Lampedusa scive a Napolitano

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Lampedusa al limite scrive a Napolitano: “Non abbiamo bisogno della vostra spettacolarizzazione, si riprenda le medaglie”

Una lettera durissima, quella scritta dai lampedusani al Colle, in cui, difendendo gli immigrati, i cittadini si scagliano contro le istituzioni, che abbandonano il popolo e spettacolarizzano le tragedie.

Lampedusa è arrivata al limite. E no, non ce l’ha con gli immigrati, ma con la politica. I lampedusani accolgono e difendono i clandestini, ma non tollerano più le false lacrime delle istituzioni che, dopo la tragedia del 3 ottobre, si sono riempite la bocca di belle parole, per poi ridimenticarsi della situazione in cui versano i cittadini e i migranti.

Per questo, l’Associazione Culturale Askavusa ha deciso di rompere il silenzio e protestare contro quella stessa politica che interviene solo a fronte di incredibili tragedie, dimenticandosi però che sono anni che uomini, donne e bambini muoiono nel Canale di Sicilia, senza che nessuno ne dica niente. E di fronte a quella che ritengono un’ipocrisia, hanno scelto di restituire al Presidente della Repubblica le medaglie al valore ottenute nel 2011 e nel 2012.

E’ una lettera dura e significativa, quella che l’Associazione invia al Colle, nel quale si denuncia l’abbandono da parte dello Stato, sottoposto ad un “golpe”, che dimentica i cittadini. Annunciando la restituzione, i lampedusani spiegano come il gesto sia da imputare al dolore, alla rabbia e allo strazio a cui hanno assistito.

“Rifiutiamo la spettacolarizzazione mediatica con cui il naufragio del 3 ottobre scorso è stato rappresentato e diffuso dall’industria dell’intrattenimento”, hanno scritto. “Dietro la morbosità con cui la fabbrica delle lacrime e del cordoglio del “lutto nazionale” provano a confezionare il format della rappresentazione della tragedia, dietro i riflettori, le conferenze stampa, le visite ufficiali, crediamo ci sia molto altro che vada denunciato.”

“Di fronte ad una strage come quella appena consumatasi, di fronte alle centinaia di corpi ancora ostaggio di un mare che certo non ha colpe pari a quelle della società umana, non accettiamo che ci sia chi venga sull’isola promettendo e assicurando”, aggiungono. “Non accettiamo più che ci si riempia la bocca di promesse, che si diano in pasto alle televisioni le lacrime di circostanza, le commozioni di rito, le figure degli “eroi” e dei salvatori, lasciando poi che le prime pagine si occupino d’altro, che i riflettori si spengano, che i giornalisti ripartano, lasciando tutto così come era prima.”

“A partire dalla legge 40/1998, legge che sicuramente Lei conoscerà bene dato che porta anche il Suo nome”, ricordano ancora “l’Italia ha avviato una prassi di vero e proprio stato di eccezione, sancendo la detenzione ed il trattenimento di quanti non avevano commesso alcun reato.” “Con l’inasprirsi delle norme in materia di immigrazione”, poi, “la situazione è andata via via peggiorando. Il business dell’”accoglienza” si articola oggi lungo una rete di strutture e di centri detentivi che, appaltati a strutture varie, rendono i migranti materia prima di un processo di produzione di profitto che ha luogo in una costante dinamica emergenziale.”
“Come all’Aquila, come in Val di Susa”, ribadiscono. “Militarizzazione, gestione di emergenze alimentate ad arte, sospensione dei diritti e stato d’eccezione per creare laboratori di controllo sociale e di repressione.”

“L’ingerenza imperialista e neo-coloniale dei paesi cosiddetti occidentali destabilizza e rende subalterne intere aree geopolitiche, generando così fenomeni di emigrazione sempre più consistente”, si legge ancora. “Una emigrazione necessaria al capitalismo finanziario dei nostri giorni, il cui conflitto con il lavoro vivo necessita che si impongano nuove forme di governo e di istituzioni e che il mercato stesso del lavoro delle società europee venga stravolto. Occorrono dunque gli immigrati”, proseguono, “come manodopera di riserva, clandestina, sommersa, ricattabile, come marginalità sociale su cui far poggiare una riforma in senso neo-oligarchico delle società europee.”
“Accanto alla marginalità migrante si colloca”, però, “il disagio sociale di quanti, italiani, vivono ormai processi espulsivi di subordinazione, di impoverimento, di negazione della dignità, di quanti lasciano il nostro paese vestendo ancora una volta, anche loro, i panni che in passato abbiamo dovuto troppo spesso vestire, quelli degli emigranti”, che, però, sottolineano non sono quelli della “fuga dei cervelli”, ma le “migliaia che ogni anno lasciano il paese per poter anche solo avere la speranza di un lavoro che garantisca la sussistenza.”

“Così, sullo stesso scoglio di terra, nel canale di Sicilia, il migrante detenuto in un centro indegno, destinato a divenire un ingranaggio del motore del grande sfruttamento continentale”, ricordano e denunciano, “respira la stessa area della donna di Lampedusa che non può partorire sull’isola, perché non vi sono le strutture sanitarie adeguate, di chi rischierà di morire durante un disperato trasferimento in elicottero sulla terraferma per una emergenza che un ospedale avrebbe potuto benissimo affrontare, del bambino costretto in strutture scolastiche inadeguate, di un cittadino che è costretto a pagare i carburanti più cari d’Europa e che magari, essendo pescatore, è costretto a demolire la barca, perché il carburante è troppo caro.”

“Assistiamo ad un continuo scarica barile tra i vari rappresentanti delle istituzioni’”. “Quegli stessi”, affondano ancora, “che negli ultimi anni sono stati colpevolmente muti rispetto alla situazione di Lampedusa, che solo dopo il grande fatto di sangue è stata oggetto di una qualche grottesca attenzione.”

“Riteniamo che la crisi politica delle società europee stia sempre più privando l’Italia della propria sovranità”, scrivono ancora dall’Associazione. “Abbiamo perduto quella monetaria e siamo sempre più esposti ad un’erosione dell’autonomia e della capacità decisionale delle nostre istituzioni politiche. Una governance economico-politica, espressione delle élite tecnocratiche finanziarie e bancarie, impone ormai le proprie direttive e i propri selezionati referenti alle società europee ed alle loro istituzioni, senza che i loro cittadini siano in grado di opporvisi.”
“Per di più”, aggiungono, “l’Italia è succube ed asservita agli interessi militari e di ingerenza imperiale degli USA. Il nostro territorio, alla stregua di una colonia, è disseminato di istallazioni e basi militari e la vicenda del MUOS di Niscemi è solo l’ultima grottesca dimostrazione di uno svuotamento di senso dell’intero apparato politico-istituzionale del paese.”

“A cosa servono e che senso avrebbero queste medaglie”, si domandano dunque i lampedusani, “dopo aver sottoscritto un golpe costituzionale, voluto dai poteri economici e finanziari, quale quello del pareggio di bilancio, che strozzerà qualunque possibilità di un futuro per il paese intero? A cosa servirebbero dopo aver appoggiato la criminale aggressione della Libia, dopo aver condiviso e avallato un’operazione criminosa come la destabilizzazione della Siria, dopo aver sottoscritto il commissariamento da parte dell’oligarchia finanziaria di un intero paese che era un tempo la seconda forza manifatturiera del continente?”

“Quelle stesse istituzioni che vorrebbero appuntarci medaglie sul petto sono quelle che alimentano la macchina infame dei CIE”, attaccano. “Della militarizzazione della Val di Susa, della dislocazione coatta de L’Aquila, delle infinite emergenze dei rifiuti, dei legami organici e strutturali con le mafie, del pareggio di bilancio, della politica neo-coloniale che produce migrazioni, delle missioni di guerra spacciate per umanitarie e delle riforme del mercato del lavoro che generalizzano precarietà e marginalità.”

“Noi proseguiremo sul nostro cammino”, concludono infine, “convinti che la crisi epocale che stiamo vivendo può ospitare, in sé, i germi potenziali di un futuro altro e diverso, di una società rinnovata. Ma non abbiamo bisogno né vogliamo che siano queste medaglie a poter fungere da conferma e da riconoscimento di quanto da noi tentato. Perché se ad appuntarle è la stessa politica che, dopo una tragedia come quella di giovedì scorso, invoca rafforzamenti di Frontex, approfittando ancora una volta della questione migratoria per implementare la stretta militare sul Nord Africa, siamo convinti che la nostra strada vada in tutt’altra direzione”.

fonte: articolotre.com




a proposito dei funerali di Priebke

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la saggia posizione di B. Spinelli (su ‘la Repubblica’ odierna in merito ai funerali di Priebke:
SEPPELLIRLO SÌ RICORDANDO TUTTO

(Barbara Spinelli).

Tutto sta a non dimenticare chi è stato, a seppellirlo nel silenzio, a fuggire le cerimonie vistose; ma seppellirlo si deve. È quanto si può dire su Erich Priebke, l’ufficiale delle SS che sotto gli ordini di Kappler, capo della Gestapo a Roma, si rese colpevole dei 335 morti delle Fosse Ardeatine.

Tutto sta a non prendere il suo colore, a non somigliargli: a fare l’impossibile – mescolare pietà e orrore – perché l’impossibile e il difficile sono sorte dell’uomo che pensa, conosce se stesso, non segue l’istinto. I vocabolari che usiamo sono colmi di emozione, di sdegno, anche di argomenti etico-politici, ma non hanno nulla a vedere col dilemma dei giorni scorsi: che fare, del corpo di chi fu tuo assassino? Come rispondere alla provocazione inaudita che è stata tutta la sua esistenza, visto che Priebke fino all’ultimo non s’è pentito, giungendo sino a chiamare «cucine » le camere a gas, nel testamento?
In mezzo a tanta ira meglio probabilmente non usare parole così intime, e abissali: pietà, amore. E forse aveva ragione Nietzsche quando ci riteneva capaci, sì, di amore del prossimo, «cioè di noi stessi»: non però dell’incommensurabile
lontano, della radicale alterità. Forse amore e pietà sono parole troppo calde, mentre qui ci vuole qualcosa che trattenga l’istinto, che lotti contro la primordiale inclinazione naturale, che sia più asciutta e più imperiosa perfino del senso di giustizia. Meglio la parola Legge. Che non necessariamente coincide con il giusto,
o placa il dolore delle vittime.
Seppellire il nemico – come salvare il naufrago, o soccorrere la vedova e l’orfano: l’imperativo nasce da una cultura plurimillenaria, che oltrepassa l’ordine giuridico. Non a caso Antigone dà a quest’imperativo il nome di «legge non scritta», impartita dagli Dèi prescindendo dalle leggi della pòlis. Rispettare il corpo non più padrone di sé: dai tempi di Sofocle, prima che apparisse Cristo, è norma inviolabile. Il corpo stesso è pura incandescenza: non inumato esala miasma, contagio. Ricordiamo che nòmos, legge, è in origine la porzione di terra distribuita e assegnata. Compresa la porzione della tua tomba.
Tumulare il nemico non è amnesia, né amnistia. Il solo sospettarlo ci rende infinitamente sospetti: vuol dire che tumulare e scordare tendono a congiungersi, sono nelle nostre corde: anche questo è orrore. La memoria dei misfatti sopravvive alla morte: sinistro è dubitarne. Oggi Roma celebra il 70° anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto, e non commemoreremo meglio se avremo vietato a Priebke la sua porzione di terra. Se l’avremo consegnato ai lefebvriani della Confraternita San Pio X di Albano Laziale, che l’useranno politicamente. Se il sindaco di Albano avrà resistito al passaggio della salma in città, e il carro funebre sarà stato assaltato. Nulla è cancellato di quel che Priebke fece, e mai rinnegò. È normale (dunque norma condivisa) che la città di Roma tremi, e fatichi a seppellire chi disseminò morti ignorando ogni legge morale. Ma è norma anche dire a se stessi: «tra noi non così», la tomba gli spetta proprio perché lui la negò.
Colpisce il decreto severo del vicariato, che regge la Diocesi romana: nessun funerale in chiese o cimiteri; solo preghiere in casa del defunto. È previsto dal rito delle esequie, è nel diritto canonico, e gli italiani si sentono capiti. Ma non è scelta risolutiva, perché riguarda il funerale, non il seppellimento. I lefebvriani ne hanno profittato. Perché non è all’altezza – vertiginosa, labirintica – della domanda di Antigone: che si fa del corpo nemico? E cos’è questa cosa che non parla più e tuttavia dice: il corpo? È adeguato alla legge non scritta, non restituirlo alla terra? La casistica cattolica è conforme agli atti di Gesù?
Né possiamo sorvolare lo scabroso, nascosto nelle pieghe dei decreti vicariali: lo sconcertante diniego opposto a altre sepolture, su cui varrà la pena meditare. Nel 2006, la stessa diocesi negò i funerali a Welby, reo di eutanasia e suicidio. Fu sorda alla domanda della moglie, credente e praticante. Il rifiuto dei funerali di Priebke è forse difendibile, ma se non s’accompagna a un ravvedimento su Welby tutto si confonde e pericola. In qualche modo i due dinieghi producono un grumo atroce, accomunano. La Chiesa non potrà uscirne se non con una conversione, separando Welby da Priebke. Che si faccia ammenda e la sua morte sia dopo sette anni onorata. Che siano sconfessate le parole di Ruini, allora vicario di Roma: la Chiesa poteva concedere il rito religioso, purché si potesse dire che erano mancati nel ribelle «piena avvertenza e deliberato consenso». Lo ha rammentato Adriano Prosperi domenica su Repubblica: «Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina». Il vicariato apparve a tanti, cattolici e non, «gelidamente crudele». Tanto più la scelta oggi, mischiata com’è col caso Welby.
C’è chi ha chiesto, per non sperdere il dolore inflitto da Priebke, che il corpo venisse cremato d’imperio e le ceneri gettate non in una fossa, ma «in una fogna». Questo è prendere il colore dei morti, mimetizzarsi col male. Questo è dare tutto il potere alle Erinni, che lavano il sangue col sangue: solo di giusta vendetta
e cruenza è fatto il loro mondo. Perché ancora non regnano gli Dèi che prescrivono leggi più forti del diritto del sangue, e le Erinni ancora non sono tramutate. Son tramutate non allontanando il ricordo dell’ira, ma mettendole al centro della Città, nell’Areopago, a futura memoria, e chiamandole non più Vendicatrici ma Benevole, Eumenidi.
Per questo i vocabolari vanno usati con timore e pudore: tanto bollente è la traccia lasciata dalle Furie. Forse le parole più misurate sono state dette da chi ha proposto di seppellire Priebke fuori dalle mura di Roma. Oppure da quel veterano inglese, Harry Shindler: che «il boia Priebke venga seppellito nel cimitero tedesco di Pomezia. Sarà in compagnia dei suoi pari, visto che in quel cimitero ci sono soldati tedeschi che presero parte a parecchie stragi in Italia, come quella di Marzabotto. Sarà in buona compagnia».
Ricordo personalmente quel cimitero. Nei primi ‘60, gli allievi della scuola tedesca a Roma erano condotti regolarmente alla necropoli. Ancora non era cominciata la
politica della memoriatedesca.
Ne ho ricordo perché frequentavo quella scuola. In due, ci rifiutavamo di andare e s’accendevano discussioni. Non mi offendeva che i compagni ci andassero, ma
comeci andavano: senza pensarci, dato che «era nel programma». Penso che lì il corpo di Priebke avrebbe il suo posto. Avrebbe il suo posto anche in Germania, forse: nella città natale di Henningsdorf. Su Wikipedia, Priebke è annoverato tra «i figli e le figlie della città». Sarebbe appropriato e decente che Henningsdorf si dicesse pronta a accogliere la salma, prima o poi. Senza attendere che l’Italia lo chieda. Quale che sia la soluzione, una cosa pare chiara: la crudeltà con cui Priebke infierì non giustifica che noi s’infierisca sulle sue spoglie. Non è nemmeno la legge del taglione, perché occhio per occhio ha un significato preciso e non c’è modo di pareggiare i suoi misfatti. Né è questione di perdonare. Solo gli uccisi potrebbero.
Al tempo stesso non possiamo dimenticare chi siamo, oggi. La nostra storia recente non edifica. Il corpo di Saddam Hussein mostrato in TV quando fu estratto dal buco dov’era nascosto fu un abominio. Così quello di Bin Laden gettato in mare e rimosso. E Gheddafi linciato sotto gli occhi plaudenti dell’occidente. Fermiamoci un momento, prima di esibire certezze morali. Restare umani non è cosa facile. Perché nell’umano abita con tutta naturalezza il disumano delle Erinni, e perché Priebke, come nel racconto di Borges, è «simbolo di una detestata zona» della nostra anima.

Da La Repubblica del 16/10/2013.




riflessioni a margine del funerale di Priebke: cos’è più grave?

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meravigliose parole, secche e giustamente indignate, di M. Serra nella ‘amaca’ odierna a margine della morte e del funerale di Priebke:

Bisogna essere grati alla piccola comunità lefebrvriana per il suo farsi carico (anche prima del caso Priebke) di un incommensurabile scandalo, così bene esposto dal loro portavoce: è più grave – dice – avere dato la comunione a Luxuria che celebrare i funerali di Priebke. E dunque un transessuale è più colpevole di un assassino; trasgredire la morale tradizionale è più grave che ordinare un eccidio di innocenti; fornicare è più grave che uccidere; accettare la libertà sessuale è più destabilizzante che accettare il genocidio, e dunque sul secondo si può anche chiudere un occhio, sulla prima bisogna essere inflessibili. Rovesciando il vecchio slogan: “Fate le guerra, non l’amore”. Su questo – ripeto – incommensurabile scandalo si regge, se non tutto, buona parte del dolore, del sangue e dell’odio che affliggono l’umanità. Il terrore del sesso è il motore primo di questa visione della vita, e della società, totalmente paranoica, e ancora bene attiva sebbene parecchio incrinata, negli ultimi due secoli, dalla potenza della libertà. Sono sicuro che non solamente il manipolo di catto-fascisti lefebrvriani (tal quali i talebani) ma anche molti insospettabili benpensanti provano più disagio di fronte a un “frocio” che di fronte a un nazista




una catena umana miracolosa

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Musulmani uniti in una catena umana per proteggere i cristiani durante la messa

E’ accaduto domenica 6 ottobre a Lahore, in Pakistan.

Circa 300 persone musulmane si sono unite tra loro per formare una sorta di scudo umano per proteggere i cristiani che stavano partecipando alla messa domenicale.

Lo scorso 22 settembre vi è stato un attacco terroristico contro le minoranze religiose e ben 100 cristiani sono stati uccisi. La catena umana è stata ideata per rispondere a questi atti di violenza, purtroppo frequenti nel territorio.

Un Mufti, autorità religiosa musulmana, ha letto alcuni brani del Corano che trattavano di tolleranza e la pace e la lettura è stata applaudita dal sacerdote che stava celebrando la messa: entrambi si sono stretti la mano in segno di fratellanza.

Il coordinatore dell’associazione che ha promosso l’iniziativa, Pakistan for All, il musulmano Mohammad Jibran Nasir ha dichiarato:“I terroristi ci hanno fatto vedere cosa fanno la domenica e noi gli abbiamo mostrato cos’è per noi la domenica. Un giorno di unità”. Egli è riuscito a mobilitare il paese grazie agli appelli sui social media e ha reso la manifestazione pacifica mediante canti e balli.

[Fonte: www.vita.it]




riflessioni su quanto succede a Lampedusa

migranti

Consumismo
mediatico a Lampedusa

di Marco Loperfido

Ci risiamo: si riaccendono i riflettori sull’isola di Lampedusa, come un set cinematografico che ogni tanto gira una scena del suo reiterato, infinito film, arrivano decine di giornalisti che incominciano a sparpagliarsi dappertutto per intervistare la gente qualunque, mentre le istituzioni si danno da fare a dichiarare “parole” come un formicaio agitato da un’allerta improvvisa che subito passerà. Indignazione, orrore, rabbia, impotenza. Tutta l’Italia gira attorno a questo fazzoletto di terra che stende le braccia verso l’Africa. Tutta l’Italia si interroga su cosa fare, divora la notizia, sviscera, alla radio come in tv, nei bar come sui giornali, il tema dell’immigrazione e delle sue conseguenze faste o nefaste. Li vogliamo, non li vogliamo, sono poveri che scappano dalla guerra, sono clandestini, persone o non-persone, un bene, un male.

Non avrei mai voluto scrivere queste righe perché bisognerebbe avere la decenza di stare zitti e di rispettare il giorno dopo (il che non vuol dire istituire una giornata di lutto nazionale. A proposito: ma se è giornata di lutto nazionale, perché non vogliamo che i loro figli un giorno siano italiani?). Bisognerebbe abbracciare, piangere e dire solo due parole per confortare i parenti, come si fa nei funerali di chi ci era caro. E poi “esserci” davvero nei giorni a venire, quelli difficili. Ma mi è stato chiesto, in virtù dei miei studi sul rapporto tra morte e migranti, in virtù del mio breve viaggio a Lampedusa, di dire qualcosa e di aggiungermi alle mille e inutili parole già dette, e allora scrivo queste strane e sconclusionate frasi che stanno a mezza strada tra il ragionamento e lo sfogo, il che forse non mi giustifica neppure.

Ma lo sapete che tra il 1988 e oggi ci sono stati più di 19mila morti in mare? È una guerra silenziosa come la dimenticanza, come l’oblio, come la rimozione. Non li vogliamo vedere, sono fastidiosi come le mosche. Quando muoiono in 300 tutti insieme qualcosa ci tocca nel profondo dell’umanità sepolta. Ma poi?

Esistono vari tipi di morte. C’è la morte come sprofondamento nel nulla: quella del consumo. Ne fanno le spese i cittadini occidentali, incapaci di pensare la morte come elemento del processo vitale; ne fa le spese il pianeta, usato e poi gettato in un cassonetto; ne fanno le spese i migranti, considerati a mala pena “notizia” per un giorno. Poi c’è la morte-rinascita: accade infatti che qualcuno, vedendo tutti quei corpi stesi nell’hangar dell’aeroporto, magari un giornalista, sicuramente un pescatore che li ha salvati, senta una scossa dentro che lo sconquassa per sempre, che lo cambia facendolo rinascere. Succede quando la morte dell’altro la senti un po’ come la tua, quando riconosci che quel volto fermo nell’ultimo istante della vita è uno specchio in cui riflettersi. A quel punto, anche la morte è vitale e ti cambia nel profondo. Incredibile ma vero.

Le esperienze raccolte nelle mie interviste mi dicono fondamentalmente questo: quando vivi la morte… rinasci; quando rischi di morire ma non muori… diventi migliore; quando, come si dice, “la morte la vedi in faccia” perché è morto un tuo compagno di viaggio e tu no… la vita che vivrai da quel momento in poi sarà più densa e piena di significato. Chi gira dunque nelle strade italiane ed ha rischiato di morire nel viaggio è un essere superiore, bisogna saperlo. Chi lavora dieci ore al giorno per trenta euro nei campi di pomodori non è un poveraccio o un disperato, ma l’apice dell’umanità e il migliore italiano che ci possa essere in Italia. Se dunque vogliamo davvero fare qualcosa di buono da oggi in poi, se vogliamo davvero che questa terribile quanto annunciata notizia abbia un senso, non guardiamo oggi solo a Lampedusa e alla sua strage, ma al siriano che lavora come fruttivendolo, all’egiziano dell’internet point. I volti di questi stranieri sono gli stessi che sarebbero potuti essere nel cellophan a Lampedusa. È un puro caso se loro sono vivi e gli altri no. Forse quel giorno non c’era mare mosso, forse quel giorno la Guardia Costiera non aveva lavorato ad un altro soccorso fino alle quattro del mattino, forse quel giorno nessuno aveva una coperta a cui dare fuoco per farsi vedere.

Si dice che in questa vita stiamo tutti nella stessa barca, ma non è vero. Su quella barca loro ci sono stati, noi no.

* Università Roma Tre; autore di “La morte altrove. Il migrante al termine del viaggio” (Aracne, Roma, 2013)




un’intera classe rifiuta l’ora di religione

nel bicchiere

l’opinione del filosofo della scienza Odifreddi:

Maturandi già maturi, senza ora di religione

Non era mai successo prima. O meglio, era già successo una volta, ma per dissidi con un professore problematico, cioè fanatico integralista, e dunque non contava. Stiamo parlando di un’intera classe di una scuola che ha chiesto l’esenzione dall’ora di religione.

E’ successo al liceo classico Cristoforo Colombo di Genova, con una quinta di ventisei studenti: alcuni di famiglie credenti, e alcuni addirittura credenti loro stessi. E ciò nonostante, tutti esentati su richiesta loro o delle loro famiglie.

L’ineffabile preside ha cercato di spiegarsi e di spiegare l’inspiegabile, con la motivazione che molti studenti erano maggiorenni già all’atto dell’iscrizione. Senza accorgersi, ovviamente, che la “spiegazione” equivale ad ammettere una coercizione delle famiglie sugli studenti.

L’ineffabile preside, invece di vantarsi del primato conquistato dalla sua scuola, ha cercato di scusarsi con il cardinal Bagnasco, che proprio da Genova governa la CEI, assicurandolo del fatto che comunque la percentuale dei non esentati della sua scuola è compresa tra l’80 e il 90 per 100.

Alla meritoria classe dovrebbe invece essere assegnato un premio. Ad esempio, avendo già dimostrato un grado di maturità superiore a quello di tutte le altre classi di tutte le altre scuole d’Italia, i suoi alunni dovrebbero automaticamente ricevere un bonus per il voto al l’esame di maturità, appunto.

Naturalmente, i primati sono fatti per essere battuti. Aspettiamoci ora la prima scuola con tutte le classi esentate, e dunque con gli insegnanti-parassiti di religione biblicamente esodati. E col tempo, a Dio piacendo, l’abolizione dell’anacronistica ora di religione, il licenziamento dell’intero corpo mistico dei suoi insegnanti, e il superamento dell’esame di maturità non più per i singoli studenti, ma per il nostro intero paese.




gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO
Indulto e amnistia contrari sette italiani su dieci

Per Silvio Berlusconi spunta l’ipotesi di uno sconto a metà

Gli italiani non vogliono né l’indulto né l’amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l’elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell’elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di “salvacondotto ” non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4.

Se su amnistia e indulto nel Paese le idee sono piuttosto chiare, in Parlamento sembra meno. Nel Palazzo si discute ma il nodo è sempre e solo uno: Silvio Berlusconi. Il punto di domanda è: deve il Cav rientrare tra i beneficiari di un’eventuale decisione?
Come scrive Giovanni Bianconi su il Corriere tutto dipenderà da come sarà scritta la legge. Un testo c’è, è Il ddl Manconi Compagna che prevede espressamente che Berlusconi venga escluso sia dall’amnistia che dall’indulto. Perché la frode fiscale non è compresa nei reati cancellati e perché la riduzione della pena viene esclusa per coloro che hanno usufruito di quella sancita con la legge del 2006.

Certo è che un disegno del genere non piacerebbe per nulla al Pdl e difficilmente passerebbe visto che per votare una legge del genere ci vogliono i voti dei due terzi del parlamento. Anche su questo – scrive sempre Bianconi – una soluzione potrebbe arrivare dagli indulti varati in passato, nei quali era stabilito che chi avesse già goduto di un provvedimento precedente potesse accedere a uno sconto pari alla metà di quello previsto dalla nuova legge. Nel caso del Cav – conclude Roncone – se l’indulto fosse due anni a lui verrebbe applicato per uno e ciò basterebbe a cancellare anche la pena residua.

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la vergogna delle nostre carceri

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le nostre carceri fanno vergogna, ci fanno vergogna, sono condannate anche dalla comunità europea: cosa fare, come evitare solo riforme epidermiche e affrontare una vera riforma strutturale è diventato un dibattito ormai pubblico, cavalcato politicamente soprattutto da chi è sempre stato sordo a queste problematiche e soprattutto ai problemi e alle sofferenze dei poveri diavoli

FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

uno stimolo alla corretta riflessione è contenuto ne l’ ‘amaca’ odierna di M. Serra:

Nel dibattito molto emotivo sulla condizione carceraria non si capisce perché siano usati l’uno contro l’altro due argomenti ugualmente inoppugnabili come la certezza della pena e l’utilità/umanità della stessa. Un Paese che apre le sue carceri perché non è in grado di averne a misura di Costituzione, e si vergogna delle decrepite galere dove stipa i detenuti, non è un Paese serio. Indulto e amnistia, quand’anche servano (e servono) a far scendere la febbre delle carceri, e ad alleviare sofferenze, hanno il difetto “politico” di sembrare un espediente tanto quanto i giustamente detestati condoni edilizi e fiscali. In questo senso credo abbia ragione Matteo Renzi quando eccepisce sull’indulto. Lo avrà anche fatto per ragioni elettorali, ma il problema c’è e non vederlo vale a credere che basti, ogni tanto, un breve sussulto di unanime pietismo per affrontare una piaga strutturale, e considerata con giusta severità dall’Europa. All’orribile colpa di mantenere reclusi anche imputati non ancora passati in giudizio definitivo, o poveri cristi ingabbiati per reati minori, lo Stato somma quella, non meno grave, di non provvedere alla salute, alla dignità, ai diritti di chi sta in carcere anche per giusta pena. È facile commuoversi per gli innocenti in carcere, il problema vero è che bisogna commuoversi per i colpevoli.

Da La Repubblica del 15/10/2013.




papa Francesco sette mesi dopo

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un bilancio provvisorio del pontificato di papa Francesco dopo sette mesi fatta da ‘noi siamo chiesa’:

Papa Francesco sette mesi dopo

Il nuovo papa si è posto al centro dell’attenzione della cultura laica e del mondo cattolico in modo che nessuno poteva prevedere. I sistemi chiusi, almeno nelle dimensioni di vertice (in questo caso il Vaticano, il collegio dei cardinali e molti vescovi) hanno spesso, quasi per loro natura, rotture improvvise e inattese. Molte opinioni circolano underground, sono magari condivise ma poco proclamate. Mi rendo conto che si tratta di un meccanismo poco comprensibile dall’esterno e poco piacevole per chi, dall’interno della Chiesa, chiede sempre trasparenza, discussione aperta, in poche parole democrazia ( parola aborrita dall’establishement ecclesiastico, che preferisce parlare di “comunione”). Evidentemente la circolazione sotterranea è avvenuta se molte delle sensibilità e dei punti di vista dell’area “critica” del cattolicesimo (tra queste, in primis, quelle espresse dal movimento “Noi Siamo Chiesa”) vengono ora a galla con papa Francesco e trovano legittimità e ascolto quando, solo fino a qualche mese fa, erano silenziate con le buone (con la censura) o con le cattive (provvedimenti canonici) maniere.
E l’autorità morale del papa nella Chiesa cattolica ha una tale forza che le sue sole parole, anche se non seguite subito dai fatti, danno la linea.
Ma tutto ciò non basta a spiegare il ciclone Francesco. Il secondo fattore determinante della nuova situazione è dato dalla crisi (diciamo pure dal fallimento) del pontificato di Benedetto XVI, anche per la sua evidente incapacità di governo con la delega disastrosa a Bertone. Non è necessario essere degli informati vaticanisti per affermare che i fatti recenti, da tutti conosciuti e oggetto di uno scandalo conosciuto in tutto il mondo, hanno contato molto. Il Bergoglio candidato bruciato nel conclave del 2005 dalla personalità di Ratzinger e dalle incertezze e paure dei cardinali che volevano continuità dopo papa Wojtyla, si è presentato come la soluzione ottimale per una situazione di emergenza. Uomo del terzo mondo, lontano ed estraneo ai circuiti vaticani e italiani, sempre più torbidi, con una immagine accattivante e impegnato in un approccio pastorale, e non dottrinale, ai problemi, egli ha fatto l’unità della destra e della sinistra e, a quanto si capisce, soprattutto dei cardinali sparsi nel mondo. Per capire veramente la situazione bisogna tenere ben presente che il candidato alternativo era Scola; sarebbe stata una soluzione meno che mediocre, forse capace di un po’ di pulizia interna ma autoritaria, autoreferenziale e continuista. Questa candidatura, si suppone, non è veramente decollata sia perché troppo sponsorizzata da Ratzinger (col trasferimento da Venezia a Milano) sia perché percepita come, comunque, italo-vaticana, e quindi, nella situazione del marzo 2013, da contrastare.

Francesco e l’opinione laica
La prima evidente reazione di quella opinione laica che segue distrattamente l’universo cattolico è stata di meraviglia per la rapidità e l’efficienza dell’esito del conclave. La contraddizione con la situazione della politica italiana, impantanata dopo le elezioni di febbraio, ha creato invidie a non finire. Ma la sorpresa, dopo la percezione che qualcosa di sostanza cambiava veramente in campo cattolico, è stata la lettera di papa Francesco a Scalfari e la successiva intervista. La differenza dalla situazione di prima è più che evidente: basta relativismo, basta radici cristiane dell’Europa, primato della coscienza, nuovo rapporto con la modernità, nessuna pretesa di pretendere una verità assoluta, dialogo alla pari con i non credenti, la figura di Gesù come dominante e la Chiesa come comunità e via di questo passo. Niente di eretico ma ispirazioni e verità che furono riscoperte dal Concilio Vaticano II e che ora sono rilanciate da Francesco (si tratta della “brace sotto la cenere” di cui parlava l’ultimo Martini) .
Lo sconcerto del mondo cattolico ufficiale è testimoniato dal fatto, sfuggito agli osservatori, che l’Avvenire (il giornale dei vescovi) relegava la notizia della lettera e dell’intervista in un modesto articolo nelle pagine culturali. Ora la cultura laica è da una parte spiazzata, abituata com’era alla ripetitività del contrasto e delle polemiche,dall’altra è messa alla frusta, deve accettare la sfida e, a sua volta, ripensare ai suoi tradizionali criteri critici di giudizio sul rapporto tra la Chiesa e la modernità, sulla religione come causa di sterilizzazione dell’azione dei credenti nel mondo, sulla sua permanente diffidenza nei confronti della scienza e via di questo passo.

Francesco e i vescovi italiani
Ma c’è un problema evidente: in Italia? E’ forse sfuggita la notizia, sostanzialmente censurata dalla stampa cattolica, ma veicolata dall’autorevolissima penna di Massimo Franco (“Corriere” del 29 settembre) di un rapporto nuovo che Francesco ha aperto coi vescovi italiani . Essi sono stati sollecitati ad uscire dalla gestione autoritaria di Ruini (continuata, nella sostanza, da Bagnasco) e a prendersi le loro responsabilità, ad organizzare il ruolo delle Conferenze episcopali regionali, a fermare “l’elefantiasi che ha reso l’episcopato burocratico e autoreferenziale”, a ridurre il verticismo, ad occuparsi delle questioni politiche senza passare dalla segreteria di stato, a pensare a ridurre il numero delle 224 diocesi e via di questo passo. Sullo sfondo c’è la possibilità che i vescovi debbano in futuro eleggersi il proprio Presidente (ora è nominato dal papa, caso unico in tutta la Chiesa). Adesso i vescovi si trovano, a loro volta, spiazzati. Devono incominciare ad abbandonare l’abitudine di essere privi di opinioni generali (o di non manifestarle) sulle grandi questioni pastorali (finora tutte demandate a Roma, o al Vaticano o alla CEI) per occuparsi solo dell’ordinarissima amministrazione diocesana.

Tutto è rimesso in movimento nella Chiesa
Ma le conseguenze più importanti dell’arrivo di Bergoglio interessano il corpo della Chiesa, tanto strutturato e verticistico ma, per questo motivo, anche tanto capace di recepire stimoli che rispondano a bisogni profondi, a sensibilità inespresse e che siano omogenei con prassi già silenziosamente diffuse in tante parti vicine o lontane dell’universo cattolico, come quelle che riguardano l’amministrazione dei sacramenti, la liturgia ecc…
Il messaggio di Francesco ignora o trascura i principi, le definizioni, le identità, le appartenenze e mette in primo piano le sofferenze e le gioie, i sentimenti, la solidarietà, lo spirito di comunità….. Si tratta del cd approccio “pastorale” che dovrebbe costituire il senso stesso dell’essere chiesa, la costante dell’intervento di quanti hanno la responsabilità di gestire le comunità (parrocchie, scuole cattoliche, interventi caritativi…).
Prendono allora importanza nella Chiesa quelli che ordinariamente non hanno voce, ci si preoccupa delle “periferie esistenziali” mentre la gestione del denaro, che impegna troppe energie quotidiane nella Chiesa, deve diventare un problema di serie B o di serie C . Di Chiesa povera e dei poveri bisogna non solo parlare, tutte le strutture della Chiesa devono diventare più protagoniste e il dispotismo papale viene indirettamente messo in discussione, la guerra e la pace ritornano al centro delle preoccupazioni della chiesa universale. La linea non è “rivoluzionaria” , è sostanzialmente quella indicata dal Vaticano II, è abbastanza la linea del Card. Martini.

Il “dissenso” e la destra
Anche se se ne parla poco, sono in tanti nella Chiesa a cercare di capire come posizionarsi. Francesco corre, probabilmente si rende conto che non ha tempi indefiniti per realizzare una svolta, morbida fin che si vuole, ma svolta. L’area che da anni critica e propone, rifacendosi da una parte al Concilio e dall’altra a prassi e forme di vita cristiana dei primi tre secoli e che ha dato vita alla teologia della liberazione, ha già assunto una, quasi generalmente condivisa, posizione di accettazione, a volte entusiasta, della nuova linea. Essa continua a proporre cercando di alzare il tiro, per esempio chiedendo in tempi rapidi il superamento del sistema attuale di nomina dei vescovi che è ora riservata in modo esclusivo al papa per le diocesi di tutto il mondo. Si aspetta di avere una esplicita riabilitazione della teologia della liberazione, dopo che Bergoglio ha ricevuto il suo principale ispiratore Gustavo Gutierrez.
Per i fondamentalisti ed i movimenti, la situazione è opposta. Secondo logica, la loro è una condizione di disagio con il nuovo pontificato, tanto sono distanti i nuovi input dalle loro culture. Come reagirà la destra cattolica? Premesso che i lefevriani sono completamente fuori gioco fino ad ora le reazioni più pesanti sono state marginali anche, si pensa, perché è stata presa in contropiede dopo avere avute tutte le porte aperte sotto gli ultimi due papi. Non è pensabile che la svolta sia indolore e non ostacolata. Si tratterà di vedere come e quando nasceranno gli ostacoli principali per papa Francesco, quanto questa opposizione sia forte nelle strutture organizzate della Chiesa e quanto riesca a contare a fronte di un’opinione pubblica cattolica di base che pare, a oggi, largamente favorevole al nuovo corso. Certamente conteranno i tempi. Più saranno rapidi meglio sarà. Credo che Francesco sia del tutto consapevole di questa necessità e che si stia comportando in modo conseguente, come si può dedurre anche dagli interventi sulle questioni che riguardano tutte le strutture della finanza vaticana.

Milano, 12 ottobre 2013 Vittorio Bellavite




la ‘sindrone di Giona’ e il ‘segno di Giona’ secondo papa Francesco

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Il Papa: non basta la religiosità perfetta per salvarsi, cristiani si liberino da “sindrome di Giona”

Bisogna combattere la “sindrome di Giona” che ci porta all’ipocrisia di pensare che per salvarci bastino le nostre opere. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa di stamani alla Casa Santa Marta. Il Papa ha messo in guardia da “un atteggiamento di religiosità perfetta”, che guarda alla dottrina ma non si cura della salvezza della “povera gente”.

 La “sindrome di Giona” e il “segno di Giona”. Papa Francesco ha incentrato la sua omelia su questo binomio. Gesù, ha osservato, parla nel Vangelo odierno di “generazione malvagia”. E’ molto forte la sua parola. Ma, ha avvertito il Papa, non si riferisce alla gente “che lo seguiva con tanto amore”, bensì ai “dottori della legge” che “cercavano di metterlo alla prova e farlo cadere in trappola”. Questa gente, infatti, “gli chiedeva segni” e Gesù risponde che solo gli verrà dato “il segno di Giona”. C’è però, ha ammonito Papa Francesco, anche la “sindrome di Giona”. Il Signore gli chiede di andare a Ninive e lui fugge in Spagna. Giona, ha detto, “aveva le cose chiare”: “la dottrina è questa”, “si deve fare questo” e i peccatori “si arrangino, io me ne vado”. Quelli che “vivono secondo questa sindrome di Giona”, ha aggiunto il Pontefice, Gesù “li chiama ipocriti, perché non vogliono la salvezza” della “povera gente”, degli “ignoranti” e “peccatori”:

“La ‘sindrome di Giona’ non ha lo zelo per la conversione della gente, cerca una santità – mi permetto la parola – una santità di ‘tintoria’, tutta bella, tutta benfatta, ma senza quello zelo di andare a predicare il Signore. Ma il Signore di fronte a questa generazione ammalata dalla ‘sindrome di Giona’ promette il segno di Giona. L’altra versione, quella di Matteo, dice: Giona è stato dentro la balena tre notti e tre giorni, riferimento a Gesù nel sepolcro – alla sua morte e alla sua Risurrezione – e quello è il segno che Gesù promette, contro l’ipocrisia, contro questo atteggiamento di religiosità perfetta, contro questo atteggiamento di un gruppo di farisei”.

C’è una parabola nel Vangelo, ha soggiunto il Pontefice, che dipinge benissimo questo aspetto: quella del fariseo e del pubblicano che pregano nel tempio. Il fariseo, “tanto sicuro di se stesso”, davanti all’altare ringrazia Dio per non essere come il pubblicano che invece solo chiede la pietà del Signore, riconoscendosi peccatore. Ecco allora che “il segno che Gesù promette per il suo perdono, tramite la sua morte e la sua Risurrezione”, ha detto il Papa, “è la sua misericordia”: “Misericordia voglio e non sacrifici”:

“Il segno di Giona, il vero, è quello che ci dà la fiducia di essere salvati per il sangue di Cristo. Quanti cristiani, quanti ce ne sono, pensano che saranno salvati soltanto per quello che loro fanno, per le loro opere. Le opere sono necessarie, ma sono una conseguenza, una risposta a quell’amore misericordioso che ci salva. Ma le opere sole, senza questo amore misericordioso non servono. Invece, la ‘sindrome di Giona’ ha fiducia soltanto nella sua giustizia personale, nelle sue opere”.

Gesù parla dunque di “generazione malvagia” e “alla pagana, alla regina di Saba, quasi la nomina giudice: si alzerà contro gli uomini di questa generazione”. E questo, ha evidenziato, “perché era una donna inquieta, una donna che cercava la saggezza di Dio”:

“Ecco, la ‘sindrome di Giona’ ci porta alla ipocrisia, a quella sufficienza, ad essere cristiani puliti, perfetti, ‘perché noi facciamo queste opere: compiamo i comandamenti, tutto’. E’ una grossa malattia. E il segno di Giona, che la misericordia di Dio in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, per la nostra salvezza. Sono due parole nella prima lettura che si collegano con questo. Paolo dice di se stesso che è apostolo non perché ha studiato questo, no: apostolo per chiamata. E ai cristiani dice: ‘Siete voi chiamati da Gesù Cristo’. Il segno di Giona ci chiama: seguire il Signore, peccatori, siamo tutti, con umiltà, con mitezza. C’è una chiamata, anche una scelta”.

“Approfittiamo oggi di questa liturgia – ha concluso il Papa – per domandarci e fare una scelta: cosa preferisco io? La sindrome di Giona o il segno di Giona?”