convegno: ‘mia madre era rom’

 

Presentato il rapporto “Mia madre era rom” sulle adozioni dei minori rom

Alcuni partecipanti del convegno "Mia madre era rom"

alcuni partecipanti del convegno “Mia madre era rom”

 

Le cronache degli ultimi giorni hanno riportato prepotentemente alla ribalta lo stereotipo infondato dei “rom che rubano i bambini”, generando un clima di isteria collettiva nei confronti dell’intera comunità rom. È in atto però un fenomeno inverso, rimasto finora ben lontano dall’enfasi mediatica: un flusso sistematico e istituzionalizzato di minori rom che vengono “strappati” alle proprie famiglie e affidati in adozione alle famiglie non rom.

Martedì 29 ottobre, presso la sede della Regione Lazio, a Roma, l’Associazione 21 luglio ha presentato il rapporto “Mia madre era rom”, che analizza il fenomeno delle adozioni dei minori rom nel Lazio e, in particolare, nella città di Roma. Qui, infatti, le comunità rom, con i loro figli, vivono in gravi condizioni di emergenza abitativa che sono la conseguenza delle politiche orientate all’esclusione sociale messe in atto dagli amministratori locali.

Alla presentazione del rapporto sono intervenuti l’Assessore alle Politiche Sociali della Regione Lazio Rita Visini, il Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma Melita Cavallo, il Vicepresidente dell’Ordine degli Assistenti Sociali del Lazio Edoardo Trulli e il mediatore sociale Vito Savasta, oltre alla ricercatrice dell’Associazione 21 luglio, e autrice della ricerca, Angela Tullio Cataldo.

Il rapporto

Dai dati della ricerca, emerge che un minore rom, rispetto a un suo coetaneo non rom, ha 60 probabilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni e circa 50 probabilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità. Tali numeri si traducono nel dato secondo il quale un bambino rom ha 40 probabilità in più di essere dichiarato adottabile rispetto a un bambino non rom.

Il rapporto, realizzato in collaborazione con la Facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona, ha analizzato la presenza dei minori rom nelle storie che il Tribunale per i Minorenni di Roma ha affrontato dal 2006 al 2012. In questo arco di tempo, è stato segnalato al Tribunale per i Minorenni il 6% della popolazione rom minorenne, ovvero 1 minore rom su 17. La percentuale si abbassa drasticamente, allo 0,1%, per quanto riguarda i minori non rom, nel cui caso è stato oggetto di segnalazione 1 minore su 1000.

L’indagine ha poi portato alla luce come nello stesso periodo sia stata aperta una procedura di adottabilità per 1 minore rom su 20 e per 1 minore non rom su 1000. Di conseguenza, per 1 minore rom su 33 (il 3,1% della popolazione minorenne rom nel Lazio) è stata emessa una sentenza in via definitiva che ha dichiarato il bambino adottabile. Di contro, i minori non rom dichiarati adottabili nello stesso arco di tempo nel Lazio sono stati lo 0,08% della popolazione minorenne non rom, ovvero 1 minore su 1250.

Fondamentale, nell’iter che porta alle adozioni, è il ruolo di giudici, Pubblici Ministeri e assistenti sociali, i quali però, secondo quanto emerge dalle interviste condotte ai fini della ricerca, sembrano avere una conoscenza estremamente lacunosa e un forte pregiudizio nei confronti dei rom, per cui il degrado abitativo nel quale vive l’infanzia rom viene imputato alla stessa cultura rom e alla volontà dei genitori. Raramente, infatti, si riconosce l’impatto delle politiche sociali sull’indigenza e sul degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom.

La nota dell’Associazione 21 luglio

«Segregando i rom su base etnica nei cosiddetti “campi nomadi”, come da anni avviene a Roma e nel Lazio, le istituzioni locali prima condannano le comunità rom a vivere in situazioni di totale degrado e all’esclusione sociale, lavorativa e abitativa. E poi sottraggono loro i propri figli per proteggerli dal rischio di vivere in quel contesto inadeguato alla fruizione dei diritti dell’infanzia che gli stessi amministratori hanno creato», afferma l’Associazione 21 luglio.

In quest’ottica, allontanare il bambino rom dai propri genitori e affidarlo in adozione a una famiglia non rom diventano gli strumenti utilizzati dalle istituzioni per ripristinare l’uguaglianza dei diritti dell’infanzia rom rispetto a quella non rom. Un’uguaglianza che dovrebbe essere invece creata dalle politiche sociali e che non dovrebbe ledere il diritto del minore a essere cresciuto dai propri genitori.

«Rilanciando con veemenza e senza alcun accertamento dei fatti le notizie rivelatesi poi non vere delle due bimbe bionde “rapite” da rom in Grecia e in Irlanda, i media, in questi giorni, hanno irresponsabilmente riportato in auge lo stereotipo dei “rom che rubano i bambini”.

Non soltanto questo stereotipo, come dimostrato da uno studio del 2008 dell’Università di Verona intitolato “La zingara rapitrice” è del tutto infondato, ma, al contrario, sono proprio i minori rom a essere vittime di un processo di allontanamento sistematico e istituzionalizzato dalle proprie famiglie di appartenenza», conclude l’Associazione 21 luglio.

Le reazioni

Melita Cavallo, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma, si è mostrata molto critica nei confronti delle conclusioni a cui giunge il rapporto dell’Associazione 21 luglio: «I bimbi rom non possono vivere nelle condizioni nelle quali sono costretti oggigiorno. Per questo, sottrarli a certi contesti diventa un modo per ripristinare e tutelare i diritti dell’infanzia rom».

Dall’Assessore Visini è giunto invece l’impegno della Regione Lazio a modificare la legge regionale che istituisce i “campi nomadi”: «I campi sono dei ghetti che favoriscono la creazione di stereotipi e pregiudizi contro i rom e ne rendono impossibile l’inclusione sociale. Per questo devono essere aboliti. Come Regione, ci impegneremo anche a convocare un tavolo di concertazione sui rom al quale inviteremo le associazioni, tra cui la 21 luglio».




p. Maggi commenta il vangelo della domenica

p. Maggi

 

p. Maggi ci aiuta alla migliore comprensione del vangelo della domenica 3 novembre, 31a del tempo ordinario:

IL FIGLIO DELL’UOMO ERA VENUTO A CERCARE E A SALVARE CIO’ CHE ERA PERDUTO 

Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Poco prima del vangelo di questa domenica, Luca racconta l’episodio dell’uomo ricco, lo definisce un notabile, un capo, che si avvicinò a Gesù per chiedergli che doveva fare per entrare nella vita eterna. Gesù gli rispose ricordandogli i comandamenti che si riferivano al comportamento nei confronti del prossimo, e, considerato che costui aveva tutto osservato fin dalla sua giovinezza – per cui la vita eterna era già assicurata – Gesù lo invitò a preoccuparsi di questo mondo e di questa vita, seguendolo, vendendo tutto quello che aveva per darlo ai poveri.
Quell’uomo era un perfetto osservante della legge, come del resto corrispondeva all’essere notabile, un capo, ma non accetta l’invito di Gesù. Il suo interesse si centrava sulla vita eterna, sull’aldilà, mentre Gesù lo voleva invitare a collaborare alla trasformazione di questa vita, contribuendo alla felicità di tutti gli uomini.
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Ma il notabile, come del resto tutti i ricchi, desidera che niente cambi, per  mantenere la sua posizione di privilegio e di prestigio. Fu in quell’occasione che Gesù disse che la ricchezza era un ostacolo praticamente insormontabile per entrare nel Regno di Dio; la famosa frase di Gesù “E’ più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel Regno di Dio”.
Ebbene, nel vangelo di questa domenica, invece, Zaccheo, anche lui è ricco. In quanto pubblicano non poteva certo vantarsi dicendo di aver osservato tutti i comandamenti dalla sua gioventù. Come lui stesso riconosce era un ladro che aveva estorto il denaro alla gente.
Zaccheo non è interessato alla vita eterna e Gesù non gli chiede di vendere quello che ha per darlo ai poveri e seguirlo. E’ lui, è Zaccheo che lo decide.
Accoglie Gesù nella sua casa, nella sua vita, e tutto cambia.
Da ricco si ritrova povero; dice: “Do la metà di quello che possiedo ai poveri e se ho rubato a qualcuno restituisco quattro volte tanto”, quindi lui che era ricco si ritrova a non esserlo più, ma finalmente è felice.
Scrive l’evangelista che fa tutto questo pieno di gioia. Il pubblicano ha rotto con l’ingiustizia che scandiva con la sua vita. E Gesù proclama: “Oggi”, quindi non è una promessa per il futuro, “per questa casa è venuta la salvezza”.

L’affermazione di Gesù è importante perché noi tendiamo sempre a proiettare la salvezza di cui Gesù parla nell’aldilà. La salvezza è già presente, una salvezza che si riferisce a questa vita, non all’aldilà, una salvezza che però agli occhi dei ricchi del mondo è una rovina.
Il notabile, alle parole di Gesù, l’evangelista scrive che divenne Assai triste perché era molto ricco. Il ricco notabile era interessato all’aldilà, proiettava la sua salvezza in un mondo futuro; Zaccheo, che ha rotto con l’ingiustizia, ha sperimentato la salvezza in questo mondo, nella sua vita terrena. La salvezza per Gesù non è garantirsi un posto nell’aldilà, anche il notabile ce l’aveva assicurato con l’osservanza dei comandamenti, ma liberarsi da tutto quello che impedisce in questa vita di essere pienamente liberi per collaborare con il Cristo alla realizzazione del Regno di Dio.
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ancora si insiste sul pregiudizio del ‘rom ruba bambini’

bambino rom
è grave che le testate migliori, quelle che paiono le più ‘sensibili’ ai problemi dei più deboli ed esposti all’eclissi sociale e sensibili ai disagi vissuti dalle ‘minoranze’ più pregiudizialmente denigrate, continuino, come rai news 24, a cavalcare in chiave di audiens il pregiudizio del ‘rom ruba bambini’: giustissimo il grido di sdegno e di protesta di Agostino Rota Martir (facciamo in modo che questo sdegno arrivi a rai news 24):
Rai News 24 non demorde: i Rom rubano i bambini, questa è la loro convinzione e questo è quello che vuol far credere. Questa mattina manda in onda un servizio sulla tratta dei minori, sottratti ai loro genitori da un paese estero, anche con l’uso della forza. L’organizzazione coinvolta in questo brutale traffico, così viene detto nel servizio è ad opera di Ukraini, Italiani, Norvegesi,Tunisini..

Non si parla di Rom, ma le immagini trasmesse durante il servizio, mostrano quelle dei campi Rom, con l’intento di far credere e sostenere la solita leggenda metropolitana dei Rom rapitori di bambini e mantenere alta nell’opinione pubblica l’intolleranza verso i Rom. Eppure in questi giorni, in varie trasmissioni abbiamo avuto modo di sentire che la notizia dei rapimenti di bambini da parte dei Rom non è suffragata da alcuna prova. E’ la stessa Polizia di Stato ad affermarlo. Ma Rai News non ne è convinta e seguita a battere su questo tasto.
 
Rai News si vergogni e ripari a questa offesa!
Qualcuno avvisi Rai News che è stata smentita la notizia secondo la quale la bimba rom bionda trovata in un campo in Grecia..non è stata rapita, bensì consegnata gratuitamente dai genitori legittimi ad una coppia rom Greca.
 
Facciamo sentire il nostro sdegno per la pessima e fuordeviante informazione targata Rai.
 
Ciao Ago 
 
 



lo stereotipo: “gli zingari rubano i bambini”

bambino rom

“Gli zingari rubano i bambini”: uno stereotipo non suffragato da niente

 

Il vecchio stereotipo che chiunque, almeno una volta, avrà sentito dire nella propria infanzia, è tornato di moda negli ultimi giorni, dopo che i media, con grande enfasi, hanno riportato le notizie delle due bimbe bionde “rapite” dai rom in Grecia e in Irlanda. Le news si sono poi rivelate entrambe prive di fondamento, ma titoli di giornale e servizi in primo piano nei telegiornali avevano già contribuito ad alimentare un clima di isteria collettiva nei confronti dell’intera comunità rom.
Per l’Associazione 21 luglio, organizzazione impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinti in Italia, non soltanto questo stereotipo non è supportato da alcun dato scientifico. Ma, anzi, è in atto un fenomeno che va esattamente nella direzione contraria: ad essere “rapiti” dalle proprie famiglie sono proprio i bambini rom, attraverso le segnalazioni al Tribunale per i Minorenni e le conseguenti adozioni da parte delle famiglie non rom.

Adozioni rom nel Lazio

In un rapporto intitolato Mia madre era rom, l’Associazione 21 luglio ha analizzato il fenomeno delle adozioni dei minori rom a Roma e nel Lazio, portando alla luce “un vero e proprio flusso sistematico e istituzionalizzato di minori rom che vengono strappati ai propri genitori in virtù delle condizioni in cui i bambini vivono nei campi”. La ricerca si sofferma sul Lazio perché è in questa regione che è concentrato il più alto tasso di famiglie rom in condizioni di grave emergenza abitativa che, secondo gli autori del rapporto, sono però “la conseguenza delle politiche orientate all’esclusione sociale, messe in atto dagli amministratori locali ormai da molti anni”.

I dati.

Dai dati della ricerca emerge che un minore rom, rispetto ad un suo coetaneo non rom, ha 60 probabilità in più di essere segnalato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni e 50 probabilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità. Di conseguenza, è il dato più emblematico, un bambino rom ha 40 probabilità in più di essere adottato rispetto a un bambino non rom. Il rapporto, che ha preso in considerazione i fascicoli relativi a minori rom affrontati dal Tribunale per i Minorenni di Roma tra il 2006 e il 2012, ha messo in evidenza che in questo arco di tempo è stato segnalato allo stesso tribunale 1 minore rom su 17, pari al 6% del totale dei minori rom nel Lazio. Una percentuale che cade a picco invece nel caso di minori non rom: 0,1%, pari a 1 minore su 1000. È stata poi aperta una procedura di adottabilità per 1 minore rom su 20 e per 1 minore non rom su 1000, mentre 1 minore rom su 33 (pari al 3,1% della popolazione minorenne rom nel Lazio) è stato dichiarato adottabile, contro lo 0,08% dei minori non rom (1 su 1250).

La responsabilità delle istituzioni.

“Segregando i rom nei cosiddetti campi nomadi, le istituzioni locali prima condannano le comunità rom a vivere nel degrado e all’esclusione sociale, lavorativa e abitativa. E poi sottraggono loro i propri figli per proteggerli dal rischio di vivere in quel contesto inadeguato alla fruizione dei diritti dell’infanzia che gli stessi amministratori hanno creato”, afferma l’Associazione 21 luglio, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello nazionale con raccolta firme on line per chiedere a otto Presidenti di Regione di abrogare le leggi regionali che istituiscono i campi rom.

Reazioni critiche.

Critica nei confronti del rapporto Mia madre era rom si è detta Melita Cavallo, Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma: “I bambini rom non possono vivere nelle condizioni in cui vivono oggi. Il Tribunale ha il dovere di intervenire e allontanarli da quei contesti di degrado  vuol dire garantire i diritti dell’infanzia, in particolare il diritto alla salute”.

L’impegno della Regione Lazio.

Per l’assessore alle Politiche sociali della Regione Lazio Rita Visini, invece, è vergognoso che la regione che ha al suo interno la capitale del Paese permetta ancora oggi l’esistenza dei campi nomadi. “Sono dei veri e propri ghetti, che favoriscono la diffusione di pregiudizi contro i rom e ne compromettono l’inclusione sociale. I ghetti nomadi vanno aboliti e in tal senso ci impegneremo a cambiare l’attuale legge regionale e a renderla capace di mettere al centro il diritto una vita dignitosa  di queste comunità”.




halloween davvero fa così tanta paura?

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un esercito intero ‘cattolico’ da qualche anno spara cannonate contro una festa innocente: parrocchie, siti, social network, perfino la ‘progressista’ Famiglia cristiana credono di intravedere in questa festa il pericolo numero uno per il cristianesimo; p. Amorth (ma non solo!) ci vede la presenza di Satana! Merita davvero una tale crociata?

Halloween? Una festa innocente che non ha bisogno di crociate

di Fulvio De Giorgi*

Da qualche anno anche in Italia si è diffusa nelle scuole dell’infanzia e primarie (e in molte famiglie) la festa per bambini, chiamata Halloween, tipica del mondo anglosassone e in particolare degli USA. C’è chi la contrasta dicendo che è una festa pagana e non cristiana. Cosa pensare? Le origini in realtà sono cristiane. Il nome deriva dall’inglese All-Hallows-Eve: cioè Vigilia-di- Ognissanti. Si comprende tenendo conto che la festa di Tutti i Santi (1° novembre) è strettamente unita alla Commemorazione dei defunti o Giorno dei Morti (2 novembre). In effetti, la stessa zucca svuotata e intagliata rassomiglia ad un cranio e la sua illuminazione ricorda le anime del Purgatorio. Anche nel folklore italiano (per esempio in Sicilia), nel giorno dei Morti le Anime Sante portavano regali ai bambini: in genere frutti o dolcetti. E, in molte parti d’Italia, si fanno dolcetti tipici del giorno dei Morti; in alcuni luoghi ci sono i biscotti ‘ossa dei morti’. Certo più recentemente queste feste sono state laicizzate e, se si vuole, paganizzate. Ma anche l’Albero di Natale ha spesso sostituito il Presepe, San Nicola è diventato Santa Claus-Babbo Natale (vestito di rosso dalla pubblicità della Coca Cola e poi rimasto per sempre così) e l’Epifania si è trasformata in Pifanìa, Befanìa, Befana (una sorta di strega buona). E nessuno si è scandalizzato. O meglio, nel passato ci sono state resistenze tra i protestanti puritani verso Father Christmas (ritenuto un’usanza cattolica). E i Testimoni di Geova rifiutano ogni forma di allegorizzazione più o meno folklorica. Sul piano educativo ci dobbiamo preoccupare, soprattutto, che sia un momento di vera e sana letizia per i ragazzi: un’innocente mascherata, senza concessioni consumistico-pubblicitarie. Sul piano cristiano e cattolico, quello che conta è ricordarci che Santi dobbiamo essere tutti: vivere santamente, secondo il Vangelo; rispettare i bambini e voler loro bene; andare a Messa con tutta la famiglia il 1° novembre (stranamente spesso chi rifiuta Halloween, perché estraneo alle nostre tradizioni cattoliche, poi non va a Messa per Ognissanti). Fare crociate ideologiche contro una innocente festosità infantile è, di fatto, un’altra forma di paganesimo, cioè una riduzione della fede a ideologia mondana: questo sì è cristianamente diseducativo!

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*Fulvio De Giorgi è professore straordinario di Storia della pedagogia e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Autore di numerose pubblicazioni, ha approfondito in particolare la correlazione tra storia della cultura, storia dell’educazione e storia della spiritualità in età moderna e contemporanea. Fa parte del Comitato di Redazione dell’Editrice La Scuola ed è condirettore degli “ Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”




‘segretario di stato’ o ‘segretario papale’? : continua la ‘rivoluzione’ di papa Francesco

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La rivoluzione di Bergoglio: il segretario non è più di Stato ma «papale»

di Gian Guido Vecchi
in “Corriere della Sera” del 30 ottobre 2013

La Segreteria di Stato vaticana è destinata a cambiare nome e diventare «Segreteria papale». E «non è una questione nominalistica», chiarisce il vescovo Marcello Semeraro, segretario del Consiglio di otto cardinali che Francesco ha nominato per riformare la Curia. Ci sono dettagli apparenti che dicono l’essenziale: tanto più mentre il Papa si prepara a convocare il 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, il suo primo concistoro per la nomina di nuovi cardinali e riunire la vigilia i porporati del mondo per discutere a porte chiuse la riforma in corso. La denominazione, di per sé, esisteva già: nella Regimini Ecclesiae Universae, con la quale Paolo VI compì la grande riforma della Curia del 1967, si parlava di Secretaria Status seu Papalis, «Segreteria di Stato o Papale», ma l’aggettivo non era in uso. Ora passa in primo piano, del nuovo «probabile» nome ha parlato il cardinale cileno Francisco Errázuriz, uno dei «G8», alla rivista Vida Nueva, e monsignor Semeraro spiega: «Oggi il termine “Segretario di Stato” può essere frainteso, ha una connotazione “politica”. Si tratta di mettere sempre più in evidenza la dimensione ecclesiale del Segretario, il suo ruolo di supporto alle funzioni del Papa come vescovo di Roma e capo della Chiesa universale. E poi ci sono formulazioni antiche che non rispettano più la realtà…». Il nome «Segretario di Stato» risale insomma ai secoli del potere temporale. Del resto lo aveva fatto capire padre Lombardi: «La parola “Stato” non deve creare equivoci. Di fatto è la Segreteria del Papa per il suo servizio di governo della Chiesa universale». Parlare di «Segreteria papale» è più consono alla nuova figura che si profila. Il Segretario di Stato come lo si è conosciuto dalla riforma di Montini è andato in pensione assieme al cardinale Bertone. Con il successore Pietro Parolin, grande diplomatico, resterà una figura centrale ma più proiettata alla dimensione internazionale della Chiesa e meno egemone in Vaticano, non più ripiegata sui problemi di una Curia destinata a cambiare radicalmente e divenire più agile e al «servizio» di una Chiesa meno «centralista». Si pensa a un Moderator Curiae o «coordinatore» curiale. Si lavora a sfoltire la pletora di pontifici Consigli e rivedere le Congregazioni: il cardinale Oscar Maradiaga, che guida il «G8», ha spiegato che ci sarà una «Congregazione per i laici» («Ce n’è una per i vescovi, una per i sacerdoti e un’altra per i religiosi, e non ne esiste una per i più numerosi!»), che a questo punto potrebbe riunire le funzioni di diversi Consigli. Ma ci vorrà tempo, anche oltre la seconda riunione del «G8» a dicembre e la terza di febbraio. Di li a poco, nel concistoro, il Papa potrebbe creare almeno 14 nuovi cardinali (gli «elettori» saranno 106, il limite non vincolante di Paolo VI è 120). In Curia ci sono almeno tre candidati: oltre a Parolin, il prefetto dell’ex Sant’Uffizio Gherard Müller e quello del Clero, Beniamino Stella. In Italia le diocesi «cardinalizie» di Torino e Venezia. In generale, nella Chiesa sempre meno eurocentrica, si attendono molti porporati fuori dal Vecchio Continente.




un viaggio tra i nuovi poveri

Povertà in Italia

C. Verdelli ne ‘la Repubblica’ odierna, in “l’ultimo viaggio della povertà” si impegna in un viaggio tra i nuovi poveri:

Con la cravatta alla Caritas

Imprenditori travolti dal crac, impiegati rimasti senza lavoro per la crisi: viaggio tra i nuovi poveri che affollano mense e dormitori.

 

Rotolato grande e grosso com’era dal posto fisso alla strada, va in giro in scarpe da tennis, come il “barbun” di Jannacci. Come tanti e tante italiane che la crisi sta sbalzando fuori in massa dal treno della vita normale.

Rotolato grande e grosso com’era dal posto fisso alla strada, ci ha lasciato 30 chili, la dignità e anche il portafoglio, rubato una notte nella stazione centrale di Milano, binario laterale. Dentro ci teneva la foto del figlio. «È uguale a me, sputato, peccato non poterglielo far vedere». In compenso, ha conservato il biglietto da visita: Davide Prestifilippo, agente di commercio, salumi e formaggi (in piccolo, anche il numero di partita Iva e cellulare). Va in giro in scarpe da tennis, come il “barbun” di Jannacci cinquant’anni prima (“barbun” da barba lunga, ultimo gradino del vivere civile). Scarp de tennis come tanti e tante italiane che la crisi sta sbalzando fuori in massa dal treno della vita normale. La porta del vagone di Davide si è spalancata di schianto il 26 settembre 2011, ore 7.30, via sms: la ditta per cui andava in giro a vendere mozzarelle per la pizza gli annunciava la chiusura. Da allora, infiniti tentativi di risalire, zero risultati. Perito industriale, 44 anni, dopo essere finito nel tritacarne Parmalat («Sono anch’io una vittima di Tanzi») e incappato nel fallimento di un paio di cooperative, Davide ha lasciato Vercelli per Milano, fuori di casa, niente più famiglia, uno scivolo rapido e stordente in fondo al quale c’è il marciapiede. «Non vado nei dormitori perché ho vergogna, non chiedo l’elemosina per lo stesso motivo. Da un po’ frequento una mensa dei frati, ho accettato di farmi fare il tesserino. Si passa uno a uno dai tornelli, sembrano quelli dello stadio. Sa che ero a Madrid a vedere l’Inter del triplete? E adesso qui a sgrinare, a sbattersi per trovare due lire, scusi, cinque euro, e un lavoro, sì, ciao».

«L’altro giorno, al tavolo con me, c’era un tizio distinto, pettinato. Giacca e cravatta. A un certo punto, prende l’Iphone 4 dalla tasca e se lo mette accanto al piatto. Allora gli ho detto: amico, non so cosa ti è capitato per essere qui, ma l’Iphone 4 mettilo via. È uno schiaffopernoieunrischioperte». Povera Italia che improvvisamente si scopre povera. Ai 4,8 milioni dipersonechesecondol’Istat non ce la fanno più (8 per cento della popolazione, il doppio rispetto a 5 anni fa), vanno aggiunti altri 9 milioni e mezzo che tirano a campare con meno di 506 euro al mese. Il totale fa spavento, 14 milioni e rotti. E lo spavento cresce con i 6 milioni di analfabeti e un tasso di abbandono scolastico tra i più alti dell’Unione europea. Come mai una simile bomba atomicasocialenonoccupailcentro del dibattito politico? Dice da tempo, inascoltato, Luigi Ciotti, preteeprofetadegliultimi,un’esistenza spesa a riscattarli, rincuorarli: «Dobbiamo rendere illegale la povertà». Basterebbe anche cominciare a riconoscerla, guardarla in faccia. Guardare oltre lo spread, indicatore nobile ma parziale. Guardare dietro la classifica, pubblicata proprio da Repubblica, che da quinta potenza industriale del mondo (anni Ottanta) ci ha visti scivolare al nono posto, e molto presto ancora più giù, fuori dai primi dieci, anche dodici. Milano, la città col più alto reddito d’Italia,èunbuonpuntodiosservazione per misurare la nostra febbre da miseria. Al Centro Aiuto di via Ferrante Aporti, la prima boa per chi sta per affondare, bussano ormai in 13mila, 3mila in più di due anni fa. Il 30 per cento sono italiani, spiega Silvia Fiore che lo coordina. E la curva è destinata a crescere. L’invernorenderàancorapeggiori le cose, e la vita di gente come il signor Davide, ex agente per salumi e formaggi, uno dei 13mila. La povertà si misura (anche) in metri. E si sta allungando. Due file mute e ordinate compaiono ogni mattino, domenica esclusa, di fronte e alle spalle del centro di Milano. Una sta in via Concordia, ma chi la frequenta dice “Piazza Tricolore” perché è la fermata annunciata dalla voce registrata dei tram 9 e 23 che passano di lì: piazza san Babila è a due passi. L’altra, via Canova, è la porta d’ingresso opposta, appena dietro Cadorna e il Castello. Il cuore ricco e famoso di Milano ha le arterie che si stanno vistosamente ingrossando di miseria: 6mila pasti al giorno nelle mense con la fila. E si concentrano non a caso qui i figli inattesi della grande depressione, come sulla poppadelTitanicdopol’iceberg:il tentativo estremo di salvarsi, di ritrovare unostipendio,unalloggio, la speranza. Persone dai 30 ai 60 anni in attesa di un pasto caldo gratis, una doccia, una camicia da lavare, un sacco a pelo o una coperta per dormire. La maggior parte sono stranieri, ma gli italiani stanno scalando in fretta posizioni. In pochi mesi, in molti dei centri comunali o cattolici che offrono aiuto, sono già diventati la seconda comunità dopo i rumeni e prima dei marocchini. Sono poveri del terzo tipo: non hanno il barbone, anzi sono puliti e quasi sempre ben rasati, non mendicano, preferiscono sistemazioni di fortuna ai dormitori perché ancora non ci vogliono credere di essere arrivati a quel punto, perché non era previsto né prevedibile. Accanto a loro, vagano perlacittà,incercadiunrifugio, cibo o alcol, i poveri del primo e secondo tipo, cioè gli emarginati che si sono definitivamente arresi alla strada e le migliaia di nuovi migranti, molti dei quali ormai vivono l’Italia come una stazione di passaggio verso altri Paesi. Dei 150 siriani ospitati dal Comune in via Aldini, nessuno pensa di restare qui: per tutti, il sogno sono Germania o Svezia. Proprio accanto a via Aldini, periferia nord ovest, quartiere Quarto Oggiaro, c’è uno dei nuovi dormitori della Milano invisibile, quello di via Mambretti, nato due anni fa sulla scorta dell’emergenza recessione. È l’unico gratuito, gestitodallacooperativaArca(l’altro grande dormitorio pubblico, quello storico di via Ortles, arriva a 600 presenze ma costa un euro e mezzo per dormire e lo stesso per la cena: tutto esaurito, comunque, con un 40 per cento di italiani, moltissimi dei quali esodati di fresco nel vecchio casermone dallo tsunami della crisi). In via Mam-bretti, dove prima c’era una scuola, i posti sono 170, i letti (da 8 a 20 per stanza) hanno sostituito i banchi, valigie e borsoni gli zaini degli studenti. Al primo piano le donne, in qualche caso con bimbi piccoli, al secondo gli uomini. Si sta il tempo di dormire, dalle 19 (cena compresa) alle 8 (prima colazione). Il resto del giorno, aria. Tra gli inquilini, regole comprensibilmente severe: due assenze ingiustificate e si perde il posto, niente risse, niente urla. Un riparo dignitoso. Che però a Carau Antonio, camionista fino al fatidico 2011, sta diventando insopportabile. «Ho la patente C, 40 anni di esperienza, l’ultima nel trasporto di carta igienica ai supermercati. Licenziato, sbam, e nessuno che mi riprende perché a 60 anni, dicono, sono vecchio.Duranteilgiornogiro,come tutti noi fregati dal Duemila, spesso vado alla libreria Sormani dove danno dei film, faccio le code alle mense, mi ammazzo di colloqui per un lavoro. Ma il vero tormento è la notte. Dormo tra due marocchini. Ruttano, scoreggiano, non hanno rispetto, si lavano i piedi dove io devo lavarmi la faccia. Fortuna che ho un amico imbianchino. Gli ho chiesto di lasciarmi lasuamacchinaperlanotte. Farà più freddo ma almeno non sentirò la puzza dei cameroni». Anche Dario Colucci è un inquilino di Mambretti, anche lui ha conosciuto il salto in basso repentino, da rompersi le ossa. Odontotecnico diplomato, 30 anni da artigiano di dentiere e ponti fino alla specializzazione in modellazioni tridimensionali, ha perso tutto in un colpo, come al casinò: lavoro, casa, famiglia, tre figli. «I clienti non pagavano, il laboratorio è soffocato, ci hanno uccisi di tasse. Avevo il mutuo della casa da pagare, ho consegnato le chiavi alla banca e mi sono trasferito nella mia Ford Fiesta». Licenziato, poi sfrattato: un classico. A Milano e provincia“saltano”18milaappartamenti l’anno per morosità (va peggio solo a Roma). Nel 2007 c’era uno sfratto ogni 841 appartamenti, adesso uno ogni 358. E dopo la Fiesta, signor Dario? «Non resistevo più, ghiacciava anche dentro. Mi sono trovato un localino segreto all’ospedale di Niguarda, vicino alla sala prelievi. In cambio di non venir denunciato, aiutavo gratis quello che caricava le macchinette di bibite e merende alle 5 di mattina. Anche quando sono venuto in Mambretti, ho dato una mano. Pitturare i muri, pulizie. Adesso quelli dell’Arca mi hannoaffidatol’incaricodioperatore notturno. Lo dico sottovoce ma sto ritrovando fiducia». Quella fiducia che perdi per strada e che, se qualcuno non ti aiuta prima che sia dissolta l’ultima traccia di resistenza, non ritrovi mai più. La fortuna di Milano è che, di gentecheaiuta,cen’èparecchia.Il centro dell’Opera di San Francesco di via Concordia è un prodigio di carità organizzata, con 700 volontari di cui 200 medici. Lo coordina, non a caso, un ingegnere civile, padre Maurizio: 2.700 pasti al giorno (niente dolce, che però offrono i carmelitani scalzi di via Canova), 25mila docce in un anno, di cui 1.328 per le donne, 8.421 cambi di vestiti, 10.219 barbe, 37mila visite mediche nell’ambulatorio, 63mila farmaci prescritti e regalati. Tutti numeri, va da sé, in crescicetto ta, con i nuovi italiani in fuorigioco a ingrossare le fila. Ci trovi di tutto, tra questi italiani maltrattati dalla recessione e trascurati dalle istituzioni romane. Per esempio, una signora sulla cinquantina, golfino verde, capelli lunghi biondi e occhi azzurri, che mangia da sola, molto composta, mentre il figlio trentenne fa lo stesso in tavolo riservato ai maschi. Vengono dal Piemonte, avevano una ditta di import-export finita in tribunale. Storia complicata, lei ha le lacrime trattenute, sembra cedere al pianto, poi s’accende: «Sono cresciuta nel mito di Almirante. Ora più che mai il mio motto è boia chi molla». Il figlio sembra più mesto ma ugualmente elegante. Mentre se ne vanno dopo il pranzo delle11sottolapioggiaeunombrello grande per due, lui si volta con un sorriso e dice: «Da imprenditore a questo posto qua. Bella carriera, non trova?». Già, la pioggia. E presto anche il gelo. Il Comune ha appena avviato il “piano freddo” per i senza dimora: da novembre a fine marzo, 3.672 interventi nel 2012, molti di più nel 2013. Verrà a costare più di un milione di euro, a cui vanno aggiunti i soldi per il fondo anti crisi, quelli per il sostegno al reddito (domande aumentate del 300 per cento). In tutto, 25 milioni di euro, e solo per Milano. Allapresentazionedellaleggedi Stabilità, l’ineffabile ministro per le Politiche agricole, alimentari e forestali, Nunzia De Girolamo, ha comunicato al Paese: «Sono molto soddisfatta di poter dire che il governo ha destinato 5 milioni di euro agli indigenti». Cinque. Molto soddisfatta. Pierfrancesco Majorino è l’assessore per le Politiche sociali di Milano, e non l’ha presa bene. «Che vergogna. Miliardi di euro ci vorrebbero. Tutto il peso della miseria delle persone ricade sulle nostre spalle di amministratori locali e sulla disperata voglia di fare qualcosa dei volontari, della Curia. Ma manca lo Stato, mancano misure nazionali di sostegno al reddito. Ci sono ovunque, tranne che in Grecia e da noi. Vorrei veder cadere un governo su una tragedia come questa della povertà, e invece se ne fa un tema di compassione». Caterina Disi ha 48 anni, dei lunghi capelli neri senza neanche uno bianco e non cerca compassione. Nata in Sardegna, diploma di educatrice professionale alla Sapienza di Roma, un curriculum di dieci pagine, ultimo lavoro riconosciuto alla Asl di Ravenna che però la licenzia, da due anni e mezzo è in giro con le sue valigie. Single, dorme in un convento di suore, aspetta gli esiti della causa che ha intentato alla Asl («Mi daranno dei soldi ma non mi ridaranno il posto»), non va alle mense per la vergogna («Mangio biscotti, piuttosto »), entra ed esce dagli uffici di collocamento come dalle librerie, senza mai niente in mano. «Ma la fede non mi fa perdere la speranza. Avrei potuto schiantarmi nella depressione, invece non ho mai preso un farmaco. Il mio unico sonnifero è il rosario. Ma non ac- tutto, non accetto più. Ho studiato tanto, lavorato tanto, non ho commesso reati e mi ritrovo nella povertà assoluta. Pretendo rispetto dal mio Paese. Pretendo autonomia e ruolo sociale. Voglio giustizia, perché la merito».

Da La Repubblica del 30/10/2013.




la chiesa e la u’drangheta, un connubio spesso oscuro e pericoloso

 

rinnovamento

in occasione della pubblicazione del volume di N. Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e dello storico A. Nicaso in cui si raccontano luci e ombre del rapporto chiesa-mafia, una buona presentazione su l’ ‘Avvenire’ odierno di A. M. Mira:

 

Chiesa e n’drangheta, dal silenzio alla lotta

di Antonio Maria Mira

« La Chiesa deve essere una spina nel fianco della mafia», ha detto recentemente il cardinale Gianfranco Ravasi, aggiungendo che la mafia «è un fenomeno radicato e impastato: forse la comunità ecclesiale non lo ha combattuto abbastanza, anche in passato». La frase è citato nel libro, in uscita oggi da Mondadori, Acqua santissima. La Chiesa e la ’ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni, scritto dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e dallo storico Antonio Nicaso, coppia ormai rodata (siamo al sesto libro) in tema di ’ndrangheta. Il titolo riassume già la tesi del libro, dove, in modo molto documentato – e non poteva essere che così visto che Gratteri è tra i magistrati di punta della lotta alla ’ndrangheta – si raccontano luci e ombre del rapporto chiesa-mafia, in particolare quella calabrese, sicuramente quella che anche per sua natura, tradizione, legami con la terra ha più utilizzato elementi di religiosità, o meglio pseudoreligiosità, nel mantenimento del proprio potere. Più ombre che luci, secondo gli autori che nell’introduzione parlano di «controverso rapporto tra Chiesa e ’ndrangheta. Un rapporto in cui si alternano e a volte si sovrappongono luci e ombre intorno a un gomitolo aggrovigliato del quale è sempre più urgente trovare il bandolo. Non è più il tempo delle parole, ma di fatti e comportamenti finalmente capaci di dimostrare quanto questi due mondi siano diversi e inconciliabili». Molte citazioni, sicuramente dure, di storie certo non positive di questo rapporto. Vicende ben note come i condizionamenti delle feste religiose, lo stravolgimento di matrimoni e funerali, i giuramenti col santino di San Michele Arcangelo, la convinzione dei mafiosi di essere giustificati davanti a Dio, fino al punto di chiedere alla Madonna di Polsi, il più famoso santuario calabrese, l’intercessione per poter uscire dal carcere: «Fammi la grazia a cacciami fora e la prima figghia ti la fazzo sora». Sembra solo folclore ma, purtroppo, non lo è. Come sottolinea il cardinale Ravasi, che ne ha fatto tema di una delle tappe del Cortile dei Gentili proprio in Calabria, questi elementi sono stati spesso accompagnati da colpevoli silenzi di parte del mondo ecclesiale. Gratteri e Nicaso, come abbiamo detto insistono molto su questo, citando nomi e cognomi, storie anche non strettamente giudiziarie, ma correttamente avvertono che molte non sono ancora concluse e quindi i protagonisti «sono da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva». Certo il negativo domina in questo libro, rispetto al positivo che pur c’è e c’è stato. Gli autori non mancano di citare nette prese di posizione della Chiesa calabrese, come una lettera pastorale del 1916 che a proposito delle feste patronali scriveva di «abusi inqualificabili»; o padre Gaetano Catanoso, beatificato nel 1987, impegnato alla fine dell’Ottocento contro le prepotenze degli ’ndranghetisti. Ma poi ripetono che queste prese di posizione sono rimaste isolate e non hanno avuto concretizzazioni durature nel tempo. Certo, più si va avanti negli anni della loro analisi, più sono gli esempi di vescovi e sacerdoti impegnati con convinzione, e soprattutto con efficacia, nel contrasto alle mafie, da don Italo Calabrò, parroco e vicario a Reggio Calabria (tra i fondatori della Caritas italiana) a don Pino Demasi, parroco di Polistena e animatore di tante iniziative nella Piana di Gioia Tauro, ma nel libro appaiono sempre come casi isolati. Un libro, dunque, da leggere con attenzione e, soprattutto, da discutere. In particolare per l’ardita tesi, ripresa da altri scrittori, che il perdono cristiano giustificherebbe gli ’ndranghetisti («Solo Dio è il vero giudice», scrivono sui muri delle celle) anche quando commettono i più gravi delitti. Forse i mafiosi lo pensano. Di certo la Chiesa no.




ancora sulla bambina bionda’rapita’

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

 

La vergognosa campagna anti-rom sulla “bambina rapita”

Forse ho perso qualche passaggio giornalistico, non sono abbastanza attento. L’impressione che ho riguarda una sequenza così: un paio di giorni o tre di clamore su una bambina bionda probabilmente (più che probabilmente) rapita da una coppia di rom. Foto della bambina bionda. Messaggi di migliaia di persone che hanno perso una loro bambina. Flebili (non nella voce che le diceva, ma nell’ascolto che trovava) parole di sorpresa di persone che conoscono i rom, o che sono rom, vantaggio non secondario, e dicevano che i rom sono così pieni di figli che, nonostante la leggenda, rapire figli altrui è l’ultima delle cose cui penserebbero. Scoperta dei veri genitori – cioé, i veri genitori si fanno vivi e dicono di aver dato loro la bambina, e danno delle loro spiegazioni. Titoli dimezzati, che non dicono: “Non era rapita la bambina, e non era scandinava”, eccetera, ma dicono: “Sospetti sulla bambina: forse è stata comprata”. Infine, sparizione della notizia. E’ durato poco, ma è stato bello.




gli zingari non rubano i bambini!

La leggenda dei rom che “rubano”  i bambini e la verità dei fatti

Nella storia  italiana mai un caso di rapimento di bambini da parte dei “nomadi”. Una ricerca  rivela dati allarmanti: rispetto a un non rom, un bambino rom ha quasi 40  possibilità in più di essere dichiarato adottabile.

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La leggenda dei rom che

E’ il 10 maggio del 2008.

La 27enne napoletana Flora Martinelli accusa Maria  Dragan, ragazza rom di 16 anni, di essersi introdotta nella  sua abitazione del quartiere Ponticelli e aver tentato di rapire la sua bambina,  di appena sei mesi. La romnì rischia il linciaggio della folla e viene condotta  in una struttura per minori dalla polizia, che la interroga su quanto accaduto.  Maria risponde di essere andata in quella casa per prendere dei vestiti usati  che voleva darle una signora. Fuori, intanto, esplode la rabbia dei cittadini:  un operaio romeno viene aggredito da 20 persone mentre sta tornando a casa, ma  non è che l’inizio. Due giorni dopo si dà il via a una vera e propria  persecuzione: vengono lanciati sassi e bottiglie incendiarie nel campo rom di  Ponticelli, alcune baracche abitate da famiglie con bambini vanno a fuoco, una  struttura occupata da gitani viene data alle fiamme e un’ape car guidata da un  rom ribaltata. Di fatto gli attentati di matrice razzista si susseguono a decine  e costringono 700 rom di Napoli a fuggire. I media descrivono i fatti come una  “sollevazione popolare”, ma si scoprirà successivamente ben altro: su alcuni  terreni occupati dalle baracche avevano messo gli occhi dei clan camorristici.  Lì, infatti, doveva sorgere il Palaponticelli: ciò voleva dire milioni di euro e  appalti. La storia del rapimento non fu che il pretesto per innescare una  rivolta e sgomberare il campo. Non ci fu, infatti, nessun sequestro di minori da  parte della giovane Maria Dragan, che presto venne scagionata di tutte le  accuse. L’italiana Flora Martinelli era invece parente di un boss camorristico  del territorio.

Mai nella storia italiana si è verificato il rapimento di un minore  non rom da parte di una famiglia rom. Eppure il pregiudizio continua ad  essere ben radicato, alimentato nei giorni scorsi dalle notizie provenienti da  Grecia e Irlanda dove, in alcuni insediamenti rom, sono state trovate  delle bambine bionde. Il colore dei capelli è stato sufficiente a rinfocolare la  credenza popolare: “Sono state rapite”, hanno sostenuto i più, prima di scoprire  che una era la figlia albina della famiglia rom e l’altra era figlia di una  donna bulgara, che l’aveva data in “affidamento” a una famiglia rom pochi giorni  dopo la nascita “perché non potevamo darle da mangiare”. Ancora una volta si è  dimostrato come quella dei “bambini rapiti” non sia altro che una leggenda che  non trova nessun sostegno ufficiale. Lo dimostra anche uno studio del 2008  dell’Università di Verona, che ha rivelato come dal 1986 al 2007, in Italia,  nessun caso di presunto “rapimento” di bambini non rom da parte di rom e sinti  si sia concluso con una condanna per sequestro o sottrazione di persona.  Malgrado ciò nei giorni scorsi le forze dell’ordine hanno effettuato controlli  all’interno dei campi di Salone e Castel Romano – a Roma – e chiesto i  certificati di nascita di alcuni bambini.

Nessun bimbo “non rom”, dunque, è stato mai trovato nelle mani delle  comunità rom e sinte. Ma se fosse vero il contrario? Se fossero le  istituzioni a sottrarre i bambini rom alle proprie famiglie affidandoli in  adozione alle famiglie della società maggioritaria? La tesi, presentata a Roma  dall’Associazione 21 Luglio, è spiegata in un  dossier dal titolo “Mia madre era rom” (versione integrale in calce  all’articolo) che analizza in maniera scientifica la situazione dei minori rom,  a Roma e nel Lazio, che oggi non vivono più presso le proprie famiglie. “Dalla  ricerca – spiega l’Associazione 21 Luglio – realizzata in collaborazione con la  Facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona, emergono dati  allarmanti, che mettono in risalto un flusso sistematico e istituzionalizzato di  minori dalle famiglie rom a quelle non rom in attesa di adozione, “giustificato”  dalle precarie condizioni abitative alle quali le comunità rom e sinte nel Lazio  sono costrette dalle politche locali in atto”. Condizioni abitative, va  sottolineato, che sono state indotte a seguito del Piano Nomadi della Giunta  Alemanno. Gran parte dei campi rom, infatti, sono di proprietà comunale.

Spiegano i ricercatori dell’Università di Verona: “L’indagine  quantitativa ha mostrato come dal 2006 al 2012 sia stato segnalato al  Tribunale Minorile il 6% della popolazione rom minorenne, ovvero 1 minore rom su  17. La percentuale scende drasticamente, allo 0,1%, per quanto riguarda i minori  non rom, nel cui caso è stato dunque oggetto di segnalazione 1 minore su 1000.  Lo studio indica come negli anni menzionati sia stata aperta una procedura di  adottabilità – ovvero ci si è interrogati sull’opportunità o meno dell’adozione  – per 1 minore rom su 20 e per 1 minore non rom su 1000. Le dichiarazioni di  adottabilità – le sentenze che decidono in via definitiva che un minore sia dato  in adozione – riguardano poi 1 minore rom su 33 – ovvero hanno coinvolto il 3,1%  della popolazione minorenne rom laziale – e 1 minore non rom su 1250 – ovvero lo  0,08% della popolazione non rom laziale. La popolazione minorenne rom  costituisce lo 0,35% del totale della popolazione minorenne laziale, per cui,  dal 2006 al 2012, se le proporzioni fossero rispettate, i minori rom dichiarati  adottabili dovrebbero essere solo quattro. Al contrario di quanto si potrebbe  prevedere, le dichiarazioni di adottabilità sono 117, un numero circa 30 volte  maggiore rispetto a quello atteso. In altri termini, rispetto a un minore non  rom, un minore rom ha circa 60 possibilità in più di essere segnalato alla  Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, circa 50  possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità e  quasi 40 possibilità in più di essere dichiarato effettivamente adottabile”.

Ma ancora, gli studiosi affermano: “Emerge dalla ricerca come esista  una conoscenza estremamente lacunosa e un forte pregiudizio nei  confronti dei rom da parte delle figure professionali protagoniste dell’iter che  porta alle adozioni. (…) Si è riscontrato, sia da parte dei giudici che degli  assistenti sociali, un diffusissimo approccio culturalista alla questione rom:  la cultura rom diventa nelle parole dei giudici, dei PM e degli assistenti  sociali un bacino, uno spazio omogeneo e uniforme, popolato da figure tra  loro identiche e fortemente stereotipate tra cui spicca quella del rom dedito ad  attività criminali, illecite, violente, all’accattonaggio e allo sfruttamento  dei propri figli. Seppur le condizioni materiali e abitative in cui vivono i rom  vengano riconosciute come pregiudizievoli per i minori, tali condizioni vengono  imputate alla cultura rom e alla volontà dei genitori e raramente si riconosce  il ruolo delle politiche sociali sull’indigenza e sul  degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom.  Oggettivamente, le condizioni di molti “campi” sono inadeguate e ledono i  diritti dell’infanzia. Se però tale inadeguatezza è associata alla cultura rom e  non agli effetti delle politiche locali, sistematicamente volte ad accentuare il  disagio socio-economico dei rom, allora lo strumento di intervento diventa  l’allontanamento del minore dalla propria famiglia, culturalmente e  ontologicamente inadatta a tutelare l’infanzia.

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