accanimento contro i crocifissi a Prato

 

 

 

Folle si accanisce sui crocifissi, la Diocesi chiude tutte le chiese

 

Le forze dell’ordine si sono messe alla ricerca dell’autore dei gravissimi atti di vandalismo in due chiese di Prato. È fuggito con la testa di un Cristo

                                                     di Paolo Nencioni e Danilo Fastelli                                                                                  

Il sacrestano Paolo Calamai davanti al crocifisso danneggiato in San Bartolomeo

 Choc a Prato per due preziosi crocifissi distrutti da uno sconosciuto. Il vandalo si è accanito dapprima su un crocifisso della chiesa di San Pier Forelli, in via del Pellegrino. Si tratta di un crocifisso storico e venerato, perché usato da San Leonardo da Porto Maurizio agli inizi del ‘700 per le sue prediche. Lo stesso vandalo si è poi recato nella chiesa di San Bartolomeo, in piazza Mercatale, danneggiando un crocifisso di legno risalente al 1200. Sembra che nessuno abbia visto il vandalo in azione. La diocesi ha disposto la chiusura di tutte le chiese del centro storico.

LE IMMAGINI DEI CROCIFISSI DISTRUTTI

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(Foto Batavia: il Cristo “amputato” in San Bartolomeo)

Il danneggiamento del crocifisso di San Bartolomeo è stato scoperto intorno alle 12 dal sacrestano, Paolo Calamai, che pochi minuti prima della scoperta era passato tra le navate senza notare niente di strano. L’anonimo vandalo è salito su una struttura di legno davanti al crocifisso e di lì probabilmente lo ha scosso fino a far staccare entrambe le braccia, che sono rimaste attaccate ai supporti.

Il crocifisso nella chiesa di San Bartolomeo si trova in piazza Mercatale dal 7 settembre del 1399, quando fu portato a Prato dai lucchesi. Era sopravvissuto anche ai bombardamenti del 1944, ma non al vandalo che ora è ricercato in tutta la città.

STRANE COINCIDENZE. La stessa Diocesi fa notare alcune singolari coincidenze. Domenica 24 novembre si è chiuso in Duomo l’Anno della fede e oggi, lunedì 25, ricorre il primo anniversario dell’insediamento del vescovo Franco Agostinelli nella Diocesi pratese. Domani, martedì 26, ricorre invece la festa liturgica di San Leonardo da Porto Maurizio, il grande francescano che usò per le sue predicazioni una delle due statue danneggiate dal vandalo.

La Diocesi ha chiamato tutti i sacerdoti delle chiese del centro storico raccomandando di chiuderle al pubblico o di tenerle sotto stretta sorveglianza. Il Duomo è aperto, ma ci sono alcuni collaboratori della Curia che lo sorvegliano a vista. Al crocifisso della chiesa di San Pier Forelli manca la testa del Cristo, che è stata portata via dal vandalo e ancora non è stata ritrovata.

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(Foto: lo storico crocifisso distrutto nella chiesa di San Pier Forelli)

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25 novembre: violenza rosa a Lucca

Violenza sulle donne: a Lucca denunce in aumento. Manca una casa rifugio per le emergenze: i medici costretti a ricoverare le vittime per non rimandarle a casa

 

 

Brunella Menchini su ‘lo Schermo’ fa un apprezzabile punto della situazione a Lucca dove si registrano denunce in aumento e difficoltà di dare un efficace aiuto nel sottrarre le vittime alla violenza il più delle volte intrafamiliare

 

lacrima

 

 “Le donne maltrattate a Lucca vengono ricoverate. Per una notte, o anche di più. Se ci sono figli ricoveriamo il bambino in pediatria così la madre può rimanere ad assisterlo ed evitiamo che torni a casa”. A parlare è Piera Banti, dottoressa referente per il codice rosa di Lucca la quale, durante un convegno che si è tenuto giovedì scorso all’Associazione Industriali, ha lanciato un allarme serio e concreto: “Servono case per la prima emergenza. Posti letto in cui collocare le donne dopo che sono state medicate in attesa che si attivino i servizi sociali”.

La vittima è italiana, ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, spesso è diplomata. In 141 casi la violenza è psicologica mentre per 104 donne si è trattato di violenza fisica o addirittura sessuale (7 casi denunciati nel 2013). Autore della violenza è il coniuge (66 casi su 189) o il convivente (29 casi), ma non mancano gli ex mariti, che sono 14 o i compagni non conviventi (16 casi). Spesso i figli assistono a questi episodi (93 casi su 180) e per lo più sono minorenni (121 su 168). Questi sono i numeri in provincia di Lucca che conta in tutto 335 casi accertati.

violenza

 Il 25 novembre è giornata internazionale dedicata alla violenza contro le donne: sulla stampa locale e non, si sono rincorsi negli ultimi giorni articoli che hanno snocciolato numeri in sensibile crescita, dati e medie nazionali. Ogni Ente ha organizzato incontri e tavole rotonde.

Ma i numeri restano numeri se non facciamo lo sforzo di guardare oltre. Non siamo di fronte a un aumento di violenza ma a un aumento di denunce. Il fenomeno comincia a poco a poco a venire a galla perché le donne hanno iniziato a parlare. Il tam tam mediatico resiste, il confronto continuo fra medici, operatori sociali e forze dell’ordine funziona: il codice rosa attivo nella nostra provincia ormai da quasi due anni ne è un esempio concreto. Nel 2011 furono 11 i casi rubricati come violenza domestica, 250 nel 2012, primo anno della sua entrata in vigore, mentre ad oggi solo nel 2013 sono 291. Lucca ha la fortuna rara di avere due codici rosa attivi, uno per la piana e l’altro per la Versilia, con due magistrati dedicati e un team di professionisti che operano 24 ore su 24 in caso di emergenza.

La rete c’è. Mancano le strutture.                             

“Sono donne che arrivano anche in piena notte – spiega la dottoressa Banti – spesso senza niente, solo con quello che hanno indosso. Succede che arrivino con i figli in braccio: bambini che hanno assistito alla violenza. A Lucca esistono alcune case ad indirizzo segreto ma i posti letto sono davvero pochi e poi non possiamo mischiare chi ha già intrapreso un percorso con chi è appena agli inizi”.

Donne che scappano da casa e trovano riparo tra le mura di un ospedale, spesso l’unico posto disponibile dove trascorrere l’anestesia delle botte. Sentirsi sicure con i bambini nel letto vicino senza dover respirare in punta di piedi. Domani è un altro giorno, domani arrivano i servizi sociali. La verità è che spesso domani si torna a casa perchè il baratro di incertezze che si para davanti smorza ogni decisione. E via da capo. Come un incubo da cui non si riesce ad uscire. Fino al prossimo ingresso in ospedale, ogni volta peggiore della prima.

Già nei mesi scorsi Giovanna Cagliostro, prefetto di Lucca, aveva lanciato la richiesta accorata della costruzione di una casa rifugio. Ma ancora nessuno sembra aver accolto il suo suggerimento.

“Dicono che mancano soldi – spiega la dottoressa Banti -. Ma è vitale investire in questo settore. Servono persone non improvvisate, medici, psicologi, gente che con la competenza e la professionalità si guadagna il rispetto e la fiducia di queste donne. Perché alla minima mossa sbagliata, si chiudono in se stesse e allora non possiamo più fare niente”.

Vite compromesse. Vite segnate dalla vergogna proprio perché non sbandate ma inserite in un contesto sociale che le vede attive. Perché gli uomini che usano violenza sono ‘uomini normali’ e spesso all’esterno sono affidabili e pronti allo scherzo.

Proprio per loro, per gli uomini che maltrattano, sarà attivato a breve, anche grazie ai fondi del Rotary, uno sportello dedicato. L’esperimento è in corso a Firenze ormai da quattro anni e sembra che funzioni. Di primo acchito la sensazione è che si guardi ai carnefici invece che alle vittime: “Gettateli in galera e buttate via la chiave” viene da dire. Ma non è così che funziona.

Perché è importante un centro di ascolto di questo tipo? “Perché un marito violento è spesso anche un padre e con i figli dovrà rapportarsi in qualche modo – conclude la Banti -. La violenza poi molte volte è intergenerazionale oltre che seriale. Un uomo maltrattante ha spesso subito a sua volta violenza. E’ poi assai probabile che il suo atteggiamento non si fermi a una sola vittima ma una volta che questa se n’è andata, si manifesti anche nei confronti di altre donne. In ultimo poi, molte donne non vogliono lasciare il compagno di una vita. Vogliono solo che smetta di essere violento. E rivolgersi a uno di questi centri può essere un inizio”.

 Brunella Menchini

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25 novembre: contro ogni violenza colorata di rosa

 

lacrima

 

25 novembre: giornata mondiale dedicata alla riflessione sulla violenza operata sulle donne

riporto qui sotto la ‘lettera’ che Cristina Comencini scrive ‘agli uomini che odiano le donne’:

 

Lettera agli uomini che odiano le donne

 

Noi donne occidentali siamo le prime madri libere dal destino della maternità: possiamo scegliere di essere donne senza figli. Nella madre antica, il primo anno di vita e quelli seguenti creavano nel bambino un’idea di donna che si prolungava nell’età adulta, in cui il destino della ragazza era quello di sposa e madre e quello dell’uomo di trovare la donna madre dei suoi figli.

Non c’era rottura, contraddizione, tranne quella che derivava dall’infelicità e dal sacrificio insiti nel destino femminile. A noi, madri nuove, viene richiesto un doppio salto mortale: dobbiamo essere pronte allo stato fisico e mentale che permette lo sviluppo del bambino, ma restiamo donne libere, ambivalenti nel desiderio di vivere pienamente il rapporto esclusivo a due col bambino ma di non esiliarci dal lavoro lasciato. Nel passaggio di testimone dalla nuova madre alla nuova figlia, la bambina ne osserva la vita: la libertà, il lavoro, la parità e comincia a cercare, a costruire la sua identità sulla nuova identità della madre. Il figlio maschio di questa nuova madre e la madre nuova di questo figlio affronteranno invece una relazione molto complessa: la sessualità, l’immaginazione, il desiderio, la sicurezza iniziano a formarsi in lui con la madre dedita dei primi mesi e dei primi anni, che si trasformerà poi davanti agli occhi intimiditi del ragazzino, in una donna forte, sicura di sé, piena di autorità, che va fuori nel mondo senza paura, concorre col padre, tiene testa agli uomini. Questo figlio cresce con l’idea che l’uomo non è sempre simbolo di forza, che il padre non ha l’esclusività del ponte col mondo, che non può riferirsi a lui per ogni aspetto della sua virilità nascente. Il padre gli sembra a tratti impaurito e lui tenderà a difenderlo contro la madre, prendendo così le parti di se stesso, messe a dura prova dalla sicurezza materna. Il ragazzo vede fuori casa molte ragazze che somigliano alla madre nuova che ha scoperto crescendo e non sa assolutamente come dovrà affrontarle, amarle, farci l’amore, pensa che potrebbe prendere la scorciatoia e incontrarne una più fragile o tradizionale, che si faccia guidare e proteggere da lui. E qualche volta la trova, ma non sa che anche nella più tradizionale delle donne il germe dell’autonomia conquistato dalle nuove madri è fiorito all’insaputa della ragazza. Capiterà che la ragazza si senta incerta come lui, che odi la madre nuova, con tutta la sua sicurezza vincente. E allora specularmente al ragazzo in cerca di un passato impossibile, si fingerà sottomessa, materna, unica. Una felicità fragile che si fonda su una frase fondamentale: noi non ci lasceremo mai. E poi un giorno, lei o lui dirà la frase proibita: ti lascio. Solo che se la pronuncerà lui, lei piangerà e scriverà sul diario e ne parlerà con le amiche come nell’Ottocento. Lui invece potrebbe pensare di ucciderla, come si uccideva in duello nell’Ottocento per una donna, o farlo come avrebbe voluto qualche volta sopprimere la madre che quest’epoca gli ha dato. La violenza sulle donne — si celebra oggi la giornata mondiale contro il femminicidio — è frutto di questo nuovo, non un retaggio dell’antico. Usa forme antiche ma è del tutto nuova e legata alla libertà delle donne, delle madri, alle loro contraddizioni, al mutamento troppo lento degli uomini, dei padri di fronte a questa nuova libertà. Eppure è negli uomini, nei padri, nella loro riflessione, nella ripresa del loro ruolo centrale accanto alle donne che siamo oggi, che io penso possa compiersi la rivoluzione che le donne hanno iniziato. Le nuove donne devono continuare a essere differenti dagli uomini e fare valere in tutti i campi la ricchezza della loro storia, della loro intelligenza, dei loro pensieri, ma devono anche cambiare nel profondo e lasciare agli uomini la loro parte di responsabilità nel nuovo mondo. I ruoli dell’uno e dell’altra, rimanendo differenti, possono sovrapporsi e prendere l’uno dall’altra. E la madre può cedere la sovranità assoluta per una libertà conquistata che apre le porte di un mondo vasto, ricco della presenza di Due diversi ma pari. E penso che il padre possa insegnare la sua nuova forza al figlio: un dominio sovrano che deve trasformarsi nell’accoglimento della differenza delle donne, della loro parità. Può insegnare al figlio a non averne paura, a parlarne, sottraendo così il dialogo sui sentimenti all’impero delle donne. Forse la nuova forza degli uomini è fatta anche del pianto di Ulisse — uomo per eccellenza — che nell’isola dei Feaci ascolta il racconto della guerra di Troia e piange, coprendosi il viso col mantello purpureo, «come donna piange lo sposo che cadde davanti alla città». Forse l’uomo può piangere ora come uomo, senza coprirsi il viso, anche davanti al figlio, e aprirsi nel racconto all’altro da sé. E le donne al contrario possono diventare più lievi, manifestare la loro imperfezione, dare ai figli la manifestazione vera di quello che sono e la possibilità di tenere testa senza violenza alle giovani donne libere che incontreranno nella loro vita adulta. Abbiamo la fortuna di vivere uno dei cambiamenti più importanti della storia, il mutamento profondo del rapporto tra i due generi, questo mutamento può cambiare il mondo e in questo nuovo mondo le donne e gli uomini possono amarsi e comprendersi molto più di prima.

Da La Repubblica del 25/11/2013.

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i primi novant’anni di mons. Bettazzi

 

 

Bettazzi

per i suoi novant’anni (molto ben portati, peraltro) il quotidiano ‘Avvenire’ gli dedica un’intervista nella quale ribadisce le sue aperture della chiesa allo spirito del concilio vaticano secondo cui egli, giovanissimo vescovo, ha preso parte:

Bettazzi: «Il Concilio, un già e non ancora»

Per i suoi primi novant’anni, che compie martedì prossimo, non ha previsto niente di particola­re. «La festa l’abbiamo fatta, per i cin­quant’anni di episcopato, lo scorso 4 ottobre a Bologna e il 6 ottobre ad I­vrea ». Monsignor Luigi Bettazzi, ve­scovo emerito di Ivrea, storico presi­dente di Pax Christi (il suo impegno di «costruttore di pace» è al centro del re­cente volume di Alberto Vitali, Luigi Bettazzi, Paoline, 158 pagine, 15 euro), ha una vitalità invidiabile. «Dal set­tembre 2012, ho già tenuto 189 confe­renze sul Concilio. La centonovante­sima prossimamente in Lombardia». Ha viaggiato in Italia, ma anche in Al­bania, Georgia, Germania e Tanzania. «Se mi chiamano – spiega – è per sen­tire una parola d’incoraggiamento al­l’accoglienza del Concilio».

 

Don Luigi, in famiglia eravate sette fratelli, cosa impensabile oggi. Quan­to ha inciso in lei il fatto di vivere in una famiglia numerosa?

«Eravamo in tanti, ma quella di avere tanti figli fu una delle grazie che mia madre chiese prima di sposarsi. Io? Forse ho imparato a essere sottomes­so ». Sottomesso lei? Sta scherzando… «No, ho sempre chiesto il permesso prima di fare qualche cosa. Anche per la famosa assemblea sul Vietnam, nel 1973. E quando con altri volevamo proporci come ostaggi alla Br in cam­bio di Aldo Moro, ci fu proibito, e non facemmo nulla».

 

Intanto a 40 anni era già vescovo. Dif­ficile che accada oggi, quando un qua­rantenne viene guardato come fosse ancora un “bambino”.

«Vescovo ausiliare a Bologna. Sotto­messo, sia pure con un uomo mite e timido come il cardinale Lercaro…».

 

E giovanissimo partecipò al Concilio.

Siamo rimasti in molti pochi in Italia (gli altri sono i cardinali Angelini e Ca­nestri, i vescovi Leonardo e Nicolosi più l’allora abate di San Paolo Fuori le Mura, Franzoni) e 32 in tutto il mon­do, i dati sono aggiornati a fine mar­zo. Ne muoiono una ventina all’anno, di “reduci”…».

 

Che cosa è stato sicuramente realiz­zato, del Concilio, e che cosa invece resta da fare?

«Il Concilio è un “già e non ancora”. Ad esempio, la Parola di Dio si legge di più, ma non è ancora fondamentale nella vita di tanti cristiani. La liturgia è più partecipata ma tutt’altro che compiuta. La collegialità è cresciuta ma non abbastanza, e i fedeli laici con­tano ancora pochissimo. Certo, è un segnale positivo il gruppo di otto car­dinali che papa Francesco ha voluto accanto a sé».

 

Lei è uno dei tanti mancini costretto a scrivere e a stare a tavola usando la destra. C’è qualcos’altro che fu “co­stretto” a fare di malavoglia?

«Il vescovo! Quando Lercaro me lo chiese, obiettai che avevo scarsa e­sperienza pastorale, ero un insegnan­te, solo per poco tempo parroco. “Pos­so rifiutare?”, domandai. “Solo in due casi potresti – replicò Lercaro – se hai ammazzato qualcuno o hai dei figli”. E io: “Quanto tempo mi dà?”. Finii con l’accettare».

 

Nella Chiesa lei è stato protagonista di confronti molto franchi, a volte per­fino aspri. Ne ricorda uno tutto som­mato finito bene, tra fratelli, di idee diverse ma che si stimano?

«Da presidente di Pax Christi assume­vo posizioni “insolite”. Sul Vietnam. O sull’obiezione di coscienza: era il 1971 e mi guardavano come un marziano. Adesso è data per scontata. Sulla Let­tera a Berlinguer , il patriarca Luciani scrisse cose severe. Ci “chiarimmo” quasi casualmente, incrociandoci al­la stazione di Terontola alla volta di As­sisi. Accettò di fare il viaggio con me in seconda classe, e mi chiese di “non tur­bare la fede della gente”».

 

Lei è uno dei firmatari della “Lettera dei 500 padri”, pochi giorni prima del­la chiusura del Concilio, in cui assu­mevate impegni molto rigorosi, tutti nel segno della povertà. Papa France­sco sta facendo molte cose simili…

«Fa quello che faceva a Buenos Aires. Spero vivamente che il suo stile si diffonda. D’altronde l’ha detto: quel che deve fare lo farà in fretta, subito. E quando sentirà le forze venir meno, sono convinto che anche lui lascerà il posto a un altro».

 

Di che cosa la Chiesa cattolica do­vrebbe liberarsi?

«Dovrebbe modificare la sua struttu­ra, e mi sembra che proprio questo ab­bia chiesto Francesco. Ad esempio, se il presidente della Cei non è scelto dai vescovi ma dal Papa, è solo al Papa che dovrà rispondere, e a quel punto il dia­logo e il confronto potrebbero anche diventare difficili. Non è colpa di nes­suno, sia chiaro. È lo statuto da modi­ficare. Poi c’è ancora troppo clericali­smo. E se lo scrive perfino Sviderco­schi nel suo recente Il ritorno dei cle­rici… Infine i movimenti: molto effi­caci, dovrebbero insieme sforzarsi di aprirsi».

 

E dove la Chiesa dovrebbe indirizza­re innanzitutto le proprie energie?

«In questo momento, contro la corru­zione! Lo hanno ricordato anche il Pa­pa e Bagnasco. Peggio d’ogni peccato, essa rovina l’anima e il tessuto socia­le. Se non la estirpi, sarà impossibile costruire la solidarietà, che per me è il vero principio non negoziabile, sul quale si fondano la tutela della vita e la promozione della famiglia e del la­voro ».

 

Giochiamo con la fantasia. Quale pro­posta voterebbe con entusiasmo a un’assemblea della Cei?

«Qualsiasi proposta contribuisse a da­re più spazio e rilievo alla collabora­zione dei laici, a ogni livello, compre­si i giovani. Non basta dir loro che co­sa devono fare, occorre saper cogliere le spinte di rinnovamento che sorgo­no dal popolo di Dio. Noi pastori ab­biamo l’ultima parola; ma sarà l’ulti­ma se ce ne saranno state altre prima».

 

C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Ho sempre rimpianto di non essere partito missionario. E poi avrei voluto potermi impegnare di più in parroc­chia ».

 

E qualcosa di cui invece va partico­larmente orgoglioso?

«Fui così ingenuo da accettare la no­mina a presidente di Pax Christi. Pri­ma di me avevano rifiutato in cinque. Ma ciò che più mi ha riempito il cuo­re sono le parole degli alcuni che mi hanno detto: “La ringrazio perché se sono ancora nella Chiesa è per lei”».

 

Per che cosa le piacerebbe essere ri­cordato?

«Per la fede nel Signore, l’amore alla Chiesa e la fiducia negli uomini di buo­na volontà».

“Avvenire” 23.11.2013 Umberto Folena

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quanti pregiudizi si formano sulla base di niente!

 

«Hanno tentato di rapirmi la figlia»

Invece aveva solo perso il portafogli
«Hanno tentato di rapirmi la figlia»<br />
Invece aveva solo perso il portafogli

«Una nomade ha tentato di rapirmi la figlia che era seduta nel passeggino»

Le indagini dei carabinieri hanno però permesso di accertare che la donna si era inventata tutto per nascondere al convivente il fatto d’aver perso il portafogli.

Tutto è accaduto mercoledì pomeriggio a Capriate San Gervasio: protagonista una 28enne che si è presentata alla locale stazione dei carabinieri. Ai militari ha raccontato che nel corso della mattinata, mentre si trovava davanti bar Fuori Onda era stata avvicinata da sconosciuta che, approfittando di una sua distrazione, aveva tentato di afferrare la bimba di un anno che seduta nel passeggino.

Stando al racconto della donna, un sua immediata ed energica reazione aveva costretto la sconosciuta a desistere. La mancata rapitrice, sempre secondo il racconto, ne avrebbe però approfittato per strappare la borsetta contenente 250 euro, documenti ed effetti personali.

Nella denuncia la 28enne ha anche dichiarato che, durante una breve colluttazione, la sconosciuta l’aveva colpiva al volto con una gomitata, riuscendo poi a dileguarsi vie circostanti.

La donna, alla quale sono state mostrate alcune foto segnaletiche, avrebbe anche riconosciuto la donna che l’aveva aggredita: ha indicato il volto di una rumena di 33 anni.

Le indagini però hanno permesso ai carabinieri di accertare che tutto il racconto era falso, e che la nomade indicata dalla donna era completamente estranea ai fatti.

Messa alle strette la 28enne ha ammesso di essersi inventata tutto per giustificare con il proprio convivente la perdita del portafogli e dei soldi contenuti. E’ stata così deferita in stato di libertà per simulazione di reato, procurato allarme, e calunnia.

 

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pericolo razzismo

romni
dal sito facebook ‘segnaliamo il razzismo’ prendo questo post:
Una utente di Facebook, Giulia Carlini, si è presa la briga di fare un elenco di tutti gli articoli che poi si sono rivelati una bufala fatti girare negli ultimi tempi: Immigrati che mangiano cani a Lampedusa. Bufala. Immigrati che crocifiggono gatti. Bufala. Immigrati che fanno sesso con la statua della Madonna. Bufala. Immigrati che buttano via il cibo perché non gli piace. Bufala. Sussidi agli immigrati degni di uno stipendio da banchiere. Bufala. Bambina rapita dagli zingari in Grecia. Bufala. Bambina rapita dagli zingari in Irlanda. Bufala. Furti sotto i 200€ di valore non più reato per gli zingari. Bufala. Tutte bufale che vengono fatte circolare con regolarità e pervicacia. Come ogni bugia ripetuta all’infinito queste bufale diventano vere. Soprattutto perché seguono il sistema di moltiplicazione vitale dei link secondo le modalità social: nessuno verifica tutti condividono. Perché se gira una notizia inquietante non si resiste alla seduzi…one della condivisione. Le condivisioni dell’orrore sui social sono come piccole assoluzioni: io non sono come loro, io denuncio, io diffondo il vero per arginare il male.Il web forma anche l’opinione, rimbalza le ipotesi false, le fa diventare tesi condivise, fa proliferare i luoghi comuni e genera mostri anestetizzando la ragione. E incide nella realtà. Gli immigrati ed i rom sono il nemico pubblico numero uno. Due episodi accaduti a Napoli negli ultimi mesi denunciano come l’odio razziale sia virale come nel web: il bambino rom sfigurato con l’acido buttatogli addosso da un balcone ad opera di una donna e un bambino picchiato da coetanei in via Carlo Poerio al grido di «zingaro di merda». Sono solo la rappresentazione plastica dell’impianto di pregiudizi costruito per alimentare il razzismo. Quei ragazzini non sanno perché hanno picchiato, ma tutti noi abbiamo mosso i loro pugni.
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giornata mondiale della violenza contro le donne

 

Scarpette rosse

prendo dal sito di ‘patriziaportoghese.com’ questa foto per  Quantcastun piccolo pensiero per la giornata del 25 novembre , giornata mondiale dedicata alla violenza contro le donne

Rosse come le gocce di sangue

rosse come le lacrime cessate

rosse come le guance offese

rosse come le ciocche spezzate

rosse come le fiamme accese

rosse… rosse… rosse… rosse

Scarpette rosse simbolo delle donne violentate, umiliate, uccise.

(Pattyrose)

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una tirata d’orecchi a mons. Fisichella

fiorito

 

Fisichella, invece di “evangelizzare”, come gli aveva detto di fare papa Ratzinger intriga per un nuovo partito dei cattolici (di destra)

il caporedattore della sezione politica de ‘la Repubblica’, Claudio Tito, ricostruisce i retroscena della separazione della parte cattolico-moderata (i ‘lealist’ al governo) dal resto di Forza Italia e vede dietro ai motivi di tensione legati alle condanne di Berlusconi qualcuno che trama e intriga per un nuovo partito dei cattolici:

Quei vertici in Vaticano con i ministri alfaniani per preparare la scissione

di Claudio Tito

La Repubblica 18 novembre 2013

 

Monsignor Fisichella e la regia di Ruini. NESSUNO del Pd. Ed è proprio lì che è maturata la scelta di arrivare alla frattura dentro il Pdl: gli alfaniani da una parte e i berlusconiani dall’altra. «I cattolici da una parte, i laici dall’altra», ripetevano. A organizzare le riunioni era Monsignor Fisichella, ex cappellano di Montecitorio ed ora titolare del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Gli ospiti erano stabilmente tre membri del governo Letta: i due pidiellini Angelino Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello; e l’ex montiano Mario Mauro. In almeno una occasione si è unito anche il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano. L’obiettivo: provare a ricostruire l’unità politica dei cattolici. O meglio, era lo slogan utilizzato, «restituire una nuova unità politica dei credenti». Porre fine insomma alla fase degli ultimi venti anni in cui i cattolici impegnati nelle istituzioni potessero essere disseminati nei vari partiti — dalla sinistra alla destra — per unirsi sui singoli temi. Riunire quindi gli esponenti “credenti” del centrodestra deberlusconizzato e il gruppo “centrista” di Scelta civica, quello che fa riferimento a Mauro, appunto, e anche all’Udc di Casini. E magari attrarre i cristiani che si trovano in questa fase anche nel Partito Democratico e che non gradiscono l’ascesa di Matteo Renzi e l’iscrizione al Pse. Insomma il sogno spesso invocato di una rinascita in piccolo — e ancora embrionale — di quella che fu la Democrazia Cristiana. Dietro gli incontri a Piazza Pio XII, però, non c’era solo Monsignor Fisichella. Come spesso è accaduto in questi anni, un ruolo determinante l’ha avuto Camillo Ruini. L’ex presidente della Cei ha da tempo preso atto della fine politica di Silvio Berlusconi ed è convinto che si possa costruire un nuovo soggetto politico che interpreti in forme nuove il cattolicesimo in politica. Il messaggio lanciato ai quattro ministri era infatti sempre il medesimo: «Dare vita ad un contenitore svincolato dai due poli principali, e sicuramente non alleato con il centrosinistra». In attesa che l’eredità elettorale del Cavaliere, quel blocco sociale e di voti custodito a Palazzo Grazioli, cada come un frutto maturo all’interno del nuovo soggetto politico. «Perché ricordatevi che se anche il Cavaliere è finito — avvertiva l’ex Vicario di Roma e ora Presidente del comitato scientifico della Fondazione Joseph Ratzinger — i voti ce l’ha». Eppure con il ministro degli Interni ed ex delfino di Berlusconi e’ stato piu’ che incoraggiante. Attraverso Fisichella gli ha fatto pervenire un messaggio esplicito: «Le sue intenzioni sono positive, vada avanti». L’operazione guidata dunque da Ruini e dall’ex cappelano della Camera ha però provocato più di un dissidio all’interno delle sale ovattate di San Pietro. Soprattutto non ha ricevuto l’avallo della Segreteria di Stato. Anzi, molti sospettano che la Conferenza episcopale, guidata da un altro ruiniano come Bagnasco, si sia mossa approfittando dell’assenza del successore di Bertone al vertice della Curia. Pietro Parolin, infatti, sebbene nominato da tempo, si insedierà a Roma concretamente solo oggi. E pur stando a Padova non avrebbe gradito l’interferenza di una parte della Cei nei fatti della politica italiana. Anche perché Papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato, ha sempre spiegato di volersi attenere ad una linea di “non intervento” nelle questioni dei partiti lasciando spazio al protagonismo dei laici. Non è un caso che solo una parte dei vescovi italiani abbia assecondato i progetti “ruiniani”. Le più attive in questo senso sono state le diocesi del “Triangolo del nord”: Milano-Genova-Venezia. Tutte e tre guidate da esponenti vicini a Don Camillo: Bagnasco, appunto, a Genova, Scola a Milano e Moraglia a Venezia. E tra le associazioni cattoliche di base è stata soprattutto Comunione e Liberazione, di cui sono esponenti di spicco proprio i ministri Lupi e Mauro (e alcuni scissionisti come Formigoni), e Rinnovamento nello Spirito Santo a promuovere l’operazione a favore del Nuovo Centrodestra. Il resto della galassia cattolica è rimasta in attesa, forse anche consapevole che alcuni equilibri all’interno della Conferenza episcopale appaiono “congelati” ma non “confermati”. Basti pensare alla semplice “proroga” concessa a Monsignor Crociata, segretario generale della Cei. O anche all’arcivescovo di Firenze Betori che potrebbe essere presto trasferito e che non ha mai nascosto una certa avversione nei confronti del sindaco fiorentino, Matteo Renzi, cattolico ma probabile leader del centrosinistra. «E’ chiaro — spiegava qualche mese fa proprio il candidato alla segretaria del Pd — che non sto simpatico all’Arcivescovo». Ed è chiaro che il disegno ruiniano punta a strappare anche una parte consistente dei cattolici del Partito democratico, i suoi dirigenti e anche i suoi elettori, minando le basi originarie del progetto che ha unificato gli ex Ds e gli ex Ppi. Nella consapevolezza che in questa fase la tolda di comando del fronte progressista è proprio occupata da ex popolari come Letta e Renzi, non interessati ad un’operazione neocentrista, e quindi simbolicamente in grado di sgonfiare gli scenari a favore della Nuova unità dei cattolici. E del resto non è un caso che tra i pilastri della separazione da Berlusconi ci siano quegli esponenti del Pdl che nel 2009 si sono battuti in sintonia con le richieste del mondo ecclesiastico sul caso Englaro. Allora in prima fila spiccavano proprio uomini come Lupi, Quagliariello, Sacconi. Alcuni di loro cattolici dell’ultima ora che hanno abbracciato con vigore la ragioni della Chiesa. «In quei giorni — raccontava qualche mese fa Beppe Pisanu — Sacconi mi diceva “noi cattolici non possiamo cedere sul caso di questa ragazza”. E io gli rispondevo: voi ex socialisti atei in effetti sì che siete cattolici, mica un democristiano come me…».

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p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo della domenica

 

rosellina

 

domenica 24 novembre  2013  XXXIV TEMPO ORDINARIO 

propongo due riflessioni-commento del vangelo , la prima di p. Maggi e la seconda di p. Pagola:

Lc 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».                                             Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

SIGNORE RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi 

Non esistono situazioni impossibili, casi irrimediabili. Anche per quelle vicende umane che sembrano le più disperate c’è più che una speranza, c’è la certezza dell’amore di quel Dio che, come scrive Paolo nella lettera ai Romani, ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per essere misericordioso verso tutti.
Dal paradiso, secondo il Libro della Genesi, era stato cacciato via l’uomo peccatore, quindi l’immagine di un Dio che punisce, che castiga i peccatori. Ebbene nel vangelo di Luca la prima persona che entrerà in paradiso con Gesù sarà proprio un’anonima canaglia, un bandito, e, dal quel momento, le porte del paradiso, cioè della salvezza, resteranno aperte per tutti quelli che riconoscono Gesù come re, cioè come colui che si prende cura di loro, qualunque sia il loro passato, anche per quelli dell’ultimo minuto.
Perché? Gesù, come ha affermato lui stesso, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto. E questo l’evangelista Luca lo dimostra dall’inizio alla fine del suo vangelo. All’inizio, 1
quando i pastori che erano considerati peccatori, che temevano la punizione e il castigo di Dio, vengono circondati non dall’ira di Dio che li incenerisce, ma dalla gloria di Dio, dalla luce di Dio, e sentono il coro angelico annunziare: “Pace in terra agli uomini che egli ama”, l’amore di Dio è per tutta l’umanità. Fino alle ultime pagine del vangelo dove Gesù assicura a un bandito crocifisso con lui che sarebbe entrato in paradiso senza chiedergli di fare un minimo di penitenza, senza chiedere se era pentito, senza dirgli di soggiornare per un po’ in purgatorio, Gesù gli dice: “Oggi sarai con me in paradiso”.
La chiesa primitiva si trovò a disagio con questi episodi di questo amore incondizionato perché contrastava con il suo rigore. Allora si è provveduto in parte ad annacquarlo. Pertanto l’annunzio angelico ai pastori “Pace in terra agli uomini che egli ama”, quindi un amore incondizionato a tutti, venne trasformato. “E pace in terra agli uomini di buona volontà”. La categoria del dono espressa dall’evangelista era subito stata trasformata nella categoria del merito, quel merito che Gesù è venuto a eliminare.
La buona notizia è questa: Gesù presenta un Padre che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi, il cui amore si da non per i meriti degli uomini, ma per i loro bisogni, non per le loro virtù, ma per le loro necessità, ma questo era intollerabile per la chiesa primitiva, pertanto l’espressione “E pace in terra agli uomini che egli ama” venne trasformata in “pace in terra agli uomini di buona volontà”, quelli che lo meritano.
E anche l’episodio finale, cioè che Gesù abbia assicurato a questo delinquente un posto in paradiso, non andava giù. Allora si è cercato di annacquare un po’ questa immagine per cui venne creata la figura del buon ladrone, ma nulla in questo brano parla della bontà di questa canaglia. Venne inventato, creato un nome, Disma, creato santo, San Disma, e trovato perfino il giorno in cui celebrarlo, il 25 marzo, festa di San Disma, protettore dei ladri – almeno si spera pentiti – dei moribondi e dei becchini.
Ma vediamo questa pagina stupenda di Luca dove l’evangelista non descrive il fallimento di Gesù, quest’uomo inchiodato su una croce, ma il trionfo dell’amore. Gesù ha tutti contro. Ha contro il popolo, ha contro i capi, ha contro i soldati e ha contro anche uno dei malfattori crocifissi con lui. E quello che accomuna tutti questi personaggi è il rinnovo delle tentazioni del diavolo nel deserto.
Il diavolo nel deserto aveva detto a Gesù: “Se tu sei il Figlio di Dio, usa le tue capacità a tuo vantaggio”. Gesù aveva seccamente rifiutato, e il diavolo aveva detto che sarebbe ritornato al momento opportuno, al momento propizio. Eccolo. Gesù è debole, crocifisso, e ha tutti contro. Ha contro il popolo, ha contro i capi, che addirittura lo deridono, ha contro i soldati che lo disprezzano, ha contro anche uno dei malfattori e tutti quanti dicono: “Salva te stesso”.
Non hanno compreso che Gesù non è venuto a salvare se stesso, ma a salvare gli altri. In tutto questo la persona considerata la più lontana da Dio, un peccatore, un bandito, un delinquente, crocifisso con lui, si rivolge a Gesù– con una fede indubbiamente spudorata – “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
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Quindi la persona che è ritenuta la più lontana da Dio, esclusa da Dio, la persona che doveva essere punita, castigata da Dio, vede in Gesù una speranza anche per lui. Ma non osa più di tanto, chiede soltanto di essere ricordato. Ma Gesù va al di là delle aspettative, dei desideri e delle speranze degli uomini e concede molto di più. E Gesù gli risponde: “In verità io ti dico: ‘oggi con me sarai in paradiso’”
Gesù non ricorda questo delinquente quando sarà nel suo regno, ma gli garantisce che nello stesso giorno sarà con lui in paradiso. E’ l’unica volta che in bocca a Gesù si trova questo termine “paradiso”. Quando deve parlare della vita eterna usa altri termini; l’unica volta è per contrastare la teologia espressa nel Libro del Genesi dove Dio castiga l’uomo peccatore e lo caccia dal paradiso. Con Gesù avviene tutto il contrario: il peccatore proprio entra con lui in paradiso.
Perché? Perché la teologia di Luca, l’espressione della buona notizia di Gesù: Dio non guarda i meriti delle persone, ma guarda i loro bisogni, non le loro virtù, ma le loro necessità. Gesù è venuto a cercare e salvare chi era perduto. Pertanto non esistono casi impossibili, casi disperati, ma la salvezza è per tutti quelli che riconoscono Gesù come il loro liberatore e come il loro re.

margheritissime

 

 

RICORDATI DI ME

commento al vangelo di p. Pagola
Secondo il racconto di Luca, Gesù è agonizzante in mezzo agli scherzi e ai disprezzi di quelli che lo circondano. Nessuno sembra aver compreso la sua vita. Nessuno sembra aver captato il suo sacrificio e la sua sofferenza, né il suo perdono verso i colpevoli. Nessuno ha visto   nel suo volto lo sguardo compassionevole di Dio. Nessuno sembra ora intuire in quella morte alcun m…istero.   Le autorità religiose si prendono gioco di lui con gesti spregevoli: ha preteso di salvare gli altri; che salvi ora se stesso. Se è il Messia di Dio, il suo “Eletto”, verrà Dio in sua difesa.   Anche i soldati si aggiungono allo scherno. Essi non credono in nessun Inviato di Dio. Ridono dell’insegna che Pilato ha fatto collocare sulla croce: “Questo è il re degli ebrei”. È assurdo che qualcuno possa regnare senza potere. Che dimostri la sua forza salvando sé stesso.   Gesù rimane silenzioso, ma non scende dalla croce. Che cosa faremmo noi se l’Inviato di Dio cercasse la sua propria salvezza scappando da quella croce che lo unisce per sempre a tutti i crocifissi della storia? Come potremmo credere in un Dio che ci abbandona per sempre lasciandoci alla mercé della nostra fortuna?   All’improvviso, in mezzo a tanti scherzi e a tanti disprezzi, si sente una sorprendente invocazione: “Gesù, ricordati di me quando arriverai nel  tuo regno”. non è un discepolo né un seguace di Gesù. È uno dei due delinquenti crocifissi insieme a lui. Luca lo propone come un esempio ammirabile di fede nel Crocifisso. Quest’uomo, sul punto di morire giustiziato, sa che Gesù è un uomo innocente che ha fatto solamente del bene a tutti. Intuisce nella sua vita un mistero che gli è sfuggito, ma è convinto che Gesù non è sconfitto dalla morte. Dal suo cuore nasce una supplica. Solo chiede a Gesù che non lo dimentichi: ma il Messia qualcosa potrà fare per lui. Gesù gli risponde immediatamente: “Oggi sarai con me nel paradiso”. Ora i due sono uniti nell’angoscia e nell’impotenza, ma Gesù lo accoglie come compagno inseparabile. Morranno crocifissi, ma entreranno insieme nel mistero di Dio.   In mezzo alla società miscredente dei nostri giorni, non pochi vivono sconcertati. Non sanno se credono o non credono. Quasi senza saperlo, portano nel loro cuore una fede piccola e fragile. A volte, senza sapere perché né come, spossati per il peso della vita, invocano Gesù alla loro maniera. “Gesù, ricordati di me” e Gesù li ascolta: “Tu sarai sempre con me”. Dio ha le sue strade per ritrovarsi con ogni persona e queste strade non sempre passano per dove indicano i teologi. La cosa importante è   avere un cuore che ascolta la propria coscienza. “Gesù, ricordati di me”.
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povertà a LUCCA

 

La povertà è un’emergenza: 1.500 famiglie ai centri Caritas

Il rapporto annuale dell’organismo diocesano fotografa una situazione drammatica

Il vescovo Castellani

Il vescovo Castellani

Lucca, 22 novembre 2013 

Un dato su tutti: nell’ultimo anno ai Centri ascolto «Caritas» della Lucchesia hanno chiesto aiuto ben 1.500 persone, un terzo un più rispetto all’anno precedente. Ognuno portavoce delle istanze di una famiglia con almeno un figlio: lo specchio statistico riflette dunque un popolo di almeno 4.500 persone che nella nostra provincia sono in cerca di un sostegno e, nel 70 per cento dei casi, anche di un lavoro. L’emergenza non arretra di un passo, secondo quanto rivela l’ultimo report sulla povertà della Caritas, significativamente intitolato «Forti nella speranza». Ormai non si tratta solo più di immigrati in cerca di «primo approdo». Quasi un caso su due parla italiano, e tra gli italiani uno su quattro si trova in una situazione di frattura familiare, diviso dal coniuge.
Padri separati che si rifugiano in alloggi di fortuna e, dall’altra parte di un fossato che si divarica, madri che non ricevono l’assegno di mantenimento e non sanno come mettere in tavola la cena per sè e e per i figli. La crisi avanza e non ne fa mistero il vescovo Italo Castellani che ha dovuto ritagliare uno spazio apposito da dedicare all’ascolto nel centro Caritas.  «Fino a qualche tempo fa il venerdì la mia porta era sempre aperta per chi aveva dei problemi su cui confrontarsi — ha dichiarato monsignor Castellani —. Oggi, purtroppo, il fronte dell’emergenza si è notevolmente allargato e ogni 15 giorni ho creato uno spazio al centro Caritas dedicato a chi cerca risposte. E’ in atto una forte crisi non solo dal punto di vista economico, ma anche dei valori, morali, spirituali e culturali. E c’è un altro campanello d’allarme che suona fortissimo: l’aumento della rassegnazione e, di conseguenza, del numero degli inoccupati, coloro che hanno rinunciato a trovare un lavoro». La classe media è nel vortice di una crisi che non molla, e i bisogni che rappresenta sono quelli essenziali: il cibo e l’abitare.
«La povertà ha un nuovo identikit — ha spiegato Donatella Turri, direttrice della Caritas Lucca —. Attraversa tutta la società, bussa a casa di chi fino all’altro giorno ha avuto un buon tenore di vita e di colpo dalla vita ha ricevuto un fendente violento e improvviso che l’ha gettato nel baratro. E i parenti aiutano, ma le risorse non sono infinite». La povertà colpisce soprattutto sotto i 34 anni, e il dato rivela tutta la difficoltà di entrare nel mondo del lavoro, anche da laureati. In seconda battuta chi ha sotto i 44 anni, mentre è leggermente più clemente nella fascia intermedia, per poi tornare a colpire duro nella zona degli ultra 65enni. Gli stranieri in cerca di aiuto sono soprattutto marocchini, poi romeni, originari dello Sri Lanka, albanesi, ucraini e, in ultimo, tunisini.
«Di solito — afferma la dottoressa Elisa Matutini che ha collaborato alla stesura del resoconto — la richiesta va nella direzione di una ricerca di autonomia. Prima ancora che sussidi economici e viveri, cercano un lavoro full time. E, purtroppo, una volta che si sono affacciati ai nostri centri di ascolto, in un caso su due ritornano perché il problema negli anni non si è risolto». I numeri lo confermano. I 20 centri di ascolto della Caritas nel 2000 accoglievano 109 persone; nel 2005 sono saliti 827, nel 2012 quasi il doppio, 1.500. La fame di lavoro non trova appagamento: in provincia oggi sono quasi 20mila le persone in cerca di occupazione di cui 3.400 stranieri. E poi l’emergenza sfratti: nel 2012 sono stati ben 377 nella nostra provincia, più di uno al giorno. Peggio del 2011 (358), molto peggio dell’anno in cui è iniziata la crisi, il 2008 (218). Le famiglie non riescono a far fronte a bollette, affitti, spese vive necessarie. E i provvedimenti di sgombero coatto delle abitazioni si moltiplicano

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