bufale contro i rom

La bufala della renna rubata e mangiata dai rom

di – 27/12/2013 

Pubblicata dal ‘Corriere del Giornale’

Ci cascano in parecchi

La bufala della renna rubata e mangiata dai rom

Sul web le notizie ‘anti-rom’ riscuotono costantemente un discreto successo in termini di condivisioni e visualizzazioni, al punto da rappresentare occasione ghiotta anche per i creatori di bufale. Lo sanno bene gli autori del sito Giornale del Corriere, un blog noto per la pubblicazione di notizie fasulle che spesso diventano virali sui social network e che ieri ha lanciato in rete lo ‘scoop’ di una renna rubata in un centro commerciale e poi arrostita in un campo nomadi.

 

bufala renna rubata arrostita rom 2

 

LA NOTIZIA FASULLA – In particolare, il furto sarebbe avvenuto in un ipermercato Auchan di Udine nella serata del 24 dicembre, mentre il successivo ritrovamento ad opera dei carabinieri del comando della stazione Udine ovest sarebbe avvenuto poche ore dopo la scomparsa dell’animale in un campo nomadi della periferia del capoluogo. Stando a quanto scritto dal Corriere del Giornale, che a differenza di altri creatori di bufale (come Lercio) non ama utilizzare l’ironia e vuol rendere invece le storie inventate molto credibili e quindi ingannevoli, poco dopo la chiusura del centro commerciale i nomadi avrebbero rubato la renna utilizzata da alcuni ‘Babbo Natale’ per la promozione natalizia e la distribuzione di doni ai bambini per poi trasportarla e arrostirla nel loro accampamento.

IL SUCCESSO SU FACEBOOK – Ovviamente la notizia fasulla ha urtato la sensibilità degli animalisti e di tutti coloro che hanno a cuore uno dei principali simboli della festività natalizia e dell’attaccamento dei bambini al rito dei regali da scambiarsi allo scoccare della mezzanotte. Ma la bufala ha anche fornito un comodo assist a chi ama regolarmente sollevare l’allarme per i reati commessi dagli stranieri nel nostro paese. Il risultato è un rapido rimablzare di bacheca in bacheca che ha generato decine di tweet e migliaia di condivisioni e like su Facebook. Ma non solo.

 

 

I COMMENTI DELLA RETE La notizia è stata ripresa anche da diversi siti, stavolta un po’ ingenui e disattenti. Free Animals riprendendo la storia della renna rubata e arrostita ha scritto che «i Rom credono di potersi permettere tutto». Mentre Majano Gossip ha provato a spiegare che oggi «c’è tanto bisogno di destra». Nel frattempo qualche utente ha aperto una discussione sul caso nel forum di Termometro Politico. Qualche altro su Yahoo! Answers. Quando si dice: il tam tam.

(Fonte immagini: Corrieredelmattino.altervista.org)




la sperimentazione animale e il rischio fanatismo

Caterina Simonsen, studentessa 25enne nata a Padova e iscritta a

riflessioni di V. Mancuso a proposito della sperimentazione animale a partire dagli insulti che una studentessa di veterinaria affetta da una malattia rara per aver usufruito della sperimentazione animale per sopravvivere

a seguire le brevi ma forti e appropriate riflessioni si A. Serra contro un fanatismo ecologico che si veste di disumanità e violenza:

 

QUEL GIUSTO EQUILIBRIO FRA IL CUORE E LA MENTE

Vito Mancuso

29 dicembre 2013 

Quantcast

Caterina Simonsen, studentessa di veterinaria all’Università di Bologna da tempo seriamente malata, qualche giorno fa su Facebook ha scritto così a favore della sperimentazione animale in ambito medico: «Ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale, senza la ricerca sarei morta a 9 anni». Ha aggiunto di studiare veterinaria «per salvare gli animali», di essere vegetariana, e nel suo profilo mostra una foto che la ritrae mentre bacia il suo criceto di nome Illy.

Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.

Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.

Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.

Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso.

A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.

Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire contemplativa, in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.

Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.

A. Serra e la sua solidarietà a Caterina:

Solidarietà e affetto per Caterina, la studentessa di Bologna (facoltà di Veterinaria, e non è un dettaglio) massacrata di insulti e minacce di morte da sedicenti “animalisti” per avere osato dire che senza la sperimentazione sugli animali non sarebbe sopravvissuta alla sua grave immunodeficienza. Mi domando spesso perché, tra i fanatici incapaci di affrontare qualunque discussione, i sedicenti animalisti occupino un posto così rilevante. Chi ama la natura, la frequenta, la ammira, ci vive in mezzo, cerca di sentirsene parte, sa che la natura è complessa; non è schematica, la natura, non è ideologica.
Quando sento parlare i portavoce più fanatici e sprovveduti del sedicente animalismo mi viene da pensare che gli umani, dopo avere soggiogato e manipolato la natura con goffa avidità, oggi tendono a farne un nuovo tabù. Ma tutti i tabù sono retrogradi e irrazionali; e tutti i tabù nascono dal senso di colpa, che è sempre un pessimo consigliere. Il rispetto per gli animali (boicottando, per esempio, gli allevamenti intensivi) è una manifestazione di pensiero evoluto. L’animalismo isterico una devoluzione patologica della cultura umana

anche O. Beha ha riflettuto sull’atteggiamento degli animalisti i reazione al ‘caso di Caterina Simonsen’, esprimendosi in questo modo:

Test sugli animali e barbarie di fine anno

Caterina Simonsen

Ci si affaccia sul 2014 in piena barbarie regressiva. Di segnali ce ne sarebbero tanti, guardandosi intorno e ovviamente anche oltre i confini nazionali, ma scelgo il caso di Caterina Simonsen, la studentessa padovana di veterinaria in cura in ospedale che ha diffuso un messaggio per il quale è stata poi aggredita. Il messaggio suonava così succintamente: “Sarei morta se non ci fossero i test sperimentali sugli animali perché soffro di malattie rare”.

Sul web si sono scatenati gli animalisti contro di lei, arrivando ad augurarle la morte tout court. Quindi un seguito di attestati di solidarietà alla ragazza e polemiche di non grande spessore. Ebbene, il primo, immediato livello di barbarie è quello di chi augura la morte a Caterina e di chi senza farlo si associa idealmente a tale augurio. Pensate a un figlio da curare, per il quale fareste tutto, e meditate, barbari. Il secondo livello è quello di continuare a opporre ricerca scientifica e sperimentazione animale come toccasana a vivisezione e altre pratiche barbare o semibarbare. Qui siamo alla contrapposizione tra il figlio da curare e il tuo cane da far secco per sperimentare, una specie di “tifo” tra un umano e un animale che è esso stesso barbarie.

Il terzo livello è quello della comunicazione. Perché mai o troppo raramente si è parlato e si parla con chiarezza dei vari aspetti della questione? Perché gli italiani che secondo qualunque ricerca si informano soprattutto grazie alla tv (o per colpa della) non hanno mai potuto approfittare di trasmissioni serie che rendessero pubblici i risultati di scienza e tecnica nel mondo, ormai oltre una sperimentazione animale considerata per esempio negli Usa perlomeno impropria e arretrata nel confronto tra specie diverse? Stesso discorso riguardo a etica e normative sul pianeta. Perché? Perché siamo barbari, e come scriveva Shakespeare a proposito di Polonio nell’Amleto, “c’è del metodo in quella follia”, e mi riferisco a chi da tutto ciò ricava montagne di denaro. Buon Anno, a Caterina e a tutti coloro che se lo meritano, possibilmente oltre queste secche.

(Oliviero Beha)




il ‘questionario’ boicottato dall’alto?

 

papa-francesco

 

il silenzio delle gerarchie sul ‘questionario’ che papa Francesco ha voluto nelle mani di tutti i fedeli perché rispondessero in modo attivo come partecipazione alla  preparazione del sinodo straordinario sulla famiglia sembra esprimere in modo eloquente una volontà contraria da parte delle gerarchie che non vedono di buon occhio la portata innovativa di tale ‘documento’ e di tale partecipazione: su questo una appropriata puntualizzazione di L. Kocci su ‘il Manifesto’ odierno:

Il silenzio della Chiesa

 

“il manifesto” 29 dicembre 2013

Luca Kocci

Doveva essere la più grande consultazione fra il «popolo di Dio» mai realizzata nella Chiesa cattolica. Si ridurrà ad un confronto fra pochi, svolto piuttosto in fretta.

Ormai, a pochi giorni dalla sua conclusione, pare essere questo, perlomeno in Italia – ma non è che all’estero, tranne poche eccezioni, la situazione sia molto diversa, anche perché i tempi dettati dalla Santa sede erano comunque molto stretti per tutti – il destino del questionario voluto dal Vaticano in vista del Sinodo straordinario dei vescovi sul tema della famiglia in programma ad ottobre 2014: 38 domande rivolte a tutti i cattolici su questioni “calde” relative alla famiglia, dai divorziati risposati (esclusi dai sacramenti) alle unioni di fatto, dalla contraccezione alle coppie omosessuali.

Che le cose non stessero andando bene lo si era capito presto: già alla fine di novembre, un mese dopo l’avvio della consultazione, il regista dell’operazione, il segretario generale del Sinodo mons. Baldisseri, aveva ammesso forti rallentamenti. Ora che la scadenza è alle porte – entro il 7 gennaio tutte le 226 diocesi italiane dovranno inviare le risposte alla Conferenza episcopale che a sua volta predisporrà una sintesi per il Vaticano entro fine gennaio – il fallimento della consultazione è certo, perlomeno nella sua estensione più ampia e popolare. Secondo una rilevazione dell’agenzia di informazioni Adista, solo una minoranza delle diocesi (intorno al 10%) sì è mobilitata con decisione, promuovendo e sollecitando i parroci ad avviare la consultazione nelle parrocchie, nei gruppi e tra i fedeli. Almeno un terzo è rimasto fermo, tenendo il questionario ben chiuso nei cassetti di qualche ufficio (a rispondere, se lo faranno, saranno i responsabili della pastorale familiare). Le altre – poco più della metà – hanno proceduto con estrema lentezza in fase di avvio (per esempio don Aldo Antonelli, parroco di Avezzano, rivela sul suo blog di aver ricevuto il questionario dal vescovo solo il 14 dicembre) o con straordinaria velocità in fase conclusiva (a Torino il vescovo Nosiglia ha chiesto ai preti le risposte entro il 2 dicembre, in molte altre diocesi la scadenza era fra il 10 e il 15 dicembre): un modo per neutralizzare la consultazione senza però dire di non averla fatta.

Tanto che qualcuno, dopo aver apprezzato la scelta di interpellare tutti i cattolici – effetto del “nuovo corso” di papa Francesco? –, parla apertamente di «boicottaggio». «Le strutture della Chiesa italiana si stanno muovendo in ritardo e con evidenti reticenze», il quotidiano Avvenire «tace completamente mentre è ben noto come sia pronto e assillante in altre “campagne”» – basti ricordare la martellante propaganda per l’astensione al referendum sulla legge 40 nel 2005, i Family day o le richieste di finanziamenti pubblici per la scuola cattolica –, «ci chiediamo allora se non ci si trovi di fronte a un vero e proprio strisciante boicottaggio», ha denunciato il movimento Noi Siamo Chiesa.

Ad attivarsi in questi due mesi è stata per lo più la base cattolica più attenta, e sovente ritenuta “sovversiva” dai vertici ecclesiastici: qualche parrocchia ma soprattutto gruppi e associazioni che si sono confrontati e hanno prodotto dei documenti collettivi, con posizioni spesso in difformità dal magistero. «Invece di vedere nelle unioni civili, anche omosessuali, la ricerca di un’etica nuova, fatta di diritti e doveri reciproci, e di interrogarsi sul loro essere segno di amore, la Cei ha agito per impedire allo Stato di riconoscerle giuridicamente», si legge per esempio nella nota della Comunità san Francesco Saverio di Trento. «Paternità e maternità responsabili» non significa solo «apertura generosa alla vita» ma anche «capacità di fare scelte morali a partire dalla coscienza e dall’analisi del contesto in cui si vive», quindi «capire quando è necessario ricorrere anche a pratiche contraccettive», è scritto nel documento gruppo Chicco di senape di Torino.

Risposte, quindi, che mettono in evidenzia la distanza sempre maggiore fra il «popolo di Dio» e la dottrina difesa dalle gerarchie. E forse proprio questa è stata la ragione per frenare la consultazione: la base parli, ma non troppo.




critiche al ‘questionario’

stella di natale

 

in genere il cosiddetto ‘questionario’ di preparazione al sinodo straordinario sulla famiglia ha avuto una accoglienza generalmente molto buona soprattutto nella base della chiesa ( sembra meno in ambienti gerarchici, a giudicare da silenzi eloquenti e ritardi che non sembrano innocenti, volti, sembra ad alcuni, a boicottare il ‘questionario’ stesso per la sua valenza innovativa)

anche da qualche ambiente della base vengono delle riflessioni critiche, come queste del progetto ecclesiale ‘chiccodisenape’ che vede in esso soprattutto un’ “antropologia sottesa alla formulazione delle domande  ancorata a modelli passati e inadatta a cogliere le istanze cruciali della contemporaneità”:

 

Inadeguatezze e ambiguità del Questionario

di Chiccodisenape – Torino

Chiccodisenape, un progetto ecclesiale nato nel 2007, ha apprezzato la decisione di procedere a un confronto aperto su questo tema cruciale per i credenti, perché ascoltare tutti è una qualità di Chiesa sinodale, indipendentemente dai risultati. Segnala, tuttavia, che il questionario dà l’idea di essere rivolto ai soli credenti praticanti, privandosi dei punti di vista di coloro che vivono esperienze più variegate. Chiccodisenape ha deciso di rispondere solamente alle domande che sono state oggetto della discussione all’interno della propria assemblea, inviando una prima sintesi – di cui si parla in questo articolo – alla Diocesi di Torino e preparando una riflessione più ampia da spedire alla segreteria del Sinodo.

Una antropologia inadeguata

Cominciamo dalla fine. Alla domanda se ci sono altre sfide e proposte urgenti riguardo ai temi trattati nel questionario (domanda 38), rispondiamo che l’antropologia sottesa alla formulazione delle domande sembra ancorata a modelli passati e inadatta a cogliere le istanze cruciali della contemporaneità. Sentiamo mancante una riflessione sulle donne di oggi in grado di accogliere i frutti dell’emancipazione del ‘900, che pure era stata salutata come uno dei segni dei tempi da Giovanni XXIII nella Pacem in terris.

Non solo la Chiesa non si è ancora fatta carico di una riflessione approfondita che sappia cogliere le istanze femminili di una partecipazione alla vita ecclesiale significativa senza ridurle a «forme di femminismo ostile», ma ancor più non ha portato un cambiamento di mentalità rispetto al ruolo delle donne nei confronti della famiglia, continuando a sostenere un immaginario tradizionale sempre più lontano dalla realtà. Allo stesso tempo, non è presente una riflessione sugli uomini contemporanei in grado di farsi carico del cambiamento nella società contemporanea dei ruoli di riferimento tradizionale.

Infine, in nessun punto del questionario ci si sofferma sul tema dell’affettività come esperienza dell’amore. In questo modo si perdono aspetti cruciali come la spiritualità vissuta dalla coppia; le dimensioni di ordine teologico, psicologico, antropologico che intervengono nella costruzione della famiglia; la donazione reciproca e la fedeltà come cardini del matrimonio. Appare, inoltre, una percezione della sessualità vincolata alle sole necessità procreative, senza cogliere, su questo argomento, la riflessione scientifica e quanto le coppie cristiane testimoniano (anche nelle varie forme associate). Per quanto giustificabile da una certa angolazione pastorale, non possiamo non osservare che l’approccio proposto fa emergere una maggiore attenzione alla regolazione dottrinale e canonica piuttosto che al vissuto umano e cristiano, autentico e travagliato delle persone che formano le famiglie.

Legge naturale, concetto ambiguo

Il tema della “legge naturale” in relazione al matrimonio (domande 5-7) è cruciale. L’idea di legge naturale può aver avuto un grande significato come istanza critica del diritto positivo e di salvaguardia di ciò che è indisponibile. Tuttavia è necessario che si chiarisca che cosa si intende per “legge naturale”: o la si intende in termini scientifici e allora serve una dimostrazione empirica (e quindi difficilmente il matrimonio potrebbe rientrarvi), o si deve pensare che si vuole parlare dell’originario disegno di Dio sull’uomo e sulla famiglia (e sappiamo che si tratta di un argomento largamente discusso a partire dai testi biblici di riferimento).

Se la Chiesa può individuare in un modello di matrimonio la forma più adeguata e conforme al disegno originario, questo non la autorizza a presentarlo come naturale, soprattutto per le ambiguità filosofiche e teologiche a cui questo concetto si presta. Ne consegue che non è del tutto appropriato vedere nella legge naturale il principio di regolazione del matrimonio, che è piuttosto un fatto culturale che si evolve nel corso nella storia. Si rischierebbe, inoltre, di dare più valore a un istituto che alla persona.

Uscire dalla dicotomia «sacramenti o niente»

Un secondo blocco di domande (15-17) riguarda le situazioni matrimoniali difficili come la convivenza ad experimentum, le unioni libere di fatto, i separati e i divorziati risposati. La sensazione è che queste situazioni e condizioni siano molto diffuse, ma è difficile poter ricavare dati statistici significativi partendo dalle esperienze dei singoli. Si tratta di individuare o, ancor più, favorire ricerche statistiche scientifiche che possano permettere di conoscere la situazione.

È evidente la tendenza di ampia parte delle nuove generazioni a non dare valore alle forme istituzionali, sia religiose che civili. Si attribuisce questo stato di cose alla condizione di precarietà in cui vivono e che rende difficile fare progetti a lungo termine (e tanto meno per l’intera vita), alla fragilità dei rapporti interpersonali, a una cultura che rifiuta scelte definitive, ma anche al debole richiamo che l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha ormai verso gran parte delle persone. Eppure non siamo sicuri che queste altre forme di unione, anche quando non sono consolidate da una promessa di fedeltà così radicale, ma in cui comunque si sperimenta in modo autentico l’amore, non possano avere la possibilità di una qualche accoglienza nella Chiesa.

Il matrimonio cristiano, oggi inizio di una vita comune di coppia, potrebbe essere pensato come approdo responsabile e cosciente di cammini diversi (perché diverse sono le persone, la loro formazione, la loro storia, i contesti sociali), anche con una prassi pastorale in grado di uscire dalla dicotomia “o sacramenti o niente”. Infine, pensiamo che possa essere molto importante allearsi con il mondo civile per riconoscere il valore del matrimonio tout court, vedendo nel matrimonio civile un passo importante e magari preparatorio per il matrimonio religioso. La Chiesa dovrebbe comunque interessarsi alle persone che hanno percorsi diversi da quelli regolari e sperimentare pratiche di accoglienza e di accompagnamento spirituale. Se la Chiesa deve continuare a sostenere fortemente l’indissolubilità del matrimonio, non si può ignorare che in alcune situazioni la separazione non solo è inevitabile, ma anche necessaria, anche per il bene degli eventuali figli. Bisognerà immaginare percorsi di accompagnamento che aiutino a confrontarsi con l’esperienza che si vive (oltre che con il dolore esistenziale che la persona prova), in vista di una partecipazione piena ai sacramenti.

Annullamento, ma non basta

Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale (domanda 21) è necessario per far sì che più persone possano conoscere questa procedura e accedervi agevolmente. Ma è più urgente interrogarsi se l’annullamento sia il solo istituto a cui il credente praticante può ricorrere oppure se si possono trovare altre forme, come ad esempio quelle accettate nella Chiesa del primo millennio e che sono ancora in uso nelle Chiese orientali.

È opportuno reintrodurre il “principio di economia” che permette il recupero di persone che hanno avuto difficoltà matrimoniali. È altresì opportuno riprendere l’esame e l’approfondimento di alcune proposte di iter di reintegrazione, come quello della conferenza episcopale tedesca. Questa soluzione sarebbe feconda anche in una prospettiva ecumenica nei confronti delle Chiese con cui condividiamo la sacramentalità del matrimonio.

Una improbabile differenza

Un gruppo di domande sono relative alla paternità responsabile e alla contraccezione (domande 31-34). Pensiamo che l’Humanae vitae sia conosciuta, ma non accolta pienamente. L’aspetto che riteniamo più importante è la centralità data alla paternità e alla maternità responsabili, vale a dire la capacità dei credenti di fare scelte morali a partire dalla coscienza e dall’analisi del contesto in cui vivono. Questo richiede l’espressione dell’apertura generosa alla vita, ma, al contempo, la capacità di cogliere quando è necessario fare scelte differenti e ricorrere a pratiche contraccettive. Da questo punto di vista, riteniamo che non vi sia differenza sostanziale tra i presunti metodi naturali e gli altri strumenti di contraccezione (che sono ben diversi dalle pratiche abortive), sia da un punto di vista morale sia da un punto di vista pratico. Continuare a sostenere questa improbabile differenza rischia di allontanare dalla vita sacramentale, e non solo, coloro i quali hanno compiuto un’autentica e responsabile scelta morale.

* http://chiccodisenape.wordpress.com; l’articolo è stato redatto da Antonello Ronca

Adista Società Cooperativa a Responsabilità Limitata – via Acciaioli 7, 00186 Roma – P.I. 02139891002 – Iscrizione ROC N. 6977



Scalfari e la ‘rivoluzione’ di papa Francesco

 

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è decisamente contento E. Scalfari degli atteggiamenti e degli interventi di papa Francesco: a lui il papa ha  fatto delle telefonate e gli ha concesso un’ampia intervista; Scalfari a più riprese ha espresso la sua soddisfazione e su ‘la Repubblica’ odierna ne parla come di un papa ‘rivoluzionario’: pur non rinnegando la dottrina tradizionale esprime un approccio col messaggio evangelico in modo radicalmente diverso dalle impostazioni tradizionali che mettevano al centro il peccato anzjché la misericordia:

La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 29 dicembre 2013

 

Si cercano con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la

Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti;

altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione

teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama

soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.

Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve

pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.

Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa

radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l’ha

fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione.

Soprattutto sulla teologia.

I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono

un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un

divieto. Quindi è una colpa.

La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla

diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: «Onora il tuo Dio, non

nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me».

Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei

peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: «Non rubare, non commettere atti impuri,

non desiderare la donna d’altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché

la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)».

Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto

di vista non somiglia affatto all’ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di

David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla

Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che

verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano.

Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso

che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.

È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste

comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l’hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua

essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa.

Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti

peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.

Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di

Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella

predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.

Nei secoli che seguirono, fino all’editto di Costantino che riconobbe l’ufficialità del culto cristiano,

il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore

verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell’amore alle creature umane affinché lo

scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l’agape, la carità e l’esortazione evangelica «ama

il tuo prossimo come te stesso».

Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio

estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono.

Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore

di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l’ha distaccata dal popolo dei fedeli.

Dall’editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni,

potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia,

metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della

predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella

storia del cristianesimo.

Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione

dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l’abolizione del peccato è la parte più

sconvolgente di tutto quel recentissimo documento.

***

Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da

Cristo con l’amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà

di coscienza. L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa

affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene

sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene

sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è

libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia

di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla,

calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante

eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure

nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha

scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l’Inferno, ma ancora

non l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al

Purgatorio una funzione “post mortem” di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio

sull’entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.

Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo

con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i

suoi antecedenti in papa Giovanni e nel Vaticano II.

Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li

contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero

continuerà.

Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l’avessi sollecitato con una domanda: «Dio non è

cattolico». E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime

di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l’esistenza. Ma Dio è al di

sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.

Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: «Noi

cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l’ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e

ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale». Infine ci fu

in quell’incontro un’altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta

e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?

La risposta fu questa: «La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti». A me sembrò un arduo

passaggio dalla trascendenza all’immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente

Spinoza e Kant: «Deus sive Natura» e «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».

«Tutto sarà tutto in tutti». A me, l’ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti

hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.

Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l’uomo è

dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.

Ma qui si pone un’altra e fondamentale domanda: che cos’è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia

impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari

l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di

sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si

guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l’abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se

c’è anche il Male l’esistenza di uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la

salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile

perché privo di alternativa.

***

Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose,

concrete, organizzative, rivoluzionarie anch’esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne

nella Chiesa. Parla dell’importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma,

“primus inter pares”. Parla dell’autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell’importanza delle

parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese,

ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio

pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno

diminuite. «Io non ce l’ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei

poveri, degli esclusi, dei deboli». Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che

rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma

cerca ascolto, confronto, dialogo.

Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi

giorni fa Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della

Chiesa e contemporaneamente d’aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di

lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre

apprezzabile flessibilità. Francesco d’Assisi era invece integrale nella sua visione d’un Ordine

mendicante e itinerante. L’Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata;

la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.

Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che

rappresentano la sintesi di questo storico connubio: «È necessaria una conversione del Papato

perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di

abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e

creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio “Si è sempre fatto così”. Bisogna

non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al

dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare».

Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci

riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa

rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda.

Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito

è stato , da diverse parti, e comprensibilmente – soprattutto in riferimento all’affermazione perentoria contenuta nel titolo sull’ ‘abolizione del peccato’ – commentato l’articolo di E. Scalfari qui riportato (acuni, da parte tradizionalista e sterilmente critica ha accusato Scalfari di voler “insegnare il catechismo al papa” (cfr. ‘il Foglio’)

è intervenuto anche il portavoce  vaticano stesso, padre Lombardi per puntualizzare diverse cose e mettere meglio a fuoco il pensiero di papa Francesco

E. Scalfari risponde così alle puntualizzazioni di p. Lombardi:

Francesco e il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 31 dicembre 2013

 

Padre Lombardi ha rilasciato ieri alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito

l’altroieri suRepubblica e ne segnala l’importanza come l’espressione da parte del mondo laico non

credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per

l’attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C’è però nella sua dichiarazione alla Radio

Vaticana una netta smentita all’ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa

ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una

constatazione che qui trascrivo: “L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il

sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la

scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro

scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero,

la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime.

Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla,

ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono

una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia

pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se

ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre”.

Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la

persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra,

è appunto quella che “un Papa cattolico non può andare oltre”. Da questo punto di vista Padre

Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia

abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento

stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma

tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all’uomo. Se, a differenza

di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che

gliel’ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio

mosaico punisce chi esercita la sua libertà. punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso

terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l’umanità intera con il diluvio universale.

Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell’uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé

le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta

giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la

crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l’alleanza con Dio. Il Papa

cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel

momento in cui l’uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque

del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei

FratelliKaramazov. 

Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce

Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non

credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di

domenica che qui desidero riportare testualmente: “La predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per

il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci

riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra

vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”.

 

anche V. Mancuso ha voluto commentare l’articolo di Scalfari su riportato, puntualizzando, con maggiore senso e linguaggio teologico appropriato, in quale maniera precisa può parlarsi di ‘rivoluzione’ teologica ed ecclesiale di papa Francesco:

Il peccato nella Chiesa di Francesco

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 3 gennaio 2014

Nell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice

«rivoluzionario » e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si

tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non

lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche

solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di

governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete

decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai

divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica

rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio

onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la

Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che

ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava

pecca

fortiter sed crede fortius

(pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino,convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, unasituazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt.

L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto

amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia

che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo

è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa

terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al

di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia

buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari

esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle

più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre

invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e

quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati

all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che

non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che

producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo

l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta

al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per

esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).

Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo

sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina

cattolica risponde mediante il dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il

problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e

moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male

morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male

come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».

Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa

consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa

del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non

potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo

vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quanto

sostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo, ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto

sorgere.

Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la

predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi

come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro

arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima

parte del Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti

di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la

percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione

giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere

tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia,

così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi

ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel

1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale




capire papa Francesco a partire dalla ‘terra di nessuno’ che frequentava

Papa Francesco: A piedi nelle viscere di Buenos Aires

Cattura

 

 un bell’articolo di Marco Politi (su ‘il Fatto quotidiano’) descrive l’apostolato del card. Bergoglio prima dell’elezione a papa: Bergoglio non usava né l’auto né l’autista, così come rifiutò sin dall’inizio il palazzo arcivescovile, scegliendo per sé due stanze al terzo piano della curia diocesana. Sapeva guidare, ma da primate d’Argentina ha scelto di immergersi nel flusso quotidiano della gente sui mezzi pubblici“La povertà s’impara toccandola” Spostarsi così non è una prova di ascesi, è uno stile di vita a contatto con l’umanità affannata di megalopoli

Buenos Aires Nel ventre di Buenos Aires sulla metro di Jorge Mario Bergoglio. Stazione Bolivar, a due passi dalla cattedrale. Linea “E”, destinazione piazza Virrey. Si va verso una delle Villas Miseria, le borgate di baracche e case abusive che il futuro pontefice visitava regolarmente nel corso dei mesi. Il convoglio arriva lentamente con rumore di ferraglia, i vagoni ricoperti di graffiti. Fa caldo tra i pendolari assiepati. Intorno a Jorge c’è chi rimugina i suoi pensieri, fissa le pareti del tunnel scandite dalla luce al neon, ciondola la testa assonnato, guarda nel vuoto con lo sguardo rassegnato. Qualcuno – anche se giovane – porta negli occhi uno sguardo duro, feroce. A ogni fermata una scossa e uno stridio assordante di freni. Quaranta minuti di metro nel rimescolamento di razze, origini, storie che è Buenos Aires. Discendenti di spagnoli, italiani, giapponesi, cinesi, africani, tedeschi, francesi, autoctoni dell’America centrale, immigrati sudamericani di ogni specie. Impiegati attenti al bilancio familiare, giovani aggrappati a un’occupazione qualsiasi, masse sul filo della sopravvivenza. Bergoglio non usava né l’auto né l’autista, così come rifiutò sin dall’inizio il palazzo arcivescovile, scegliendo per sé due stanze al terzo piano della curia diocesana. Sapeva guidare, ma da primate d’Argentina ha scelto di immergersi nel flusso quotidiano della gente sui mezzi pubblici. Metro e autobus. A piazza Virrey risalgo i 35 gradini che l’ultrasettantenne si faceva con le sue scarpe ortopediche e l’anca indolenzita. Arrivo sotto una grande tettoia – aria afosa d’estate, fredda e umida d’inverno – in attesa della pre-metro, uno scalcinato trenino urbano che si inoltra verso le periferie. Ci vuole un’ora in tutto per arrivare a destinazione. Un’altra ora per tornare. E infinite ore durante l’anno per raggiungere i più vari luoghi dove era richiesta la sua presenza. Non c’è prelato di curia in Vaticano o cardinale o vescovo di piccola città di provincia disposto a sottoporsi a questa snervante routine. “La povertà s’impara toccandola” Spostarsi così non è una prova di ascesi, è uno stile di vita a contatto con l’umanità affannata di megalopoli. Nel ventre di Buenos Aires si sperimenta il groviglio di esistenze di una città, che oltre ai tre milioni di abitanti del suo nucleo ne ha altri dieci, che gravitano sul centro. Anzi, sui “centri” così variegati di una metropoli, in cui si passa dai palazzi, che riecheggiano la Parigi di fine Ottocento, ad eleganti edifici anni Trenta, modernissimi grattacieli in vetrocemento per finire nelle giungle di case popolari senz’anima e precipitare nella galassia delle baraccopoli. “Villa Ramon Carrillo” è l’ultima borgata abusiva in cui l’ar – civescovo Bergoglio ha voluto impiantare una parrocchia. Case abusive lasciate a metà o cresciute per successive superfetazioni. A pochi metri dalla fermata del trenino urbano si interrompe la strada asfaltata, si entra in terra di nessuno, terra battuta e rigagnoli perpetui che odorano di fogna. Qui finisce la legge. Nella maggior parte di queste baraccopoli i taxi si rifiutano di entrare. Padre Bergoglio arrivava a piedi in queste borgate, tra gli sguardi degli abitanti ora affettuosi e festosi ora diffidenti. Strade in terra battuta piene di buche o dall’asfalto frantumato. Dove stazionano macchine fuori corso rappezzate mille volte, i bambini giocano accanto ai rigagnoli che odorano di fogna, una madre spulcia la figlia, i cani randagi girano da un crocicchio all’altro. Un labirinto di case malfatte, in cui sul primo piano intonacato se ne è costruito un secondo fatto di mattoni e poi un terzo. Balconi improvvisati, stanze non finite e senza tetto. Bidoni, scheletri di tavoli e letti buttati per strada. Al di là di un cavalcavia si raggruma una borgata ancora più precaria, si chiama Villa Esperanza. Vicoli stretti dove passa appena una persona. Su una cella di cemento spicca un cartello “Si vende”. Dappertutto le inferriate che costellano ossessivamente porte e finestre, verande e l’atrio minuscolo del verduraio. Anche l’edicola di san Gaetano, patrono del pane e del lavoro, è coperta da un reticolato di metallo così fitto che non si vede nemmeno l’immagine. “La povertà teorica non interessa, la povertà si impara toccando la carne di Cristo povero”, ha sempre sostenuto Bergoglio e lo ha ripetuto da papa ancora recentemente. Qui, spiega padre Pedro Baya Casal, 43 anni, che regge insieme ad un altro prete la parrocchia dell’Immacolata, Bergoglio veniva ogni anno per la festa della Vergine e poi in occasione di riunioni dei preti di borgata. E questo in ognuna delle varie baraccopoli di Buenos Aires. Veniva a piedi con la sua cartella, chiacchierava con la gente, partecipava alla processione, vedeva crescere i figli della donne che aveva cresimato anni prima. Una chiesa “ospedale da campo” Non aveva paura di entrare in strade dove droga e violenza scandiscono la giornata. “A volte ho sentito letteralmente le pallottole intorno a me”, spiega padre Baya. Ai funerali di un ragazzo ucciso in uno scontro tra bande, il prete – abbrac – ciato dai coetanei piangenti della vittima – av – vertiva il calcio duro della pistola sotto le loro giacche. “A tratti mi dico esasperato: ma cosa si può fare? Poi riprendo a lavorare…”. A un centinaio di metri dalla parrocchia la casa annerita del presunto responsabile della pallottola mortale testimonia la vendetta dei parenti dell’ucciso. Qui e nelle altre baraccopoli circolano armi che anche i giovanissimi si procurano facilmente e circola la droga pazza, il paco, estremamente a buon mercato e rapidissima nel provocare dipendenza. “Brucia il cervello”, dicono a Buenos Aires. Allucinato, il tossico deruba prima i parenti del poco che hanno, poi va per le strade e uccide per un nonnulla. Mentre sono in Argentina, leggo di una giovane madre, che spingeva la carrozzella del pupo, sgozzata in provincia perché difendeva il suo borsellino. Qui, al contatto con la miseria quotidiana – e non davanti alla televisione o ai convegni di sociologia – Bergoglio ha maturato la sua idea di Chiesa “ospedale da campo”. Padre Baya mi racconta che seguiva da vicino l’opera dei preti delle baracche. Convogliava in queste zone parecchi sacerdoti. Durante il suo periodo di guida delle diocesi ha raddoppiato da undici a ventidue la presenza di preti nelle Villas miseria. “I poveri meritano il meglio, era solito dire”, racconta Baya. Concreto e determinato aiutava sistematicamente questi avamposti di umanità a realizzare doposcuola, centri per anziani, laboratori di formazione professionale, scuole di recupero, centri di riabilitazione per tossicodipendenti. In queste zone perdute Bergoglio ha forgiato la sua pastorale della misericordia. “Non dire mai domani, ci esortava, se qualche fedele viene a chiedere di confessarsi o un’estrema unzione”. E non dire “domani” se si tratta di ascoltare un genitore in difficoltà, aiutare economicamente una famiglia, portare qualcuno all’ospedale o facilitare un’operazione”. “Bergoglio – dice un altro celebre prete di borgata, padre Pepe Di Paola, nominato da lui primo vicario episcopale per le baraccopoli – non ha mai guardato alla realtà dalla prospettiva di Plaza de Mayo (la piazza della cattedrale e del palazzo presidenziale), ma dai luoghi del dolore, della miseria, della povertà: dal basso di una borgata o di un ospedale”. C’è un grande equivoco in Vaticano: Francesco non viene dalla “fine del mondo”. È il primo papa che viene dalle viscere pulsanti di una metropoli. Nessuno, da Pio XII a Benedetto XVI, ha mai fatto un’esperienza così drammatica e moderna.




p.Maggi commenta il vangelo della domenica

 

 

p. Maggi

SANTA FAMIGLIA 

29 dicembre 2013

PRENDI CON TE IL BAMBINO E SUA MADRE E FUGGI IN EGITTO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

 

Mt 2,13-15.19-23

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli

disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti

avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».

Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino

alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del

profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».

Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:

«Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti

quelli che cercavano di uccidere il bambino».

Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a

sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi.

Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città

chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Saràchiamato Nazareno».

La terra promessa si è trasformata in una terra di schiavitù e di morte, dalla quale bisogna scappare.

L’evangelista anticipa, negli episodi dell’infanzia di Gesù, quei tragici avvenimenti che poi si

svilupperanno durante tutta l’esistenza del Cristo. Ma vediamo il testo.

“Essi erano appena partiti”,

sta parlando dei magi, “quando l’angelo del Signore”, ecco tornare questa

formula, cioè Dio. Dio, quando interviene presso gli uomini, non viene mai presentato come realtà

divina, come se stesso, come il Signore, ma sempre con questa formula ‘angelo del Signore’, ma è

sempre il Signore quando entra in contatto con l’umanità.

Questo angelo del Signore interviene tre volte in questo vangelo per annunziare la vita di Gesù a

Giuseppe, per proteggerla, come in questo caso, dalle mire omicide di Erode, e poi per confermarlo al

momento della risurrezione.

“Apparve in sogno”,

il Signore appare in sogno ai profeti, quindi Giuseppe viene in qualche modo

qualificato come un profeta,

“E gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi inEgitto»”.

Ecco la terra promessa si è trasformata in una terra di schiavitù. Il popolo era scappato

dall’Egitto per entrare nella terra promessa, ma adesso deve scappare dalla terra promessa per andare a

trovare rifugio proprio in Egitto.

«E resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per uccide»rl”o.

La notizia è

verosimile. Sappiamo che Erode, il re legittimo, sospettoso di chiunque potesse togliergli in qualche

maniera la corona, non esitò ad eliminare una decina di suoi familiari, addirittura ammazzò tre figli,

l’ultimo appena qualche giorno prima di morire. Quindi la notizia è verosimile.

Ma è la risposta del potere al dono di Dio, come il faraone tentò di uccidere Mosè, così Erode tenta di

uccidere Gesù. E l’evangelista descrive la fuga di Giuseppe come la fuga del popolo ebraico dall’Egitto

nella notte di Pasqua. Infatti

“Egli si alzò nella notte”, come la notte della liberazione, “prese il bambino

e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse quello che era

stato detto dal Signore per mezzo del profeta

«Dall’Egitto ho chiamato mio figlio ”.

Quindi l’evangelista adopera questa profezia di Osea per vedere come l’azione del Signore protegge

sempre il suo popolo quando si trova in situazioni di pericolo.

“Morto Erode …”, ecco di nuovo l’angelo

del Signore che torna di nuovo in azione,

“…. Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse:

« Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» …”,

e ci saremmo aspettati che l’angelo dicesse a

Giuseppe “Torna nella terra di Israele”.

E invece gli dice

«Va nella terra d’Israele»”, e vedremo il perché. «Sono morti infatti quelli checercavano di uccidere il bambino

L’evangelista prende questa ultima espressione dal libro dell’Esodo

dove si legge che

“il Signore disse a Mos«èA: lzati e torna in Egitto: sono morti quelli che attentavano

alla tua vita»”.

Quindi l’evangelista presenta Gesù come il nuovo Mosè, il nuovo liberatore del suo popolo. Ma perché

l’evangelista qui, oltre alla citazione del libro dell’Esodo, dice che sono morti quelli che cercavano di

uccidere il bambino quando in realtà è uno, Erode, quello che cerca di uccidere il bambino? Perché

l’evangelista vuole anticipare quella che sarà l’azione dell’istituzione religiosa contro Gesù. Quindi nei

‘quelli’ vengono compresi i farisei, i sommi sacerdoti, gli anziani, tutta l’élite religiosa che si scatenerà

contro Gesù “Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra di Israele”.

Ecco anche qui di nuovo ci saremmo aspettati ‘tornò nella terra di Israele’, invece l’evangelista scrive che Giuseppe, con il bambino e la moglie, non torna nella terra di Israele, ma entra. Fa l’ingresso come il popolo quando entrò nellaterra promessa. Quindi c’è già l’anticipo di quello che sarà il processo di liberazione, il nuovo esodo che

Gesù compirà.

Ma quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao, al posto di suo padre Erode”. Alla morte

di Erode il regno venne diviso fra i tre figli. Ad Archelao andò la Giudea con la Samaria, e l’Idumea, a

Erode Antipa la Galilea con la Perea, e a Filippo tutto il nord a oriente del lago di Tiberiade. Bene questo

Archelao era sanguinario. Iniziò con un massacro di ben tremila cittadini,

“Ebbe paura di andarvi.

Avvertito poi in sogno”,

ecco di nuovo l’azione del Signore come sempre guida Giuseppe, “si ritirò nellaGalilea”,

la regione più malfamata di Israele, una regione talmente malfamata che non ha nome.

Mentre la Giudea prende il nome da Giuda, uno dei patriarchi delle dodici tribù che hanno composto

Israele, l’espressione Galilea viene dal disprezzo con il quale Isaia, nel capitolo 8 indica la regione dei

pagani. In ebraico Isaia scrive Gelil, che significa ‘distretto, territorio’ dei pagani. Da Gelil viene il nome

Galilea, quindi indica una zona semi-pagana, una zona lontana dal centro religioso.

E non solo,

“E andò ad abitare in una città chiamata Nazaret”, una città malfamata. Sappiamo nel

vangelo di Giovanni, la meraviglia di Natanaele quando gli dicono che Gesù viene da Nazaret, e lui

sorpreso dice “Da Nazaret può uscire qualcosa di buono?“Perché si compisse ciò che era stato detto

per mezzo dei pro feta e l’evangelista non scrive ‘Nazareno’, quindi abitante di Nazaret,

ma scrive ‘Nazoreo’, ed è importante questo termine,

perché in questo termine l’evangelista racchiude tre significati:

– Nezer, che significa virgulto, dalla profezia di Isaia al cap. 11 “Un virgulto spunterà dalle sue

radici, dalla casa di Davide”, Iesse è il padre di Davide

– Nazir, che significa consacrato

– E naturalmente Nazaret, la provenienza di Gesù.

 




la chiesa tedesca si interroga

 

 

“a cosa diciamo sì, a cosa diciamo no”

di Ludovica Eugenio (*)
In un durissimo documento pubblicato il 1° dicembre scorso sul sito (initiative-muenchner-kreis.de), intitolato «A cosa diciamo sì, a cosa diciamo no» e approvato all’unanimità da 18 parroci e diaconi (ma che gode del supporto di oltre 900 tra singoli e gruppi) i firmatari – capitanati dai diaconi Stephan Schöri e Willi Kuper, e dai parroci Hans-Jörg Steichele e Otto Wiegele – spiegano i loro obiettivi in quattro punti, allo scopo di «prendere una posizione chiara»
In primo luogo, «vogliamo esprimere la nostra solidarietà come sacerdoti e diaconi della nostra diocesi e della nostra Chiesa, nel suo complesso», uscendo dall’isolamento e dando voce al popolo di Dio, lavorando in rete con le altre iniziative simili in Germania e in Austria e Svizzera, ma anche con il resto del mondo; questa solidarietà critica deve essere rivolta anche all’esterno, tramite «il contatto con la stampa e la televisione, come espressione della nostra fiducia nel potere del discorso pubblico». Il gruppo reclama la necessità di un dialogo tra la base della Chiesa e la gerarchia («un dialogo che sia degno di questo nome»), a fronte di una grave mancanza di comunicazione, che sia sinonimo di trasparenza e tolleranza, ma anche strutture decisionali sinodali che prevedano il diritto di voto per tutti i partecipanti con la maggioranza dei due terzi, come nel Concilio Vaticano II. «Non vogliamo soltanto reagire, ma anche agire come “soggetti” della Chiesa, in modo creativo e adulto», afferma il Münchner Kreis, che è appoggiato dalla Gemeinde Initiative, iniziativa di laici cattolici critici della diocesi che finora ha raccolto circa 400 adesioni. Ognuno porta con sé «i propri carismi e le proprie risorse». Questi obiettivi fondamentali, sottolineano, vanno concretizzati nello spirito del Vangelo di Gesù Cristo e nel senso di una “Chiesa samaritana”, come affermato da papa Francesco.
Di qui, i “sì”e i “no” che il gruppo esprime: un “sì” alla riforma della Chiesa, per la quale occorre pregare; alla comunione a tutti i credenti, compresi divorziati risposati e membri di altre Chiese cristiane; alla predicazione di laici competenti durante la messa, alla conduzione della parrocchia da parte di «un uomo o una donna, sposata o non sposata, a tempo pieno o part-time, a partire non dalla fusione di parrocchie, ma dalla creazione di una molteplicità di servizi o di figure». «Meglio una celebrazione della Parola preparata direttamente dalle comunità – spiega il documento – che celebrazioni eucaristiche con preti estranei che cambiano in continuazione e che devono essere chiamati per telefono». In questa prospettiva un sì deciso viene pronunciato anche a favore del diaconato e del sacerdozio femminile, nonché degli uomini sposati.
Il gruppo auspica anche una Chiesa impegnata al fianco dei poveri e degli oppressi: «Speriamo – si legge – che affrontando i propri problemi strutturali la Chiesa possa guardare anche a quelli molto più grandi del nostro mondo di oggi: la povertà e la fame, il dramma dei rifugiati e i problemi dei richiedenti asilo, la questione del rapporto con la sessualità e la violenza, con le famiglie allargate e le questioni di genere, la minaccia costituita dal riscaldamento climatico, la convivenza delle religioni, l’ecumenismo dei cristiani e soprattutto la questione fondamentale, come parlare oggi di e con Dio e Gesù Cristo in modo che le tradizioni antiche ritrovino forza e che “la brace sotto la cenere” si faccia sentire di nuovo».
Il gruppo passa quindi ai “no”: al superlavoro, all’assunzione dell’incarico di ulteriori parrocchie (poiché «ciò ci trasforma in celebranti e dispensatori di sacramenti continuamente in viaggio e ci impedisce una pastorale basata su una vicinanza umana») alla fusione e allo scioglimento delle parrocchie, a troppe eucaristie durante il fine settimana, ai privilegi del clero, al giudizio sui divorziati risposati, sulle coppie omosessuali, sui preti che vivono una relazione violando la legge del celibato e in generale su coloro che seguono la loro coscienza prima della legge della Chiesa. I preti contestano qui la politica ecclesiale promossa dall’arcivescovo di Monaco cardinal Reinhard Marx, che sta procedendo alla fusione delle parrocchie in unità pastorali più grandi, per ovviare alla carenza di personale ecclesiastico. Dal cardinale nessuna reazione ufficiale, solo un breve comunicato dell’arcidiocesi che afferma che il documento del Münchner Kreis sarà studiato con calma, in quanto importante contributo alle discussioni su emergenze pastorali.
Chi invece è intervenuto subito nella vicenda è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede monsignor Gerhard Ludwig Müller che, probabilmente, non si è lasciato sfuggire l’occasione di censurare le rivendicazioni della diocesi del suo antagonista cardinal Marx. Müller, infatti, in un’intervista al quotidiano Passauer Neue Presse di cui dà notizia l’agenzia germanofona kath.net, ha ribadito che «il credo religioso non deve essere confuso con un programma di partito, che può essere sviluppato e interpretato a seconda dei desideri dei membri o degli elettori di quella stessa formazione politica». «La responsabilità pastorale – ha aggiunto Müller – deve sempre fondarsi sulla sana dottrina». Qualche settimana fa, Marx aveva contestato la chiusura della discussione sui divorziati risposati da parte di Müller affermando che il dibattito non poteva essere arrestato. D’accordo con Müller è il prefetto della Segnatura apostolica, cardinal Raymond Burke: «Müller non ha espresso la sua opinione personale, ma ha ricordato l’insegnamento della Chiesa, che non può essere modificato. Diffondere l’idea che ci sarà un drastico cambiamento e che la Chiesa non rispetterà più l’indissolubilità del matrimonio, è sbagliato e dannoso». Di segno diverso, invece, le parole che il cardinal Walter Kasper ha pronunciato in un’intervista al settimanale die Zeit: «Ciò che è possibile a Dio, cioè il perdono, deve valere anche per la Chiesa».
(*) Pubblicato da ADISTA



il no del sindaco alle ‘casette in legno’ per i sinti

 

Tambellini blocca la riqualificazione del Campo nomadi

 

«Ritengo che sia il momento di sgombrare il campo da tutte le ipotesi più o meno fantasiose che ho letto sugli organi di stampa a proposito del campo di accoglienza, erroneamente definito ‘Campo nomadi’»

«Non ci sono le condizioni tecniche, urbanistiche e finanziarie per proseguire con questo progetto»

 

A parlare in una nota diffusa alla stampa è il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini. «L’ipotesi di intercettare un finanziamento regionale ad hoc per riqualificare l’area attualmente utilizzata come campo di transito e per dotarla di strutture destinate all’accoglienza provvisoria è stata attentamente vagliata dall’Amministrazione.

Dopo aver appreso tramite gli uffici comunali dell’esistenza di una linea di finanziamento regionale a ciò specificatamente destinata ho dato mandato agli uffici competenti, che ringrazio per l’ottimo lavoro fatto, di esplorare la fattibilità e gli eventuali costi dell’operazione. Questo perché ritengo che la decennale vergogna del grave livello di degrado raggiunto dalle aree sulle quali oggi insistono i campi nomadi del nostro territorio andasse risolta una volta per tutte in modo strutturale. Fino ad oggi, infatti, tutte le Amministrazioni che si sono succedute hanno accuratamente fatto finta di non vedere la situazione presente a due passi dalle mura urbane e nel bel mezzo del parco fluviale.

Per questo motivo, ho ritenuto fosse doveroso studiare la questione per valutare se l’opportunità del finanziamento potesse rappresentare l’occasione giusta per riqualificare l’area. Tuttavia, dalle analisi fatte è emerso che, allo stato, non ci sono le condizioni tecniche, urbanistiche e finanziarie per proseguire con questo progetto.

Ciò detto, non intendo nascondere che resta irrisolto un problema che, comunque non può più continuare ad essere ignorato. Purtroppo, spesso la discussione su questo tema trascende e compaiono toni forti e polemici che raggiungono talvolta il livello della discriminazione, facendo perdere di vista la vera criticità. Tutte le città che hanno affrontato scelte innovative su questi temi hanno impegnato energie e lunghi periodi di sperimentazione, ma è su questo che si qualificano le politiche di inclusione e coesione sociale. Manterremo quindi un confronto aperto su questi temi econclude il primo cittadino – invitiamo la città, in tutte le sue articolazioni, a passare ad un livello propositivo e a collaborare con l’amministrazione per risolvere quello che è un problema di tutti».

@loschermo

ma l’assessore cerca una soluzione

Il sindaco cancella il progetto casette, ma la Vietina convoca per oggi la maggioranza con un consulente esterno

Lucca, 30 dicembre 2013

RETROMARCIA innestata. Almeno per ora. Anche perché il rischio di trovarsi nell’ennesimo vicolo cieco politico era davvero alto. Il sindaco Tambellini, sulla contestatissima vicenda delle casette in legno per i nomadi di via delle Tagliate, stretto dalle polemiche di queste settimane, ha preferito dare l’alt, affermando che per il progetto non ci sono le condizioni tecniche, urbanistiche e finanziarie, per quanto la Regione si fosse dichiarata disponibile a stanziare circa 7-800mila euro. Segno che sarebbe costato molto di più.

E sarebbero stati soldi di palazzo Orsetti. In realtà su questa ipotesi si erano addensate anche le riserve di tanti esponenti della maggioranza, pronti a mettere in discussione la scelta nel Consiglio del 7 gennaio prossimo. Il sindaco ha però aggiunto che il problema resta irrisolto. Come a dire che la questione non finisce qui, lasciando spazio a nuove soluzioni.
«TUTTE le città – ha spiegato Tambellini – che hanno affrontato scelte innovative su questi temi hanno impegnato energie e lunghi periodi di sperimentazione, ma è su questo che si qualificano le politiche di inclusione e coesione sociale. Manterremo quindi un confronto aperto su questi temi e invitiamo la città, in tutte le sue articolazioni, a passare ad un livello propositivo e a collaborare con l’amministrazione per risolvere quello che è un problema di tutti».
PER ORA è sicuramente un problema della sua maggioranza, che sul tema appare molto divisa. Nonostante il vice sindaco Ilaria Vietina si sia spesa e si stia spendendo in prima persona. Vietina, però, non si dà per vinta. Per oggi pomeriggio ha infatti convocato in tutta fretta un tavolo aperto a tutti i consiglieri comunali di maggioranza e agli assessori.

Non nasconde che le posizioni sul tema sono molto differenziate, arrivando a parlare di «orizzonti culturali» molto diversi nella stessa maggioranza che sostiene il sindaco. Ecco allora un incontro di approfondimento per creare un gruppo di lavoro in grado di arrivare a una nuova proposta sul tema. E per farlo l’assessore chiama un esperto sulla tematica nomadi. Sergio Bontempelli, ex Democrazia Proletaria, poi in Rifondazione Comunista e Collettivo Studentesco, ora impegnato sui temi dell’immigrazione e particolare attenzione per Rom e Sinti.

A Pisa, Bontempelli si è impegnato in alcune vertenze proprio per il diritto alla casa per i Rom. Vietina, dunque, prova a rilanciare, dopo aver ottenuto una sorta di via libera da Tambellini a ripartire da zero su un tema che ha scatenato una raffica di posizioni contrarie in città.  

Fabrizio Vincenti

l’assessore Vietina ormai l’ha presa di petto, meglio a cuore, e va avanti costi quello che costi, anche la contrapposizione al Sindaco, realizzando immediatamente una riunione di tutti i consiglieri comunali della maggioranza e degli assessori competenti, anche se la fretta nel convocarla durante queste feste ha permesso la presenza di pochissimi all’incontro col Bontempelli:

Nomadi, l’assessore Vietina va avanti. Martinelli attacca: «Aiutate i lucchesi»

Pochi alla riunione per studiare soluzioni alle Tagliate




funerale di transessuale

 

Transessuale picchiata e uccisa a Termini

funerali al femminile nella Chiesa del Gesù

Transessuale picchiata e uccisa a Termini funerali al femminile nella Chiesa del Gesù                            

Oggi l’ultimo saluto ad Andrea, la trans colombiana trovata morta la notte tra il 28 e il 29 luglio sul binario 10 della stazione. Nessuno aveva richiesto la salma. Oltre 100 i presenti tra cui il ministro Kyenge e il sindaco Marino e Vladimir Luxuria. Durante l’omelia il nome della vittima declinato con il “lei”

Un rito funebre tra rose bianche e centinaia di persone. Così, si sono svolti questo pomeriggio nella Chiesa del Gesù, i funerali di Andrea Quintero, la transessuale uccisa nella  notte fra il 28 e il 29 luglio scorso alla stazione Termini. Tra i presenti alla cerimonia il ministro dell’Integrazione Cecile  Kyenge, il sindaco Ignazio Marino, i rappresentanti del Consolato della  Colombia, Vladimir Luxuria, i volontari della Caritas, della Croce Rossa e del Cesv e  tanti compagni di strada. E in chiesa gli officianti le hanno dato del “lei”.

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 Oggi pomeriggio nella Chiesa del Gesù, l’ultimo  saluto ad Andrea  Olivero, la transessuale colombiana senza fissa dimora,  il cui corpo  privo di vita fu ritrovato con ecchimosi la mattina del 29  luglio  scorso al binario 10 della stazione Termini. Durante i funerali,  organizzati  dal Centro servizi volontariato del Lazio e dalla Caritas di  Roma, gli  officianti hanno ricordato Andrea declinando il suo nome al femminile

       

Andrea, transessuale colombiana di 31 anni, con problemi di tossicodipendenza e senza fissa dimora, è stata uccisa all’interno della stazione, dove qualcuno l’ha picchiata, con bastone e forse coltelli, fino ad ucciderla. Il suo cadavere fu ritrovato con ecchimosi la mattina del 29 luglio, accanto al binario 10. Per cinque mesi nessuno ha reclamato la sua salma.
“Sono sicuro che Dio dirà ‘tu sei figlia mia perché tutti siamo figli di Dio’. Stiamo qui per testimoniare l’affetto, anche per gli ultimi di questa città – ha detto nell’omelia monsignor Feroci – perché sono nostri fratelli e non possiamo trattarli in questo modo, come le settemila persone che a Roma dormono all’aperto. Domandiamo al signore che questa città diventi sempre più una città accogliente verso coloro che sono in difficoltà”.
“E’ molto importante – ha detto il sindaco Ignazio Marino – che la Chiesa, attraverso la voce di monsignor Feroci e padre La Manna, abbia declinato durante l’omelia il nome di Andrea utilizzando il lei. E’ un gesto forte, un gesto di una Chiesa che si rinnova sotto la guida di Papa Francesco”. E ancora: “In questa chiesa solo pochi mesi fa il Papa ha voluto incontrare i poveri, i rifugiati e i più deboli”. “E’ stato un crimine d’odio accecante –  ha sottolineato Vladimir Luxuria, l’ex parlamentare di Rifondazione comunista – colgo però almeno una luce di speranza per questi funerali celebrati in un’importante chiesa”. A mia memoria – ha concluso – è la prima volta che a Roma per un trans ucciso vengono celebrati questo tipo di funerali”.