accanimento contro i crocifissi a Prato

 

 

 

Folle si accanisce sui crocifissi, la Diocesi chiude tutte le chiese

 

Le forze dell’ordine si sono messe alla ricerca dell’autore dei gravissimi atti di vandalismo in due chiese di Prato. È fuggito con la testa di un Cristo

                                                     di Paolo Nencioni e Danilo Fastelli                                                                                  

Il sacrestano Paolo Calamai davanti al crocifisso danneggiato in San Bartolomeo

 Choc a Prato per due preziosi crocifissi distrutti da uno sconosciuto. Il vandalo si è accanito dapprima su un crocifisso della chiesa di San Pier Forelli, in via del Pellegrino. Si tratta di un crocifisso storico e venerato, perché usato da San Leonardo da Porto Maurizio agli inizi del ‘700 per le sue prediche. Lo stesso vandalo si è poi recato nella chiesa di San Bartolomeo, in piazza Mercatale, danneggiando un crocifisso di legno risalente al 1200. Sembra che nessuno abbia visto il vandalo in azione. La diocesi ha disposto la chiusura di tutte le chiese del centro storico.

LE IMMAGINI DEI CROCIFISSI DISTRUTTI

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(Foto Batavia: il Cristo “amputato” in San Bartolomeo)

Il danneggiamento del crocifisso di San Bartolomeo è stato scoperto intorno alle 12 dal sacrestano, Paolo Calamai, che pochi minuti prima della scoperta era passato tra le navate senza notare niente di strano. L’anonimo vandalo è salito su una struttura di legno davanti al crocifisso e di lì probabilmente lo ha scosso fino a far staccare entrambe le braccia, che sono rimaste attaccate ai supporti.

Il crocifisso nella chiesa di San Bartolomeo si trova in piazza Mercatale dal 7 settembre del 1399, quando fu portato a Prato dai lucchesi. Era sopravvissuto anche ai bombardamenti del 1944, ma non al vandalo che ora è ricercato in tutta la città.

STRANE COINCIDENZE. La stessa Diocesi fa notare alcune singolari coincidenze. Domenica 24 novembre si è chiuso in Duomo l’Anno della fede e oggi, lunedì 25, ricorre il primo anniversario dell’insediamento del vescovo Franco Agostinelli nella Diocesi pratese. Domani, martedì 26, ricorre invece la festa liturgica di San Leonardo da Porto Maurizio, il grande francescano che usò per le sue predicazioni una delle due statue danneggiate dal vandalo.

La Diocesi ha chiamato tutti i sacerdoti delle chiese del centro storico raccomandando di chiuderle al pubblico o di tenerle sotto stretta sorveglianza. Il Duomo è aperto, ma ci sono alcuni collaboratori della Curia che lo sorvegliano a vista. Al crocifisso della chiesa di San Pier Forelli manca la testa del Cristo, che è stata portata via dal vandalo e ancora non è stata ritrovata.

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(Foto: lo storico crocifisso distrutto nella chiesa di San Pier Forelli)




25 novembre: violenza rosa a Lucca

Violenza sulle donne: a Lucca denunce in aumento. Manca una casa rifugio per le emergenze: i medici costretti a ricoverare le vittime per non rimandarle a casa

 

 

Brunella Menchini su ‘lo Schermo’ fa un apprezzabile punto della situazione a Lucca dove si registrano denunce in aumento e difficoltà di dare un efficace aiuto nel sottrarre le vittime alla violenza il più delle volte intrafamiliare

 

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 “Le donne maltrattate a Lucca vengono ricoverate. Per una notte, o anche di più. Se ci sono figli ricoveriamo il bambino in pediatria così la madre può rimanere ad assisterlo ed evitiamo che torni a casa”. A parlare è Piera Banti, dottoressa referente per il codice rosa di Lucca la quale, durante un convegno che si è tenuto giovedì scorso all’Associazione Industriali, ha lanciato un allarme serio e concreto: “Servono case per la prima emergenza. Posti letto in cui collocare le donne dopo che sono state medicate in attesa che si attivino i servizi sociali”.

La vittima è italiana, ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, spesso è diplomata. In 141 casi la violenza è psicologica mentre per 104 donne si è trattato di violenza fisica o addirittura sessuale (7 casi denunciati nel 2013). Autore della violenza è il coniuge (66 casi su 189) o il convivente (29 casi), ma non mancano gli ex mariti, che sono 14 o i compagni non conviventi (16 casi). Spesso i figli assistono a questi episodi (93 casi su 180) e per lo più sono minorenni (121 su 168). Questi sono i numeri in provincia di Lucca che conta in tutto 335 casi accertati.

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 Il 25 novembre è giornata internazionale dedicata alla violenza contro le donne: sulla stampa locale e non, si sono rincorsi negli ultimi giorni articoli che hanno snocciolato numeri in sensibile crescita, dati e medie nazionali. Ogni Ente ha organizzato incontri e tavole rotonde.

Ma i numeri restano numeri se non facciamo lo sforzo di guardare oltre. Non siamo di fronte a un aumento di violenza ma a un aumento di denunce. Il fenomeno comincia a poco a poco a venire a galla perché le donne hanno iniziato a parlare. Il tam tam mediatico resiste, il confronto continuo fra medici, operatori sociali e forze dell’ordine funziona: il codice rosa attivo nella nostra provincia ormai da quasi due anni ne è un esempio concreto. Nel 2011 furono 11 i casi rubricati come violenza domestica, 250 nel 2012, primo anno della sua entrata in vigore, mentre ad oggi solo nel 2013 sono 291. Lucca ha la fortuna rara di avere due codici rosa attivi, uno per la piana e l’altro per la Versilia, con due magistrati dedicati e un team di professionisti che operano 24 ore su 24 in caso di emergenza.

La rete c’è. Mancano le strutture.                             

“Sono donne che arrivano anche in piena notte – spiega la dottoressa Banti – spesso senza niente, solo con quello che hanno indosso. Succede che arrivino con i figli in braccio: bambini che hanno assistito alla violenza. A Lucca esistono alcune case ad indirizzo segreto ma i posti letto sono davvero pochi e poi non possiamo mischiare chi ha già intrapreso un percorso con chi è appena agli inizi”.

Donne che scappano da casa e trovano riparo tra le mura di un ospedale, spesso l’unico posto disponibile dove trascorrere l’anestesia delle botte. Sentirsi sicure con i bambini nel letto vicino senza dover respirare in punta di piedi. Domani è un altro giorno, domani arrivano i servizi sociali. La verità è che spesso domani si torna a casa perchè il baratro di incertezze che si para davanti smorza ogni decisione. E via da capo. Come un incubo da cui non si riesce ad uscire. Fino al prossimo ingresso in ospedale, ogni volta peggiore della prima.

Già nei mesi scorsi Giovanna Cagliostro, prefetto di Lucca, aveva lanciato la richiesta accorata della costruzione di una casa rifugio. Ma ancora nessuno sembra aver accolto il suo suggerimento.

“Dicono che mancano soldi – spiega la dottoressa Banti -. Ma è vitale investire in questo settore. Servono persone non improvvisate, medici, psicologi, gente che con la competenza e la professionalità si guadagna il rispetto e la fiducia di queste donne. Perché alla minima mossa sbagliata, si chiudono in se stesse e allora non possiamo più fare niente”.

Vite compromesse. Vite segnate dalla vergogna proprio perché non sbandate ma inserite in un contesto sociale che le vede attive. Perché gli uomini che usano violenza sono ‘uomini normali’ e spesso all’esterno sono affidabili e pronti allo scherzo.

Proprio per loro, per gli uomini che maltrattano, sarà attivato a breve, anche grazie ai fondi del Rotary, uno sportello dedicato. L’esperimento è in corso a Firenze ormai da quattro anni e sembra che funzioni. Di primo acchito la sensazione è che si guardi ai carnefici invece che alle vittime: “Gettateli in galera e buttate via la chiave” viene da dire. Ma non è così che funziona.

Perché è importante un centro di ascolto di questo tipo? “Perché un marito violento è spesso anche un padre e con i figli dovrà rapportarsi in qualche modo – conclude la Banti -. La violenza poi molte volte è intergenerazionale oltre che seriale. Un uomo maltrattante ha spesso subito a sua volta violenza. E’ poi assai probabile che il suo atteggiamento non si fermi a una sola vittima ma una volta che questa se n’è andata, si manifesti anche nei confronti di altre donne. In ultimo poi, molte donne non vogliono lasciare il compagno di una vita. Vogliono solo che smetta di essere violento. E rivolgersi a uno di questi centri può essere un inizio”.

 Brunella Menchini




25 novembre: contro ogni violenza colorata di rosa

 

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25 novembre: giornata mondiale dedicata alla riflessione sulla violenza operata sulle donne

riporto qui sotto la ‘lettera’ che Cristina Comencini scrive ‘agli uomini che odiano le donne’:

 

Lettera agli uomini che odiano le donne

 

Noi donne occidentali siamo le prime madri libere dal destino della maternità: possiamo scegliere di essere donne senza figli. Nella madre antica, il primo anno di vita e quelli seguenti creavano nel bambino un’idea di donna che si prolungava nell’età adulta, in cui il destino della ragazza era quello di sposa e madre e quello dell’uomo di trovare la donna madre dei suoi figli.

Non c’era rottura, contraddizione, tranne quella che derivava dall’infelicità e dal sacrificio insiti nel destino femminile. A noi, madri nuove, viene richiesto un doppio salto mortale: dobbiamo essere pronte allo stato fisico e mentale che permette lo sviluppo del bambino, ma restiamo donne libere, ambivalenti nel desiderio di vivere pienamente il rapporto esclusivo a due col bambino ma di non esiliarci dal lavoro lasciato. Nel passaggio di testimone dalla nuova madre alla nuova figlia, la bambina ne osserva la vita: la libertà, il lavoro, la parità e comincia a cercare, a costruire la sua identità sulla nuova identità della madre. Il figlio maschio di questa nuova madre e la madre nuova di questo figlio affronteranno invece una relazione molto complessa: la sessualità, l’immaginazione, il desiderio, la sicurezza iniziano a formarsi in lui con la madre dedita dei primi mesi e dei primi anni, che si trasformerà poi davanti agli occhi intimiditi del ragazzino, in una donna forte, sicura di sé, piena di autorità, che va fuori nel mondo senza paura, concorre col padre, tiene testa agli uomini. Questo figlio cresce con l’idea che l’uomo non è sempre simbolo di forza, che il padre non ha l’esclusività del ponte col mondo, che non può riferirsi a lui per ogni aspetto della sua virilità nascente. Il padre gli sembra a tratti impaurito e lui tenderà a difenderlo contro la madre, prendendo così le parti di se stesso, messe a dura prova dalla sicurezza materna. Il ragazzo vede fuori casa molte ragazze che somigliano alla madre nuova che ha scoperto crescendo e non sa assolutamente come dovrà affrontarle, amarle, farci l’amore, pensa che potrebbe prendere la scorciatoia e incontrarne una più fragile o tradizionale, che si faccia guidare e proteggere da lui. E qualche volta la trova, ma non sa che anche nella più tradizionale delle donne il germe dell’autonomia conquistato dalle nuove madri è fiorito all’insaputa della ragazza. Capiterà che la ragazza si senta incerta come lui, che odi la madre nuova, con tutta la sua sicurezza vincente. E allora specularmente al ragazzo in cerca di un passato impossibile, si fingerà sottomessa, materna, unica. Una felicità fragile che si fonda su una frase fondamentale: noi non ci lasceremo mai. E poi un giorno, lei o lui dirà la frase proibita: ti lascio. Solo che se la pronuncerà lui, lei piangerà e scriverà sul diario e ne parlerà con le amiche come nell’Ottocento. Lui invece potrebbe pensare di ucciderla, come si uccideva in duello nell’Ottocento per una donna, o farlo come avrebbe voluto qualche volta sopprimere la madre che quest’epoca gli ha dato. La violenza sulle donne — si celebra oggi la giornata mondiale contro il femminicidio — è frutto di questo nuovo, non un retaggio dell’antico. Usa forme antiche ma è del tutto nuova e legata alla libertà delle donne, delle madri, alle loro contraddizioni, al mutamento troppo lento degli uomini, dei padri di fronte a questa nuova libertà. Eppure è negli uomini, nei padri, nella loro riflessione, nella ripresa del loro ruolo centrale accanto alle donne che siamo oggi, che io penso possa compiersi la rivoluzione che le donne hanno iniziato. Le nuove donne devono continuare a essere differenti dagli uomini e fare valere in tutti i campi la ricchezza della loro storia, della loro intelligenza, dei loro pensieri, ma devono anche cambiare nel profondo e lasciare agli uomini la loro parte di responsabilità nel nuovo mondo. I ruoli dell’uno e dell’altra, rimanendo differenti, possono sovrapporsi e prendere l’uno dall’altra. E la madre può cedere la sovranità assoluta per una libertà conquistata che apre le porte di un mondo vasto, ricco della presenza di Due diversi ma pari. E penso che il padre possa insegnare la sua nuova forza al figlio: un dominio sovrano che deve trasformarsi nell’accoglimento della differenza delle donne, della loro parità. Può insegnare al figlio a non averne paura, a parlarne, sottraendo così il dialogo sui sentimenti all’impero delle donne. Forse la nuova forza degli uomini è fatta anche del pianto di Ulisse — uomo per eccellenza — che nell’isola dei Feaci ascolta il racconto della guerra di Troia e piange, coprendosi il viso col mantello purpureo, «come donna piange lo sposo che cadde davanti alla città». Forse l’uomo può piangere ora come uomo, senza coprirsi il viso, anche davanti al figlio, e aprirsi nel racconto all’altro da sé. E le donne al contrario possono diventare più lievi, manifestare la loro imperfezione, dare ai figli la manifestazione vera di quello che sono e la possibilità di tenere testa senza violenza alle giovani donne libere che incontreranno nella loro vita adulta. Abbiamo la fortuna di vivere uno dei cambiamenti più importanti della storia, il mutamento profondo del rapporto tra i due generi, questo mutamento può cambiare il mondo e in questo nuovo mondo le donne e gli uomini possono amarsi e comprendersi molto più di prima.

Da La Repubblica del 25/11/2013.




i primi novant’anni di mons. Bettazzi

 

 

Bettazzi

per i suoi novant’anni (molto ben portati, peraltro) il quotidiano ‘Avvenire’ gli dedica un’intervista nella quale ribadisce le sue aperture della chiesa allo spirito del concilio vaticano secondo cui egli, giovanissimo vescovo, ha preso parte:

Bettazzi: «Il Concilio, un già e non ancora»

Per i suoi primi novant’anni, che compie martedì prossimo, non ha previsto niente di particola­re. «La festa l’abbiamo fatta, per i cin­quant’anni di episcopato, lo scorso 4 ottobre a Bologna e il 6 ottobre ad I­vrea ». Monsignor Luigi Bettazzi, ve­scovo emerito di Ivrea, storico presi­dente di Pax Christi (il suo impegno di «costruttore di pace» è al centro del re­cente volume di Alberto Vitali, Luigi Bettazzi, Paoline, 158 pagine, 15 euro), ha una vitalità invidiabile. «Dal set­tembre 2012, ho già tenuto 189 confe­renze sul Concilio. La centonovante­sima prossimamente in Lombardia». Ha viaggiato in Italia, ma anche in Al­bania, Georgia, Germania e Tanzania. «Se mi chiamano – spiega – è per sen­tire una parola d’incoraggiamento al­l’accoglienza del Concilio».

 

Don Luigi, in famiglia eravate sette fratelli, cosa impensabile oggi. Quan­to ha inciso in lei il fatto di vivere in una famiglia numerosa?

«Eravamo in tanti, ma quella di avere tanti figli fu una delle grazie che mia madre chiese prima di sposarsi. Io? Forse ho imparato a essere sottomes­so ». Sottomesso lei? Sta scherzando… «No, ho sempre chiesto il permesso prima di fare qualche cosa. Anche per la famosa assemblea sul Vietnam, nel 1973. E quando con altri volevamo proporci come ostaggi alla Br in cam­bio di Aldo Moro, ci fu proibito, e non facemmo nulla».

 

Intanto a 40 anni era già vescovo. Dif­ficile che accada oggi, quando un qua­rantenne viene guardato come fosse ancora un “bambino”.

«Vescovo ausiliare a Bologna. Sotto­messo, sia pure con un uomo mite e timido come il cardinale Lercaro…».

 

E giovanissimo partecipò al Concilio.

Siamo rimasti in molti pochi in Italia (gli altri sono i cardinali Angelini e Ca­nestri, i vescovi Leonardo e Nicolosi più l’allora abate di San Paolo Fuori le Mura, Franzoni) e 32 in tutto il mon­do, i dati sono aggiornati a fine mar­zo. Ne muoiono una ventina all’anno, di “reduci”…».

 

Che cosa è stato sicuramente realiz­zato, del Concilio, e che cosa invece resta da fare?

«Il Concilio è un “già e non ancora”. Ad esempio, la Parola di Dio si legge di più, ma non è ancora fondamentale nella vita di tanti cristiani. La liturgia è più partecipata ma tutt’altro che compiuta. La collegialità è cresciuta ma non abbastanza, e i fedeli laici con­tano ancora pochissimo. Certo, è un segnale positivo il gruppo di otto car­dinali che papa Francesco ha voluto accanto a sé».

 

Lei è uno dei tanti mancini costretto a scrivere e a stare a tavola usando la destra. C’è qualcos’altro che fu “co­stretto” a fare di malavoglia?

«Il vescovo! Quando Lercaro me lo chiese, obiettai che avevo scarsa e­sperienza pastorale, ero un insegnan­te, solo per poco tempo parroco. “Pos­so rifiutare?”, domandai. “Solo in due casi potresti – replicò Lercaro – se hai ammazzato qualcuno o hai dei figli”. E io: “Quanto tempo mi dà?”. Finii con l’accettare».

 

Nella Chiesa lei è stato protagonista di confronti molto franchi, a volte per­fino aspri. Ne ricorda uno tutto som­mato finito bene, tra fratelli, di idee diverse ma che si stimano?

«Da presidente di Pax Christi assume­vo posizioni “insolite”. Sul Vietnam. O sull’obiezione di coscienza: era il 1971 e mi guardavano come un marziano. Adesso è data per scontata. Sulla Let­tera a Berlinguer , il patriarca Luciani scrisse cose severe. Ci “chiarimmo” quasi casualmente, incrociandoci al­la stazione di Terontola alla volta di As­sisi. Accettò di fare il viaggio con me in seconda classe, e mi chiese di “non tur­bare la fede della gente”».

 

Lei è uno dei firmatari della “Lettera dei 500 padri”, pochi giorni prima del­la chiusura del Concilio, in cui assu­mevate impegni molto rigorosi, tutti nel segno della povertà. Papa France­sco sta facendo molte cose simili…

«Fa quello che faceva a Buenos Aires. Spero vivamente che il suo stile si diffonda. D’altronde l’ha detto: quel che deve fare lo farà in fretta, subito. E quando sentirà le forze venir meno, sono convinto che anche lui lascerà il posto a un altro».

 

Di che cosa la Chiesa cattolica do­vrebbe liberarsi?

«Dovrebbe modificare la sua struttu­ra, e mi sembra che proprio questo ab­bia chiesto Francesco. Ad esempio, se il presidente della Cei non è scelto dai vescovi ma dal Papa, è solo al Papa che dovrà rispondere, e a quel punto il dia­logo e il confronto potrebbero anche diventare difficili. Non è colpa di nes­suno, sia chiaro. È lo statuto da modi­ficare. Poi c’è ancora troppo clericali­smo. E se lo scrive perfino Sviderco­schi nel suo recente Il ritorno dei cle­rici… Infine i movimenti: molto effi­caci, dovrebbero insieme sforzarsi di aprirsi».

 

E dove la Chiesa dovrebbe indirizza­re innanzitutto le proprie energie?

«In questo momento, contro la corru­zione! Lo hanno ricordato anche il Pa­pa e Bagnasco. Peggio d’ogni peccato, essa rovina l’anima e il tessuto socia­le. Se non la estirpi, sarà impossibile costruire la solidarietà, che per me è il vero principio non negoziabile, sul quale si fondano la tutela della vita e la promozione della famiglia e del la­voro ».

 

Giochiamo con la fantasia. Quale pro­posta voterebbe con entusiasmo a un’assemblea della Cei?

«Qualsiasi proposta contribuisse a da­re più spazio e rilievo alla collabora­zione dei laici, a ogni livello, compre­si i giovani. Non basta dir loro che co­sa devono fare, occorre saper cogliere le spinte di rinnovamento che sorgo­no dal popolo di Dio. Noi pastori ab­biamo l’ultima parola; ma sarà l’ulti­ma se ce ne saranno state altre prima».

 

C’è qualcosa che non rifarebbe?

«Ho sempre rimpianto di non essere partito missionario. E poi avrei voluto potermi impegnare di più in parroc­chia ».

 

E qualcosa di cui invece va partico­larmente orgoglioso?

«Fui così ingenuo da accettare la no­mina a presidente di Pax Christi. Pri­ma di me avevano rifiutato in cinque. Ma ciò che più mi ha riempito il cuo­re sono le parole degli alcuni che mi hanno detto: “La ringrazio perché se sono ancora nella Chiesa è per lei”».

 

Per che cosa le piacerebbe essere ri­cordato?

«Per la fede nel Signore, l’amore alla Chiesa e la fiducia negli uomini di buo­na volontà».

“Avvenire” 23.11.2013 Umberto Folena