il ‘relativismo’ sembrava ai due pontefici precedenti la cifra del limite intrinseco della cultura moderna e contemporanea e quindi da combattere e superare in base ad una identità culturale e valoriale più forte quale quella offerta dalla cultura cattolica le cui radici affondano nell’humus culturale ebraico e greco
col nuovo pontefice sembra essere possibile ripensare il relativismo come relatività, relazione. chissà che non sia possibile uno sguardo nuovo (meno conflittuale e più dialogico) rispetto al passato …
in merito un bel contributo di C. Albini in ‘Viandanti’:
Credenti e no sono necessariamente avversari? Da sempre sostengo che non sia vero. Premetto che queste sono etichette fuorvianti, come ormai sostengono molti. Il «credente» è abitato dal dubbio e anche il «non-credente» conosce una sua fede e la ricerca. Tuttavia, sono categorie comode per semplificare i nostri discorsi, a patto di disinnescare alcuni luoghi comuni fuorvianti e dannosi. Uno dei più importanti riguarda il significato del linguaggio del relativismo, che ha segnato il pontificato di Benedetto XVI, e l’uso che se ne fa. A lungo, il dissenso rispetto alle posizioni prevalenti tra i vertici della gerarchia cattolica, soprattutto in campo etico-legislativo, è stato respinto ricorrendo a quest’accusa. Il relativismo fa parte di quei concetti il cui significato è stato irrigidito e che vanno ri-compresi e ri-letti. C’è bisogno di una nuova comprensione di parole che sono state sequestrate dai settori più chiusi del cattolicesimo. La laicità non è relativista Gustavo Zagrebelsky, intervenendo nel dialogo aperto da papa Francesco con Eugenio Scalfari, scrive: «In ogni spirito che s’ispira alla laicità e crede alla necessità che forze morali possono unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a “reimpostare in profondità la questione” suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene e il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà» (la Repubblica, 23 settembre 2013). In anni recenti, vale la pena ricordarlo, Zagrebelsky ha portato avanti una critica serrata all’etica dei principi non negoziabili e della legge naturale, così com’era impostata anche da voci autorevoli del magistero. Questa sua posizione, come si evince dalle parole che ho riportato, non significa la negazione della verità, del bene e della giustizia. Il suo è il rifiuto di una certa impostazione etica e degli argomenti di cui si avvale, più che di ogni etica. E nemmeno è il sostenere una posizione radicalmente individualista e perciò relativista. Ultimamente, alcuni fatti tragici hanno dimostrato come sia possibile trovare una sintonia tra portatori di visioni del mondo diverse in nome del bene della persona. È accaduto in occasione della giornata di preghiera e digiuno per la pace e in seguito alle tragiche morti di Lampedusa. Qui è in causa la persona con il suo volto, la sua carne, il suo sangue: un bene univoco, evidente, da difendere nei confronti di un male indubitabile. Alle radici delle divergenze Ci sono altre situazioni – soprattutto quelle riguardanti l’etica d’inizio e fine vita e la famiglia – in cui questa sintonia non si riscontra. Perché? Bisogna avere l’accortezza di chiedersi se questa è una divergenza che nasce da una negazione della vita e della famiglia, o piuttosto da una differente concezione del bene. Il nichilismo certamente esiste, ma sarebbe irrealistico considerarlo un fronte ben identificabile e schierato in armi contro i cattolici che lo fronteggiano. Solo un’esigua minoranza, tra gli atei e i non cattolici, può essere considerata effettivamente nichilista. Nietzsche e Heidegger hanno ben spiegato come il nichilismo sia piuttosto un clima di pensiero, un’atmosfera che tutti respiriamo, cattolici compresi. Si può essere perfettamente ortodossi sul piano dottrinale, eppure assumere un atteggiamento nichilista: è il caso del fondamentalismo, che divide il mondo in due e demonizza l’alterità negandone il bene. Il punto è: chi sostiene su questioni di vita e famiglia una posizione “altra” rispetto a quella prevalente nella Chiesa – scrivo prevalente, perché in ambito teologico-morale interrogativi e dibattiti hanno uno spazio molto più ampio di quanto generalmente non si pensi, al punto che nella storia si rilevano cambiamenti anche notevoli nel magistero – è sostenitore di un male? E se, invece, sostenesse un bene differente, oppure una differente attuazione del medesimo bene che la Chiesa sostiene? La prospettiva dell’incontro Se in una relazione omosessuale caratterizzata da fedeltà e dedizione c’è un bene, riconoscerlo non significa negare il matrimonio. Chi sostiene, a certe condizioni e in certe situazioni, l’interruzione della ventilazione o della nutrizione artificiale è per la morte, o invece discerne una sproporzione tra i costi soggettivi, in termini di disagio psicologico, di queste pratiche e il fine che perseguono? Si tratterebbe allora di un giudizio morale su come coniugare la cura della vita con la libertà e la dignità della persona umana. Non è affatto l’avvallo dell’eutanasia e di una cultura dello scarto, ma accettare che oltre un certo limite può diventare disumanizzante persistere nell’impedire la morte. Affrontare queste e altre questioni non significa entrare in una prospettiva di permissivismo senza freni, in cui tutto va bene. Sarebbe caricaturale porre le cose in questi termini. È più corretto dire che è una prospettiva d’incontro, la quale nasce dalla disponibilità a riconoscere il bene di cui l’altro è portatore dentro a una relazione. Senza che questo significhi necessariamente trovare un accordo facile e totale. Allo stesso modo, non è attraverso la vittoria in una disputa, bensì nella relazione che l’altro arriva a ritenere credibile me e il bene di cui sono portatore. Scrive Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21). Il relativismo, allora, non è dato da posizioni non pienamente coincidenti con le mie, ma dall’indifferenza per la persona e il suo bene, che inizia dal non riconoscerlo come soggetto portatore di un’autenticità etica che si manifesta nella sua coscienza. È in questi termini che si può leggere l’esortazione di papa Francesco a seguire il bene percepito dalla propria coscienza, che non è avvallo di tutto. Nel mercante di clandestini o nell’aguzzino nazista non c’è autenticità etica, perché c’è indifferenza verso l’altro. Ben diverso è il caso di chi entra nei dibattiti su vita e famiglia.
Christian Albini Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti
L’Italia abbandona i più deboli
Le donne, gli uomini, i bambini invalidi sono vittima dei tagli imposti alla spesa pubblica. Senza sussidi né servizi, restano affidati alle famiglie che spesso non hanno i mezzi per curarli adeguatamente. Ecco le loro storie
di Fabrizio Gatti
“Il mio bimbo si chiama Loris, scusi se ho scritto Lollo nell’email, ma era il nome che lui diceva quando gli veniva chiesto come ti chiami», rivela il suo papà: «Sì, il mio bimbo, fino a quel giorno che vorrei cancellare e cioè il 23 aprile 2012, stava benissimo. Era un bimbo sanissimo di due anni e mezzo. Poi un’emorragia al cervelletto e il mondo cambia, la vita diventa difficile e tutti ti chiudono le porte». Ma uno Stato può chiudere le porte e sacrificare i suoi cittadini più deboli? L’Italia, anche quella dei pregiudicati che frodano il fisco e pretendono di continuare a sedersi in Parlamento, la risposta se l’è già data. Chiara e tonda: un sì, netto e drammatico. Non siamo ancora all’eutanasia imposta alla Grecia dall’Unione Europea per non far crollare l’euro. Ma non siamo lontani: anzi, con i recenti tagli alla spesa sociale le persone non autosufficienti sono già state sacrificate. In nome del fiscal compact, il patto di bilancio europeo. Con tutte le sue conseguenze.
Basta ascoltare i racconti dei lettori che hanno partecipato a questa inchiesta dell’Espresso. E guardare il nostro Paese dagli occhi di piccoli e adulti che per vivere, studiare, lavorare hanno bisogno di aiuto. Al punto che Lollo, sopravvissuto all’emorragia, adesso non può accedere alla riabilitazione di cui ha bisogno. Mentre a Milano e in altre città ci sono bambini che frequentano la scuola dell’obbligo soltanto per 11 ore la settimana, dopo che il ministero ha ridotto le spese per gli insegnanti di sostegno. E altri ragazzi proprio in questi giorni rischiano di dover rinunciare agli studi perché i Comuni non pagano più il trasporto e i bus di linea sono barriere architettoniche con le ruote. Oppure bisogna osservare l’Italia dalle finestre di donne e uomini invalidi che, prigionieri dei loro appartamenti, sopravvivono a fatica visto che l’Inps a ogni verifica sospende l’assegno anche per diciotto mesi.
DISABILI IN CADUTA LIBERA
O immaginarla dai letti di quelle migliaia di anziani non autosufficienti che aspettano la loro ora ingabbiati dentro istituti convenzionati a 700 euro al giorno, ingrassando i bilanci di cliniche e cooperative quando, se bene organizzata in casa, la stessa assistenza costerebbe alle casse pubbliche meno della metà. Sofferenza e affari. Se la crisi è una corrente impetuosa che erode le nostre vite e i doveri di solidarietà sanciti dalla Costituzione, i cittadini disabili e le loro famiglie sono già in caduta libera oltre la soglia della cascata. Al Nord, come al Centro e al Sud. Un paradosso se si considera la presenza così massiccia di cattolici nella politica italiana. Come ha sottolineato Margherita Hack nella prefazione al libro-inchiesta di Roberto Gramiccia e Vittorio Bonanni “La strage degli innocenti. Anatomia di un omicidio sociale” (Ediesse): «Balza agli occhi, da un lato, l’assurda contraddizione fra la difesa della vita a tutti i costi di persone in coma da anni ridotte a vegetali, fra la proibizione di usare le cellule staminali embrionali perché l’embrione si ritiene persona in fieri», ha scritto l’astrofisica scomparsa il 29 giugno, «e, dall’altro, la scarsa e inadeguata assistenza agli anziani, soprattutto ai più deboli, senza sufficienti risorse». Gli economisti di mezzo mondo discutono se i tagli siano conseguenza della crisi in Europa: o viceversa se le misure di austerità non abbiano annientato l’autonomia degli Stati nell’intervento a difesa dei più bisognosi. Non tutti la pensano come il presidente della Bce, Mario Draghi, che in un’intervista al “Wall Street Journal” ha dichiarato che il modello sociale europeo è ormai superato. O come Norbert Walter, l’economista di punta della Deutsche Bank che nel 2008 profetizzava: «In futuro alcuni di noi dovranno adattarsi a guadagnare uno stipendio insufficiente a sopravvivere». Ma ecco, quel futuro è già qui.
NIENTE FISIOTERAPIA
Savino Ferrara, 42 anni, il papà di Lollo, per assistere il suo piccolo ha dovuto chiudere la sua impresa. «Prima che succedesse la mia fine del mondo», racconta, «ero un artigiano edile». I Ferrara abitano a Seregno, provincia di Monza e Brianza, una ventina di chilometri da Milano, una zona ricca, ma non per tutti. Savino ora fa l’operaio in una ditta di costruzioni. «Ho chiuso perché non avrei più il tempo che avevo da dedicare all’impresa. Mia moglie», aggiunge, «non lavora perché deve accudire il piccolo di giorno e soprattutto la notte. Ho altri due figli, una di 20 anni, uno di 18. La prima ha lasciato le superiori all’ultimo anno perché dopo che Lollo è tornato a casa dal lungo ricovero, il bisogno di un aiuto era più importante dello studio. Attualmente il nostro piccolo con l’assistenza domiciliare integrata della Asl fa tre sedute settimanali della durata di 45 minuti di fisioterapia. Io ne integro privatamente altre due alla settimana. Poi quattro sedute di logopedia per la deglutizione a settimana e io ne integro altre due. Non siamo assistiti da nessun centro neuropsichiatrico infantile. Tutto viene svolto a casa. Perché il Don Gnocchi, il centro privato convenzionato che c’è qui, ci avrebbe dato solo tre sedute di fisioterapia e una di logopedia che sono uguali a niente». Savino racconta che ogni otto mesi può richiedere una seduta intensiva in un altro centro convenzionato dove ci sono medici, neurologi, fisiatri e quant’altro: «Ma ogni otto mesi è davvero troppo poco. Per poterlo rimettere in piedi, un bimbo con tetraparesi spastica avrebbe bisogno di almeno due ore al giorno di fisioterapia e se dobbiamo anche insegnargli a deglutire e a svezzarlo con le pappe, avrebbe bisogno di almeno sei incontri al giorno di logopedia». Poi ci sono le spese: «Mille euro al mese non rimborsabili. Li spendo per colliri e alcuni farmaci che il servizio sanitario non passa e tutto l’occorrente per le medicazioni, la tracheotomia, il sondino per il nutrimento. Ci sentiamo in balia delle onde», confessa il papà di Lollo e spera nell’aiuto economico di qualche associazione privata. Sa che con il suo stipendio da operaio da solo non può farcela. Arriva quel momento che prima o poi tutti i genitori nella sua situazione devono affrontare: la consapevolezza di non riuscire a fare il necessario per salvare il proprio bimbo. Prima dell’avvento del liberismo finanziario e del disastro che sta provocando, era compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che tolgono il sonno a milioni di italiani. Ora rimangono i gesti di buona volontà. Nella regione del senatore Formigoni che in pochi anni si è mangiata 89 milioni in tangenti sulla sanità, i soldi per aiutare Lollo li raccolgono i clienti di un bar. Con spiccioli e mance.
SCUOLA PUBBLICA, SOSTEGNO PRIVATO
Anche M., 7 anni, seconda elementare a Milano, è una bambina sacrificata dallo Stato. Per lei, come per molti altri alunni, l’Ufficio scolastico ministeriale ha concesso 11 ore di insegnante di sostegno su 40 di presenza settimanale a scuola. Nelle altre 29 ore la piccola, che soffre di encefalopatia post natale, aveva due alternative: rimanere parcheggiata in aula o tornare a casa. La piccola M. però può dirsi fortunata. La soluzione l’ha trovata la mamma, 41 anni, impiegata. Paga lei l’educatrice in classe per le ore non coperte: 1.400 euro al mese. «Se ne va tutto il mio stipendio, unica entrata della famiglia», dice: «Ma posso permettermelo grazie all’aiuto dei miei genitori». Per tutti gli altri bambini che non possono contare sui nonni, la scuola dell’obbligo a Milano dura soltanto 11 ore alla settimana. Laura, 16 anni, anche lei milanese, con una grave sindrome autistica, non si è potuta iscrivere alle superiori: «Nei casi più gravi come quello di nostra figlia», spiega la mamma, 49 anni, «gli istituti non sono in grado di accogliere questi ragazzi con le necessarie modalità educative. E in questi ultimi anni le ore di sostegno sono state ridotte all’osso: sei o massimo nove alla settimana. Tanto che quest’anno ci siamo trovati nella condizione di dover rinunciare a iscriverla alla scuola superiore. Dove peraltro abbiamo trovato gentili ma fermi rifiuti alla sua iscrizione per l’inadeguatezza di strutture e la mancanza di personale qualificato. I dirigenti puntano sul fatto che l’obbligo scolastico finisce a 16 anni. Mentre la legge sull’integrazione scolastica prevede un insegnante di sostegno su tutte le ore per ogni studente con il 100 per cento di invalidità, fino alla quinta». In alternativa Laura e altri ragazzi nelle sue condizioni frequentano un centro di riabilitazione privato. Sono 900 euro al mese di retta. Li copre in parte il Comune, dopo una lunga trattativa con i genitori. Il trasporto, 25 euro al giorno, è tutto a carico delle famiglie. Fanno 500 euro al mese: praticamente l’intera indennità mensile di accompagnamento di 499 euro che Laura riceve dall’Inps. E che un invalido dovrebbe far bastare anche per i farmaci che il servizio sanitario non passa, gli integratori, le vitamine, le ore in più di riabilitazione e mille altri imprevisti. Tutto questo nella stessa città in cui la Regione spende milioni di euro in buoni scuola. Un modo per aggirare la Costituzione, articolo 33, e finanziare le scuole private. «Non si ha idea dello sconvolgimento, dell’impegno che riguarda tutta la famiglia ad affrontare l’assistenza», commenta Susanna Ligato, 48 anni, impiegata part-time per seguire il figlio autistico, 17 anni, il maggiore di due ragazzi, terza liceo artistico che frequenta a orario ridotto, un mutuo da 550 euro al mese, il centro di riabilitazione da pagare perché non è convenzionato: «Mi aiutano i miei genitori, 77 e 70 anni. L’angoscia più grande è pensare a cosa succederà quando non ci sarò più io». Chi può permettersi l’avvocato fa ricorso al Tar per ottenere più ore di sostegno. E di solito vince. Ma la scuola non aggiunge mai insegnanti. Per rispettare la sentenza, l’ufficio scolastico regionale si limita a togliere ore ad altri bambini o ragazzi disabili dello stesso istituto. Così i genitori che hanno vinto il ricorso finiscono con il sentirsi in colpa. Perché alla fine, altri alunni perdono l’insegnante di sostegno. Oppure scoppiano discussioni per accapparrarsi un’ora in più. Nessun preside ha la forza di opporsi alla follia di queste soluzioni. Obbediscono alla cieca. Da quando la loro carica dipende da un contratto triennale, chi protesta mette a repentaglio la sua qualifica.
O IL TAXI O LA VITA
I tagli non risparmiano nemmeno il diritto al lavoro. A Torino il Comune ha diminuito la spesa per i buoni taxi. Un punto di eccellenza che garantiva alle persone con disabilità motoria la possibilità di andare a scuola, in ufficio, a fare visite mediche. La copertura è stata ridotta a un massimo di 4 euro a corsa. Con il traffico delle ore di punta, significa un minimo contributo su un totale di 25 – 30 euro al giorno. «È un balzo indietro di una trentina d’anni», osserva Andrea Ginestri, 47 anni: «La cosa più grave è che alcuni disabili abbiano preso in considerazione l’ipotesi di licenziarsi. Chi ha un impiego part-time, riterrebbe più conveniente licenziarsi perché gran parte del suo compenso verrebbe spesa in taxi». A Torino come nel resto d’Italia le barriere architettoniche sono fuori legge. Ma spesso al taxi non ci sono alternative.
MANCANO LE STRUTTURE
Il trasporto è ugualmente un dramma per Concetta Drago, 46 anni, insegnante, che quest’anno scolastico appena cominciato non sa come far arrivare in classe la figlia colpita da osteogenesi imperfetta, 16 anni, terza liceo linguistico: «Abitiamo in un piccolo paese della Sicilia e», racconta, «la scuola di mia figlia è a 40 chilometri, a Sant’Agata Militello. Ci hanno spiegato che con la prevista abolizione delle province, quella di Messina non ha rifatto il bando per l’appalto del trasporto. Tutti i paesi di qui sono nella stessa situazione. Intanto abbiamo cominciato a portarla noi ogni giorno. Mi sta aiutando mia madre, ma ha settant’anni e non potrà farlo sempre. Mia figlia è ben inserita, completamente dedita allo studio. Si muove su una carrozzina e no, è impossibile servirsi dei pullman di linea. Li dovrebbe vedere». A Cerignola, provincia di Foggia, la cooperativa che trasporta i disabili al centro diurno di Andria, 92 chilometri tra andata e ritorno, vanta un credito di 11 mesi di arretrati da parte del Comune e 14 mesi da parte della Asl. Pochi giorni fa si è trovata una copertura temporanea delle spese e soltanto per questo il servizio non è stato sospeso. «Per le luminarie della festa patronale però il Comune i soldi li ha trovati, per questo ci siamo arrabbiati», protestano i disabili di Cerignola e dintorni. La lista dei paesi italiani nelle stesse condizioni è lunga. Un altro esempio è Catania: il Comune ha ridotto il contributo per il trasporto scolastico degli alunni disabili dai 6,69 euro al giorno del 2006 ai 2,28 del 2012. Il resto della spesa lo devono aggiungere i genitori. Oppure Ginosa Marina, provincia di Taranto, dove Biagio, 27 anni, è bloccato a casa senza poter svolgere alcuna attività: «Utile quanto meno ad avere un lieve miglioramento nel linguaggio e nel fisico. I genitori impegnati ad accudire Biagio 24 ore su 24», racconta una parente: «sono sempre stati troppo poveri per agire privatamente e le strutture sono quasi inesistenti. A scuola non è mai stato seguito seriamente. La struttura per disabili più vicina è a 25 chilometri. Il papà, manovale saltuario, ha chiesto di poter usufruire di un servizio navetta. Ma da quel “le faremo sapere” è trascorso tanto tempo e il telefono non squilla mai». «Come risultato ai tagli», racconta Maria Simona Bellini, 56 anni, di Roma, «si è attivato un meccanismo perverso attraverso il quale ci viene consigliato di rinchiudere i nostri cari in istituto. Cioè per non sostenere i mille euro al mese di assistenza domiciliare, gli enti preferiscono spendere 700 euro al giorno in istituti privati per non autosufficienti. Dietro alla lobby delle cliniche e delle cooperative c’è un forte bacino di interessi e di voti. Il meccanismo delle cooperative è diabolico. Per mia figlia il Comune di Roma spendeva 1.500 euro al mese per 12 ore settimanali di assistenza a casa. Ora che ci occupiamo noi dei contratti, 20 ore a settimana costano al Comune 700 euro al mese. È una forma di assistenza prevista dalla legge. Ma viene concessa solo se si minacciano denunce e ricorsi. Gli uffici preferiscono far passare tutto attraverso i loro appalti con le cooperative. Immaginate voi il perché».
INDENNITÀ BLOCCATE
Maria Simona ha ottenuto un contratto di telelavoro per stare accanto alla figlia di 25 anni e al marito, 57 anni, invalido dal 2007 dopo un aneurisma. «La vita non smette mai di metterti alla prova», dice lei: «Mio marito è prigioniero in casa. Ha una pensione di invalidità civile, 270 euro con cui dovrebbe vivere. L’hanno fatto rivedibile ogni due anni. A gennaio ha passato la visita. Ma a febbraio, alla scadenza, l’Inps gli ha bloccato l’indennità. Succede a tutti, giovani e anziani. Ogni due anni. Riprendono a erogartela dopo sei, sette mesi. Per qualcuno anche diciotto. Una vessazione. Per fortuna ci aiutano i suoi genitori anziani. Altrimenti non saprei come fare». Parafrasando “Germania anni Dieci”, l’ultimo libro del grande giornalista tedesco Günter Wallraff (L’Orma), sono i più anziani la stampella di questa Italia anni Dieci. Ma quanto può durare?
in solidarietà alle ‘ragazze al volante’
un piccolo grande gesto, una sfida delle ‘ragazze al volante’ ad un regime autoritario e oscurantista, destinato a dare frutti molto più ampi
così la bella riflessione di M. Serra (congiunta ad un bel video) ne l’ ‘amaca’ odierna:
Mette allegria, mette energia la coraggiosa ribellione delle saudite al volante. Siamo così immersi nella nostra piccola palude nazionale da dimenticarci che a pochissima distanza da noi, praticamente appena fuori dall’uscio, c’è un luogo chiamato “mondo”. E nel mondo succedono tante cose formidabili e importanti. Per esempio questa sfida a una delle tante amputazioni che le femmine non vogliono più subire. Non è un dettaglio, se pensate che la libertà di movimento determina la felicità degli umani quanto la libertà di parlare, di lavorare, di amare chi si preferisce amare, di scegliere il proprio destino. Il comunismo sovietico è caduto, prima ancora che per la sua penuria di beni, e di libertà individuali, per l’odioso divieto di viaggiare, muoversi, cambiare città, paese, vita. La potenza simbolica della caduta del Muro dipendeva dalla fine, tanto attesa, di quella assurda gabbia. Festeggiamo dunque quelle ragazze (di ogni età) al volante. Sentiamole nostre sorelle. Rischiano qualcosa, forse rischiano molto, ma hanno da perdere, come si dice classicamente, soltanto le loro catene. E non perdetevi l’eccellente video satirico (di un maschio saudita, l’artista Hisham Fageeg) No woman no drive (clicca qui) , che sta facendo il giro del mondo. È un piccolo capolavoro.
ancora sulla campagna razzista scatenata contro i rom
così, dopo la campagna antizingara scatenata in riferimento al caso ‘bimba bionda’ il rom inglese diciottenne, Filip Borev, blogger, sul Gardian:
Sono nato con gli occhi azzurri e bianco come una bottiglia di latte. Da quel giorno in famiglia tutti hanno iniziato a scherzare dicendo che mi avevano rubato. Nella situazione attuale mi chiedo quanto sia ancora divertente la battuta», scrive Filip Borev sul Guardian. Diciotto anni, blogger, inglese, Borev è anche un romanì (parola che indica coloro che con un termine dispregiativo vengono chiamati «zingari»): discendente per parte di madre da rom bulgari e romanì inglesi e per parte di padre di romanì inglesi e pavee, cioè gli «Irish travellers» diffusi in Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Borev racconta che i suo fratelli avevano invece la carnagione olivastra: «Nella mia famiglia Rom non avrei potuto attirare di più l’attenzione; per fortuna adesso posso passare le battuta sul “bambino rubato” a mio fratello minore, che è nato con degli impressionanti capelli biondi», si consola.
Il giovane blogger inglese (o si dovrebbe definire romanì?) aggiunge poi una considerazione: «Se si dovesse fare una lista delle ragioni per cui un bambino debba essere preso in carico ai servizi sociali, l’essere biondo di certo non sarebbe tra questi».
Eppure è successo ben due volte nell’ultima settimana: prima in Grecia e poi in Irlanda (a dimostrazione di come le paure siano contagiose). In un caso è venuto fuori che la bimba in questione, Maria, non era figlia della coppia di rom, pelle olivastra e capelli scuri, che la stavano allevando come tale. Ma era figlia di rom altrettanto scuri e olivastri, con una progenie però di pargoli biondissimi o rossi, che sembrano usciti da un documentario sulla musica celtica. Mentre nel secondo caso la piccola, 7 anni (la sua foto non è mai stata pubblicata), è risultata al 100% sangue del sangue dei genitori bruni. E dopo aver passato alcune notti in mano ai servizi sociali di Dublino è potuta tornare con loro. A «rapirla», se di rapimento si vuole parlare, erano state le autorità irlandesi.
La vicenda greca intanto, con le sue immagini di bambini biondi in mano a genitori bruni, ha fatto molta impressione da un capo all’altro dell’Europa. Testimonia soprattutto della nostra incapacità di pensare fuori dai pregiudizi «razziali», sintomo forse di un sostrato razzista di cui neppure noi siamo consapevoli.
I figli biondissimi o rossi di persone con carnagione occhi e capelli scuri devono il loro aspetto a geni recessivi che si incontrano fortunosamente nel ciclo delle generazioni e poi riemergono nei loro tratti insoliti. «Anche se può sembrarci che gli svedesi siano tutti biondi e i rom tutti scuri (e magari i genovesi tutti tirchi), non è così. Lo si pensava nell’Ottocento, quando era molto forte il paradigma razziale. Ma oggi sappiamo bene che le popolazioni umane sono molto variabili, sia nell’aspetto fisico che nel loro Dna, e comprendono persone dall’aspetto diverso, e a volte molto diverso. Una bambina rom bionda è insolita, ma non più di uno svedese bruno come Ingemar Stenmark», ammonisce Guido Barbujani, genetista dell’università di Ferrara e autore di L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana (Bompiani).
Eppure se quella bimba apparsa su tutti i siti e giornali non fosse stata così bionda, quasi l’immagine ideale della bambola che tutte le bambine hanno tenuto in braccio, ci avrebbe colpito meno. Il punto non è che scambiarsi i figli, anche se mossi da condizioni di disperata povertà, è giustamente illegale in Europa (il padre e la madre biologici della bimba, due bulgari, hanno raccontato di averla ceduta perché non potevano mantenerla). Il punto non è neppure che, sempre in Europa, i romanì vivono nelle favelas e difficilmente accedono a sevizi sociali basilari che possono alleviare quella povertà, fossero solo le case popolari.
Il punto è che quelle immagini di genitori e figli con i tratti somatici così «dissonanti» hanno risvegliato di colpo pregiudizi radicati che di solito ci concediamo il privilegio di ignorare. Il più caparbio è quello della «zingara rapitrice». Lo conoscono tutti e si riassume in una frase: «Le zingare rubano i bambini» – e poi una sfilza di spiegazioni pseudo-razionali (“Li usano per chiedere l’elemosina», «Per loro sono il valore più grande», etc etc).
Non è vero. In un libro documentatissimo (La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze, Roma, Cisu, 2008, 144 pp.), Sabrina Tosi Cambini è andata a verificare ogni singolo caso di presunto rapimento imputato a persone rom e sinte in Italia tra il 1985 e il 2007: nessuno è stato accertato. Gli unici «rapimenti» sono quelli in cui romanì vanno a riprendersi i figli affidati ai servizi sociali (cosa illegale e deprecabile, ma ben diversa dall’andare a rubare i figli altrui)
Tosi Cambini racconta come i casi riportati dalla cronaca abbiano tutti le stesse caratteristiche: le protagoniste sono sempre donne; la madre, o una parente stretta del bimbo, accusa una donna romanì di aver voluto rapire il piccolo e sostiene di averlo impedito; di solito il fatto avviene in luogo affollato, ma senza testimoni e senza che nessuno aiuti la mamma (o parente del minore). Secondo Tosi Cambini – che si affida alle ricerche psicologiche sulla percezione – questi «fatti»si assomigliano tutti perché sono il frutto di eventi travisati a causa delle nostre aspettative su quello che zingare fanno («rubare i bambini»). Il pregiudizio diventa il filtro attraverso il quale apprendiamo la realtà.
Anche Filip Borev, sul Guardian, ci ricorda che «quello della zingara ruba-bambini è un vecchio stereotipo razzista» e infatti ai tempi d’oro dell’antisemitismo si diceva anche degli ebrei. Forse il caso della bambina bionda trovata in Grecia può insegnarci che di pregiudizi ne abbiamo ancora molti, ed è il caso di abbandonarli.
una campagna internazionale contro i rom
Dunque anche Maria, la bimba bionda la foto della quale ha fatto il giro d’Europa, non era stata rapita. Semplicemente le persone che si occupavano di lei non erano degne di essere credute, in quanto Rom.
I suoi genitori biologici, Sasha e Atanas Roussev, Rom bulgari, erano troppo poveri per mantenerla e l’avevano affidata alla coppia residente in Grecia alla quale Maria era stata sottratta. Questi l’avevano detto fin dall’inizio ma non erano stati creduti. Troppo poveri i genitori di Maria, così poveri da non poter tenere neanche i figli. Ovvero sottoproletari il babbo e la mamma di quella bimba bionda che per i media razzisti -in quanto bionda- doveva essere una principessina sottratta a chissà quale castello di fate. Fosse stata bruna non se ne sarebbero mai curati, anche se le persone che la tenevano fossero state vichinghe.
Dunque una volta di più (ricordo sempre il libro della Caritas “la zingara rapitrice”) non c’è stato né sequestro né compravendita di bambini, solo troppo disagio, forme di vita troppo arcaiche e inaccettabili per noi che ci sentiamo così civili. Ma basta guardarsi indietro e solo due o tre generazioni fa l’Italia e l’Europa erano pieni di figli di genitori troppo poveri per tenerli, affidati a terzi quando andava bene, abbandonati negli altri casi. Ne abbiamo cancellato perfino la memoria e con questa l’umanità, la capacità di capire l’universo povertà.
Oggi non ci piace come vivono i poveri, non ci piacciono i proletari, ci fanno schifo i lumpen, non ci piacciono i Rom. Ma di questo si tratta perché questa è solo una storia di troppa povertà per loro e troppo razzismo e classismo. Per noi.
Un milione di posti di lavoro … ma per la ‘casta’!
UN MONDO DI PORTABORSE CONSULENTI, ADDETTI STAMPA, COLLABORATORI.DAI MINISTERI ALLE REGIONI FIN DENTRO I COMUNI UN PAESE NEL PAESE CHERISPONDE SOLO A CHI NOMINA.
così Salvatore Cannavò su ‘il Fatto quotidiano’ odierno:
Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva La politica e la scienza come professioni pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”.
Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356), nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.
La forza del sottobosco
I numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali, “portaborse”, ecc.”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.
La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro.
Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguitonessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.
I vari ministeri hano speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.
Fedeli al ministro
Nell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.
Da Il Fatto Quotidiano del 28/10/2013.
Aung San Suu Kyi: “ la mia rivoluzione della gentilezza”
“Aiutateci a essere liberi” : l’appello di Aung San Suu Kyi la Nobel che ha sconfitto la paura
La pasionaria birmana a Roma: gelati e l’abbraccio con Baggio. Il colloquio.
le riflessioni di Concita de Gregorio:
«Bello. È tutto rimasto intatto». Quarant’anni dopo Aung San Suu Kyi torna ad affacciarsi su Roma di notte. I Fori, il mercato di Traiano. Era una studentessa ad Oxford, allora. Una ragazza. Oggi è premio Nobel per la Pace, vent’anni quasi ininterrotti di arresti domiciliari, le vessazioni e gli attentati di un regime che ha cercato di eliminarla senza riuscire a farlo, senza poterlo fare. La vita che le è scivolata di mano mentre la teneva salda sulla rotta di un’idea, di un compito arrivato in dote dalla famiglia e dalla coscienza e dalla storia, il marito morto lontano senza che potesse salutarlo, i figli bambini e poi ragazzi via da lei altrove. La cupola di San Pietro, a sinistra il Gianicolo. «Mi ricordo i gelati, buonissimi, che compravo per strada. Sono ancora buoni i gelati? ». Sorride. Le dicono che per anni — durante la prigionia in Birmania — la sua foto, il suo volto è stato uno stendardo sulla facciata del Campidoglio. Sorride più forte, inclinando la testa adorna di rare roselline gialle. Significa grazie. Ma no, dice: «Non ho fatto sacrifici».
«NON ho mai pensato né penso a me stessa come ad una persona che si sia sacrificata. In verità non ho fatto niente di particolare, solo una cosa semplice: ho scelto una strada e l’ho seguita, tutto qui. Il coraggio non c’entra. È stata una decisione». Tranquillissima, elegante nella camicia di seta crema abbottonata fino al collo, diritta come se fosse intelaiata su fil di ferro, gentile. Solo — di unico — quella fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile, implacabile, inevitabile. Anche lei intatta, identica alle sue foto di dieci venti trent’anni fa divenute simboli ai quattro angoli del globo: una piccola donna fatta solo di muscoli e ossa, i capelli ancora corvini adornati di fiori che lei stessa intreccia ogni mattina, un’odissea trovare stamani proprio quelle roselline gialle e crema, a Roma. La gonna tradizionale lunga fino ai piedi, color caffè. La pelle tesa, lo sguardo fermo. Non mi sono sacrificata, ho scelto. La cena in suo onore, sulla terrazza del Campidoglio, è l’epilogo della celebrazione in cui il sindaco Ignazio Marino le consegna la cittadinanza onoraria che le fu attribuita da Rutelli, il premio Roma per la pace che le fu assegnato da Veltroni negli anni della sua carcerazione. Tutti presenti, gli ex sindaci, per sovrapprezzo anche Carraro. Tutti sugli scranni tranne Alemanno che non è venuto. C’è Emma Bonino che le è amica, la bacia, oggi la riceve alla Farnesina. C’è Baggio il calciatore che su indicazione di Aung San Suu Kyi ritirò i premi per lei quando lei non poteva e che la incontra ora per la prima volta, emozionatissimo, le da del tu, le consegna i video girati in questi anni e lei chiede, proprio come una fan: ma i suoi gol ci sono? Perché io vorrei vedere i suoi gol. Poi, sembra una ragazzina, si rivolge alle autorità — il rabbino alla sua sinistra, il ministro, i sindaci ed ex sindaci — e dice: quando mi avete assegnato la cittadinanza e il premio ho pensato a Baggio, perché nel mio paese Roberto Baggio è l’italiano più amato fra i giovani, tutti lo conoscono, e io non lo conoscevo ma mi son fatta raccontare da loro, dai giovani, chi fosse e perché lo amassero e così l’ho amato anche io. Si baciano, corre una lacrima, parlano del Dalai Lama. I giovani, le donne. «Il futuro del mio paese, ma forse di tutti i paesi, è soprattutto nelle mani delle donne e dei ragazzi». Parla veloce, dice che i diritti sono ancora molto lontani da venire, che certo la battaglia per i diritti delle donne «è fondamentale, perché le donne hanno nel corpo e nella memoria la forza delle cose, ma anche gli uomini, anche degli uomini abbiamo a cuore i diritti, e vogliamo che sappiano che quando avremo conquistato i nostri saremo gentili con loro, non devono avere paura di noi». Sorride ancora di quel sorriso antico dovuto e inflessibile. Dice che ogni gesto è importante, «ogni persona, ogni singolo gesto di ogni singola persona, anche quello minuscolo come un granello di sabbia». Adesso il suo lavoro è per cambiare la Costituzione, in Birmania. «La costituzione più difficile al mondo da cambiare, ci vorrà il voto anche dei militari, ma con la consapevolezza dell’opinione pubblica e con la pressione del mondo intero ce la faremo. Usate la vostra libertà che è immensa per aiutare la nostra, che è giovane e fragile». Poi dice una cosa enorme, che parla davvero a ciascuno di noi, noi che godiamo di una libertà immensa. Dice «lottare contro la paura e l’odio non basta, bisogna comprendere le ragioni di chi odia e di chi ha paura. Nessuno può giudicare nessun altro con superiorità. Nessuno può dubitare della dignità delle idee diverse dalla propria. Bisogna ascoltarle, capirle, discuterle. Bisogna lavorare insieme per una meta comune, non contro qualcuno per imporre una visione propria». A Ignazio Marino ha portato in dono una piccola scatola d’argento che custodisce incensi e oli profumati. Per strada, lungo la visita ai Fori, si ferma a respirare il profumo di tre rose. Si avvicina a Baggio per vedere dappresso la luce del suo orecchino, vorrebbe toccarlo. Al rabbino che cena con un suo diverso menù chiede di assaggiare dal piatto le pietanze. Le piccolissime cose, come un filo di acciaio invisibile teso nella storia e nel tempo. Al cospetto di Marco Aurelio un apprezzamento femminile, compiaciuto: «È più bello di Costantino, effettivamente». Ma è un attimo. Ancora nei Musei riprende la perorazione per la causa del policlinico di Rangoon, l’ospedale più importante del suo paese. «Vorrei che mandaste medici, giovani ricercatori, vorrei che ci aiutaste a farlo crescere». Marino, medico prima che sindaco, si impegna in pubblico. Qualcuno, sulla terrazza, le chiede cosa sia cambiato col Nobel. «Per me personalmente non saprei dirlo, né d’altra parte credo sia rilevante. Di me, della mia persona, cosa può importare? Cambia il senso che si dà alla libertà, al diritto di avere diritti, alla storia dei popoli». E di suo padre, oppositore al regime ucciso quando lei aveva due anni, sente di portare l’eredità? «Non sento il peso del passato, sento quello del futuro. Mio padre è mio padre, ma è del mio popolo che sento di essere figlia. Della mia gente. È per loro che sono qui a Roma oggi, cittadina romana cioè del mondo intero. Per chi verrà, per i neonati di Rangoon e delle mie campagne. Per chi ha la vita davanti, non per chi è già stato».
Da La Repubblica del 28/10/2013.
dopo il caso ‘bimba bionda’ c’è chi chiede il censimento dei campi rom
Dopo il caso della piccola Maria, la bambina bionda dagli occhi azzurri ritrovata durante un controllo di routine in un accampamento di nomadi presso la città di Farsala, in Grecia, Claudio Morganti, europarlamentare indipendente nonché vicepresidente dell’Intregruppo sulla disabilità, chiede che venga fatto «un censimento di tutti i campi rom europei e il test del DNA dei bimbi presenti.
L’Ue – dichiara Morganti – continua a ribadire che circa 10-12 milioni di rom sono bersaglio di pregiudizi, di discriminazioni e vengono esclusi dalla società. Tali posizioni dimostrano la lontananza dell’Unione Europea verso questa comunità, che sceglie volutamente di vivere da nomade e che non ha intenzione di integrarsi nella nostra società».
In particolare, l’europarlamentare si sofferma sui fondi stanziati dall’Unione Europea. «Tra il 2007 e il 2013 – sottolinea Morganti – sono stati stanziati per le comunità rom 127milioni. Non solo, ma l’Ue – prosegue – nel suo programma 20/20 obbliga di utilizzare parte del fondo sociale europeo e del fondo di sviluppo regionale per l’integrazione dei rom. Questi fondi – spiega – originariamente dovevano essere destinati esclusivamente alle persone disagiate e in difficoltà, come i disabili. Nulla di tutto questo è successo.
Non possiamo restare ancora in una Unione Europea che pensa prima ai rom, anziché ai nostri disabili e alla nostra gente. Vedere, inoltre, realizzare progetti per l’integrazione sociale e lavorativa dei rom, come quello successo a Lamezia Terme dove sono stati stanziati 1.7milioni dall’Ue e 1.2milioni dall’Italia. Tutto questo è uno schiaffo verso quei sei milioni di persone che in Italia non hanno un lavoro oppure verso quei pensionati che, a causa della loro esigua pensione, sono costretti a chiedere carità o a rovistare nei cassonetti. La verità – termina – è che il nostro Governo rimane sordo davanti ai problemi reali della nostra gente e delle persone con disabilità».
in tilt i tradizionalisti a proposito di papa Francesco
La “conversione” dei tradizionalisti a proposito della figura di papa Francesco
di Sergio Paronetto* in “Adista” – Segni Nuovi -n. 32 del 2 novembre 2013
Il Foglio di Giuliano Ferrara, già organo degli “atei devoti”, diventato ora l’avanguardia del movimento anti-Francesco, si sta muovendo in tre direzioni: dare spazio agli attacchi frontali del mondo cattolico più reazionario e anticonciliare verso un papa ritenuto traditore della dottrina cattolica; raccogliere ogni forma di contrarierà, compresa quella giudicata “ultra liberal”, un tempo considerata cattiva maestra ma ora utile per evidenziare le contraddizioni dell’attuale pontificato; minimizzare il “disagio”, come scrive Massimo Introvigne, e mediare per evitare i rischi di uno scisma. Lo scopo complessivo è quello di mettere in risalto l’inaffidabilità di un papa pericoloso per l’unità della Chiesa. Il giornale più papista diventa apertamente antipapista. Chi ha fatto per anni apologia (ideologica) di papa Ratzinger a sostegno di Berlusconi, di Bush e della superiorità dell’“Occidente”, ora denuncia papa Bergoglio avvertito come scomodo innovatore troppo francescano o, semplicemente, troppo cristiano (la seria riflessione di Andrea Monda del 9 ottobre, collocata all’interno, appare un’ardita eccezione, vista «la teologia da strapazzo» che il giornale, come osserva Eugenio Scalfari su la Repubblica del 13 ottobre, sta sostenendo). Il 9 ottobre viene concessa grande evidenza al lungo intervento, “Questo Papa non ci piace”, firmato da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, presentati come «espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico». Il loro ragionamento attacca, in ordine: l’«imponente esibizione di povertà» nella visita ad Assisi; il dialogo con Scalfari e con i non credenti fondato sulla centralità della coscienza; la rottura di tutta la tradizione ecclesiastica; la dichiarazione della irreversibilità del Concilio; la vicinanza all’amico gesuita Carlo Maria Martini; la deformazione del Vangelo sottomesso al «mondo»; le espressioni «io credo in Dio, non in un Dio cattolico», «il proselitismo è una solenne sciocchezza», «la Chiesa ospedale da campo», «i poveri sono la carne di Cristo»; l’insistenza sulla misericordia e sul perdono. Inutile parlare di contesto da interpretare, dicono: «L’errore, quando c’è, si riconosce ad occhio nudo», «i sei mesi di papa Francesco hanno cambiato un’epoca». Sono stati «un campionario di relativismo». Costituiscono «un’inversione di rotta». Siamo al «rovesciamento del passato». Il papa si è fatto complice del gioco mediatico tendente a esaltare episodi marginali ma cari alle folle. Viene scomodato anche Mc Luhan che nel 1969 ha definito i mass media «facsimile del Corpo mistico, assordante manifestazione dell’anticristo». In estrema sintesi, papa Francesco è gesuitico, sconcertante, inquietante, relativista, modernista, permissivo, amorale, populista, pauperista, esibizionista, seminatore di dubbi, anticristiano. Ancora più dura la posizione di Mattia Rossi (Il Foglio, 11 ottobre) intitolata “Francesco sta fondando una nuova religione opposta al Magistero cattolico”. Il papa starebbe dissolvendo la dottrina cattolica attraverso un «erosivo magistero liquido», un «antropocentrismo spinto» (più grave di quello espresso nel n. 22 della Gaudium et spes), sentimenti umanitaristi che «rasentano fortemente l’eresia» e negano il valore redentivo dell’incarnazione. Le sue parole, con il loro «stillicidio disgregante», si basano su «un inganno molto sottile e intollerabile per un cattolico». Da parte mia, tre opinioni. Osservo, anzitutto, che i tradizionalisti (che preferisco chiamare reazionari perché la tradizione è una cosa seria), da sempre cultori del primato assoluto di Pietro e infallibilisti a tutto campo, diventano subito relativisti rispetto a gesti e parole che non condividono e che valutano come pareri slegati da alcun magistero. Vedo, poi, che denunciano la presunta falsa umiltà del papa proponendosi con molta presunzione come possessori della verità cattolica, come inquisitori di un papa ritenuto deviato. Noto, in terzo luogo, un’altra contraddizione: proprio chi intende la verità in modo dottrinario e immutabile, a sostegno di una politica reazionaria e di un modello di sviluppo ritenuto altrettanto immutabile o naturale, dominato dal “dio denaro”, predica una fede alternativa al mondo cattivo-peccatore. In questa ideologia sadomasochista, tipica di “un cristianismo senza Cristo”, sta forse il nucleo dell’attacco al papa. Probabilmente, ciò che dà fastidio è la denuncia del mondo ingiusto, dell’«idolatria del denaro», della «cultura dello scarto», della follia delle guerre. Ciò che disturba è la centralità di Cristo, l’invito alla spoliazione, «l’amore ai poveri e l’imitazione di Cristo povero». Un’esagerazione demagogica per i tradizionalisti. Un’ardua sfida per tutti, anche per i “progressisti”, come osserva Vito Mancuso nell’intervento sulla necessità di una fondazione etica del bene e della giustizia grazie all’esercizio di un “pensiero femminile” (la Repubblica, 4 ottobre 2013). Certo, le tematiche sollevate sono difficili, esposte alla verifica di un’avventura comune, ma una cosa è la critica argomentata, altra cosa è l’ipercritica pregiudiziale e ideologizzata. È sempre improprio definire il papa secondo categorie fisse di conservazione, tradizione, progresso, riforma, rottura, rivoluzione o altro. Non è nemmeno necessario. Siamo dentro un evento da curare e accompagnare con lucida attiva responsabilità. Siamo forse davanti a un’innovazione basata sull’interconnessione nonviolenta tra mezzi e fine. Il cambiamento di stile, infatti, è parte integrante della verità che è sempre “relazionale”. I cattolici sono convocati a una rigenerazione, a un rinnovato cammino di fede. Ne sono conferma la grande veglia per la pace del 7 settembre, iniziata con la “benedizione originaria” sul creato e sull’umanità («Dio vide che era cosa buona») e il progetto di spoliazione presentato ad Assisi con le parole di Matteo 11,25: «Ti rendo lode, Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli». Ha inizio la rivoluzione dei piccoli? In ogni caso, le Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo (“il protocollo con il quale saremo giudicati”) costituiscono per il papa “il piano d’azione” dei credenti (discorso ai giovani argentini in Brasile). I detrattori più aspri di papa Francesco mi fanno venire in mente l’auspicio di Tonino Bello, rivolto in forma orante a Oscar Romero, a liberare il mondo da tutti «gli aspiranti al ruolo di Dio». * Vicepresidente nazionale di Pax Christi
tragedia lavoro
Allarme lavoro:
6 milioni a casa disoccupati e sfiduciati
Le persone potenzialmente impiegabili nel processo produttivo sono oltre 6 milioni, se ai 3,07 milioni di disoccupati si sommano i 2,99 milioni di persone che non cercano ma sono disponibili a lavorare (gli scoraggiati sono tra questi), oppure cercano lavoro ma non sono subito disponibili. E’ questa la fotografia scattata dall’Istat nelle tabelle sul II trimestre 2013.
Nel secondo trimestre 2013 – secondo la tabella sulle ‘forze lavoro potenziali’ – c’erano 2.899.000 persone tra i 15 e i 74 anni che pur non cercando attivamente lavoro sarebbero state disponibili a lavorare (con una percentuale dell’11,4% più che tripla rispetto alla media europea pari al 3,6% nel secondo trimestre 2013). A queste si aggiungono circa 99.000 persone che pur cercando non erano disponibili immediatamente a lavorare.
Nel primo gruppo, ovvero gli inattivi che non cercano pur essendo disponibili a lavorare, ci sono quasi 1,3 milioni di persone ‘scoraggiate’, ovvero che non si sono attivate nella ricerca di un lavoro pensando di non poter trovare impiego.
Trovare un lavoro resta una chimera soprattutto al Sud e tra i giovani: su 3.075.000 disoccupati segnati nel secondo trimestre 2013 quasi la metà sono al Sud (1.458.000) mentre oltre la metà sono giovani (1.538.000 tra i 15 e i 34 anni, 935.000 se si considera la fascia 25-34 anni). Se si guarda alle forze lavoro potenziali il Sud fa la parte del leone con 1.888.000 persone sui 2.998.000 inattivi potenzialmente occupabili.
Se si guarda alla fascia dei più giovani sono potenzialmente occupabili nel complesso (ma inattivi) 538.000 persone tra i 15 e i 24 anni e 720.000 tra i 25 e i 34 anni con una grandissima prevalenza di coloro che non cercano pur essendo disponibili a lavorare. L’Istat infine individua nell’area della ”sotto-occupazione” nel secondo trimestre 2013 circa 650.000 persone mentre oltre 2,5 milioni di persone sono occupati con un ‘part time involontario’, in crescita di oltre 200.000 unita’ rispetto allo stesso periodo del 2012.