una situazione nuova. Ma non solo dal punto di vista dei rapporti ecumenici, anche
nei rapporti con la Curia e con le Chiese locali. In questi primi nove mesi ho accolto la visita di tanti
fratelli ortodossi, Bartolomeo, Hilarion, il teologo Zizioulas, il copto Tawadros: quest’ultimo è un
mistico, entrava in cappella, si toglieva le scarpe e andava a pregare. Mi sono sentito loro fratello.
Hanno la successione apostolica, li ho ricevuti come fratelli vescovi. È un dolore non poter ancora
celebrare l’eucaristia insieme, ma l’amicizia c’è. Credo che la strada sia questa: amicizia, lavoro
comune, e pregare per l’unità. Ci siamo benedetti l’un l’altro, un fratello benedice l’altro, un fratello
si chiama Pietro e l’altro si chiama Andrea, Marco, Tommaso…».
L’unità dei cristiani è una priorità per lei?
«Sì, per me l’ecumenismo è prioritario. Oggi esiste l’ecumenismo del sangue. In alcuni paesi
ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli
domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. Il sangue è mischiato. Per coloro che
uccidono, siamo cristiani. Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi
necessari verso l’unità e forse non è ancora arrivato il tempo. L’unità è una grazia, che si deve
chiedere. Conoscevo ad Amburgo un parroco che seguiva la causa di beatificazione di un prete
cattolico ghigliottinato dai nazisti perché insegnava il catechismo ai bambini. Dopo di lui, nella fila
dei condannati, c’era un pastore luterano, ucciso per lo stesso motivo. Il loro sangue si è mescolato.
Quel parroco mi raccontava di essere andato dal vescovo e di avergli detto: “Continuo a seguire la
causa, ma di tutti e due, non solo del cattolico”. Questo è l’ecumenismo del sangue. Esiste anche
oggi, basta leggere i giornali. Quelli che ammazzano i cristiani non ti chiedono la carta d’identità
per sapere in quale Chiesa tu sia stato battezzato. Dobbiamo prendere in considerazione questa
realtà».
Nell’esortazione lei ha invitato a scelte pastorali prudenti e audaci per quanto riguarda i
sacramenti. A che cosa si riferiva?
«Quando parlo di prudenza non penso a un atteggiamento paralizzante, ma a una virtù di chi
governa. La prudenza è una virtù di governo. Anche l’audacia lo è. Si deve governare con audacia e
con prudenza. Ho parlato del battesimo, e della comunione come cibo spirituale per andare avanti,
da considerare un rimedio e non un premio. Alcuni hanno subito pensato ai sacramenti per i
divorziati risposati, ma io non sono sceso in casi particolari: volevo solo indicare un principio.
Dobbiamo cercare di facilitare la fede delle persone più che controllarla. L’anno scorso in Argentina
avevo denunciato l’atteggiamento di alcuni preti che non battezzavano i figli delle ragazze madri. È
una mentalità ammalata».
E quanto ai divorziati risposati?
«L’esclusione della comunione per i divorziati che vivono una seconda unione non è una sanzione.
È bene ricordarlo. Ma non ho parlato di questo nell’esortazione».
Ne tratterà il prossimo Sinodo dei vescovi?
«La sinodalità nella Chiesa è importante: del matrimonio nel suo complesso parleremo nelle riunioni del concistoro in febbraio. Poi il tema sarà affrontato al Sinodo straordinario dell’ottobre
2014 e ancora durante il Sinodo ordinario dell’anno successivo. In queste sedi tante cose si
approfondiranno e si chiariranno».
Come procede il lavoro dei suoi otto «consiglieri» per la riforma della Curia?
«Il lavoro è lungo. Chi voleva avanzare proposte o inviare idee lo ha fatto. Il cardinale Bertello ha
raccolto i pareri di tutti i dicasteri vaticani. Abbiamo ricevuto suggerimenti dai vescovi di tutto il
mondo. Nell’ultima riunione gli otto cardinali hanno detto che siamo arrivati al momento di
avanzare proposte concrete, e nel prossimo incontro, in febbraio, mi consegneranno i loro primi
suggerimenti. Io sono sempre presente agli incontri, eccetto la mattina del mercoledì per via
dell’udienza. Ma non parlo, ascolto soltanto, e questo mi fa bene. Un cardinale anziano alcuni mesi
fa mi ha detto: “La riforma della Curia lei l’ha già cominciata con la messa quotidiana a Santa
Marta”. Questo mi ha fatto pensare: la riforma inizia sempre con iniziative spirituali e pastorali
prima che con cambiamenti strutturali».
Qual è il giusto rapporto fra la Chiesa e la politica?
«Il rapporto deve essere allo stesso tempo parallelo e convergente. Parallelo, perché ognuno ha la
sua strada e i suoi diversi compiti. Convergente, soltanto nell’aiutare il popolo. Quando i rapporti
convergono prima, senza il popolo, o infischiandosene del popolo, inizia quel connubio con il
potere politico che finisce per imputridire la Chiesa: gli affari, i compromessi… Bisogna procedere
paralleli, ognuno con il proprio metodo, i propri compiti, la propria vocazione. Convergenti solo nel
bene comune. La politica è nobile, è una delle forme più alte di carità, come diceva Paolo VI. La
sporchiamo quando la usiamo per gli affari. Anche la relazione fra Chiesa e potere politico può
essere corrotta, se non converge soltanto nel bene comune».
Posso chiederle se avremo donne cardinale?
«È una battuta uscita non so da dove. Le donne nella Chiesa devono essere valorizzate, non
“clericalizzate”. Chi pensa alle donne cardinale soffre un po’ di clericalismo».
Come procede il lavoro di pulizia allo Ior?
«Le commissioni referenti stanno lavorando bene. Moneyval ci ha dato un report buono, siamo sulla
strada giusta. Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la “banca centrale” del Vaticano sarebbe
l’Apsa. Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, missioni, le Chiese povere. Poi è
diventato come è adesso».
Un anno fa poteva immaginare che il Natale 2013 lo avrebbe celebrato in San Pietro?
«Assolutamente no».
Si aspettava di essere eletto?
«Non me l’aspettavo. Non ho perso la pace mentre crescevano i voti. Sono rimasto tranquillo. E
quella pace c’è ancora adesso, la considero un dono del Signore. Finito l’ultimo scrutinio, mi hanno
portato al centro della Sistina e mi è stato chiesto se accettavo. Ho risposto di sì, ho detto che mi
sarei chiamato Francesco. Soltanto allora mi sono allontanato. Mi hanno portato nella stanza
adiacente per cambiarmi l’abito. Poi, poco prima di affacciarmi, mi sono inginocchiato a pregare
per qualche minuto insieme ai cardinali Vallini e Hummes nella cappella Paolina».




M.Ovadia e la lezione dei grandi pacifisti: la violenza delle piazze

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una saggia riflessione di M. Ovadia sulla nostra attualità che vede nelle nostre piazze uno scatenarsi di violenza anche dura e gratuita come modo di risoluzione di problemi politici: la grande lezione che, attualissima, ci viene da Gandhi e Mandela:

La violenza delle piazze e la lezione di Gandhi e Mandela

di Moni Ovadia
in “l’Unità” del 14 dicembre 2013

L’esplosione di violenza, intesa come violenza «strictu sensu», ovvero quella fisica, incontrollata o apparentemente tale, lo scontro cercato con le Forze dell’Ordine, l’attacco distruttivo ai simboli del potere, all’indomani del loro manifestarsi, ricevono fiumi di esecrazione e di espressioni scandalizzate a carattere eminentemente retorico. È un rito consuetudinario, si sa. Ora, per essere chiari, io personalmente sono non solo politicamente contrario a tale forma di violenza, ma lo sono anche antropologicamente. Considero oltretutto che, alla fine, si riveli sempre essere un boomerang che si ritorce anche contro la migliore delle cause che cada nella trappola di servirsene. Porta con sé il rischio di coinvolgere, inutilmente, persone incolpevoli che si trovano per caso nel teatro della violenza stessa. Solo la rivolta contro un regime tirannico e liberticida giustifica una violenza insurrezionale per abbatterlo e dopo le grandi lezioni di Gandhi e di Nelson Mandela, anche questa opzione sbiadisce sullo sfondo di altre opzioni di lotta. Fatta questa premessa necessaria, è inevitabile porsi una domanda retorica ma cogente. Come mai tutti coloro che si scandalizzano tanto per la violenza che esplode nelle strade e nelle piazze, non hanno aperto bocca di fronte alle mille e più vili forme di violenza sotto i loro occhi quale la perdurante ingiustizia, ininterrottamente perpetrata contro i ceti più deboli, la violenza del privilegio, la violenza della privazione del lavoro, della sua dignità, la violenza della distruzione della dignità sociale e di quella personale con la riduzione della nobiltà del lavoratore a condizioni servili, massacranti e umilianti? La vasta parte del ceto politico, ha gozzovigliato con le risorse nazionali, le ha sprecate per favorire gli amici degli amici sottraendole alla ricchezza comune, ha passato interi anni a chiacchierare nei talk show prendendo solennemente impegni che non avrebbe mantenuto, ha raggirato gli elettori, ne ha ignorato la volontà con trucchi da mediocre prestidigitatore e si è esercitata nel più sconcio narcisismo mentre il Paese sprofondava nella polverizzazione sociale e il ceto medio si sgretolava dando la stura ad un pauroso incremento della disoccupazione e della sfiducia esistenziale. I sussiegosi stigmatizzatori della violenza di piazza, si sono guardati bene dal condannare la violenza dei grandi speculatori e delle banche che, con le loro azioni banditesche hanno generato la paurosa crisi che divora le nostre vite ed è grazie al marasma sociale creato da questi furfanti che nelle sacrosante ragioni della protesta, possono anche annidarsi fascisti e imbecilli che lanciano accuse sinistre sui banchieri, non in quanto tali, ma in quanto ebrei. Come se i banchieri non ebrei fossero invece dei benefattori. Ma per questa feccia di antisemitismo a Milano abbiamo un detto eloquente: «La razza dei pirla l’è mai finida».




il miglior saluto a Mandela: una riflessione di Boff

Boff

 

Il significato di Mandela per il futuro dell’umanità

nel giorno dei solenni funerali di Nelson Mandela, credo che saluto migliore non poteva arrivare da un altro grande uomo, L. Boff, che riflette sulla morte di Mandela il quale  “con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa”

Nelson Mandela, con la sua morte si è tuffato nell’inconscio collettivo dell’umanità per non uscirne mai più, perché si è trasformato in un archetipo universale, di colui che non ha ottenuto giustizia, ma che non conserva rancore, che ha saputo perdonare, riconciliare i poli antagonisti e trasmetterci una incrollabile speranza che per l’essere umano si può ancora fare qualcosa.

Dopo aver passato 27 anni in prigione, eletto presidente del Sudafrica nel 1994, si propose e realizzò la grande sfida di trasformare una società strutturata secondo la suprema ingiustizia dell’apartheid che disumanizzava le grandi maggioranze nere del paese condannandole a essere non-persone, in una società unica, unita, senza discriminazioni, democratica e libera. E ci è riuscito perché aveva scelto il cammino della virtù, del perdono e della riconciliazione.

Perdonare non è dimenticare. Le piaghe restano lì, molte ancora aperte. Perdonare è non permettere che l’amarezza e lo spirito di vendetta abbiano l’ultima parola e stabiliscano la direzione della vita. Perdonare è liberare le persone dai lacci del passato, voltar pagina e cominciare a scriverne un’altra a quattro mani, di neri e di bianchi. La riconciliazione è possibile e reale soltanto quando c’è l’ammissione completa dei delitti da parte dei loro autori e la piena conoscenza degli atti da parte delle vittime. La pena dei criminali è la condanna morale davanti a tutta la società. Una soluzione di questo tipo, sicuramente originalissima, presuppone un concetto alieno dalla nostra cultura individualista: lo UBUNTU, che vuol dire: “io posso essere io solo attraverso te e con te”. Pertanto, senza un laccio permanente che ci tenga uniti tutti con tutti, la società starà, come la nostra, sotto il rischio di lacerazione e di conflitti senza fine.

Dovrà figurare nei manuali scolastici del mondo intero questa affermazione umanissima di Mandela: “io ho lottato contro la dominazione dei bianchi e ho lottato contro la dominazione dei neri. Io ho coltivato la speranza dell’ideale di una società democratica e libera, nella quale tutte le persone vivono insieme e in armonia e hanno opportunità uguali. È un ideale per il quale io spero di vivere e raggiungerlo. Ma, se necessario, è un ideale per il quale sono disposto a morire”.

Perché la vita e la saga di Mandela fondano una speranza nel futuro dell’umanità e della nostra civiltà? Perché siamo arrivati al nucleo centrale di un accumulo di crisi che può minacciare il nostro futuro come specie umana. Stiamo proprio nel pieno della sesta grande estinzione di massa.

Cosmologi (Brian Swim) e biologi (Edward Wilson) ci avvertono che, se le cose continuano come adesso, arriveremo verso l’anno 2030 al culmine di questo processo devastante. Questo vuol dire che la credenza persistente nel mondo intero, anche in Brasile, che la crescita economica materiale comporterebbe sviluppo sociale e culturale spirituale è un’illusione. Stiamo vivendo tempi di barbarie e senza speranza.

Cito l’insospettabile Samuel P. Huntington, antico assessore del Pentagono e analista perspicace del processo di globalizzazione, al termine del suo Lo scontro delle civiltà: “la legge e l’ordine sono il primo requisito di civiltà; in gran parte nel mondo essi sembrano stare evaporando; in una base mondiale, la civiltà appare, sotto molti aspetti, che stia cedendo davanti alla barbarie, generando l’immagine di un fenomeno senza precedenti, una Età delle Tenebre mondiale, che si abbatte sopra l’Umanità” (1997:409-410).

Aggiungo l’opinione del noto filosofo e scienziato politico Norberto Bobbio, che come Mandela credeva nei diritti umani e nella democrazia come valori per risovere il problema della violenza tra gli Stati e per una convivenza pacifica. Nella sua ultima intervista ha dichiarato: “Non saprei dire come sarà il Terzo Millennio. Le mie certezze cadono e soltanto un enorme punto interrogativo agita la mia mente: sarà il millennio della guerra di sterminio o della concordia tra gli esseri umani? Non ho possibilità di rispondere a questa indagine”.

Davanti a questi scenari bui, Mandela risponderebbe sicuramente sostenuto dalla sua esperienza politica: sì, è possibile che l’essere umano si concili con se stesso, e sovrapponga la sua dimensione di sapiens a quella di demens e inauguri una nuova forma di stare insieme nella stessa Casa.

Forse valgano le parole del suo grande amico, l’arcivescovo Desmond Tutu, che ha coordinato il processo di Verità e Riconciliazione: “ho affrontato faccia a faccia la bestia del passato, avendo chiesto e ricevuto il perdono, giriamo adesso pagina – non per dimenticare questo passato, ma per non permettere che ci tenga prigionieri per sempre.

Avanziamo in direzione di un futuro glorioso e di una nuova società in cui le persone valgano non in ragione dell’irrilevanza biologica o di altri strani attributi, ma perché sono persone di valore infinito, create a immagine di Dio”.

Questa lezione di speranza ci lascia Mandela: noi potremo ancora vivere se, senza discriminazioni, concretizzeremo di fatto l’Ubuntu.

Traduzione di Romano Baraglia