ancora sulla campagna razzista scatenata contro i rom

occhi azzurri

così, dopo la campagna antizingara  scatenata in riferimento al caso ‘bimba bionda’ il rom inglese diciottenne, Filip Borev, blogger, sul Gardian:

Sono nato con gli occhi azzurri e bianco come una bottiglia di latte. Da quel giorno in famiglia tutti hanno iniziato a scherzare dicendo che mi avevano rubato. Nella situazione attuale mi chiedo quanto sia ancora divertente la battuta», scrive Filip Borev sul Guardian. Diciotto anni,  blogger, inglese, Borev è anche un romanì (parola che indica coloro che con un termine dispregiativo vengono chiamati «zingari»): discendente per parte di madre da rom bulgari e romanì inglesi e per parte di padre di romanì inglesi e pavee, cioè gli «Irish travellers» diffusi in Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Borev racconta che i suo fratelli avevano invece la carnagione olivastra: «Nella mia famiglia Rom non avrei potuto attirare di più l’attenzione; per fortuna adesso posso passare le battuta sul “bambino rubato” a mio fratello minore, che è nato con degli impressionanti capelli biondi», si consola.

Il giovane blogger inglese (o si dovrebbe definire romanì?) aggiunge poi una considerazione: «Se si dovesse fare una lista delle ragioni per cui un bambino debba essere preso in carico ai servizi sociali, l’essere biondo di certo non sarebbe tra questi».

Eppure è successo ben due volte nell’ultima settimana: prima in Grecia e poi in Irlanda (a dimostrazione di come le paure siano contagiose). In un caso è venuto fuori che la bimba in questione, Maria, non era figlia della coppia di rom, pelle olivastra e capelli scuri, che la stavano allevando come tale. Ma era figlia di rom altrettanto scuri e olivastri, con una progenie però di pargoli biondissimi o rossi, che sembrano usciti da un documentario sulla musica celtica. Mentre nel secondo caso  la piccola, 7 anni (la sua foto non è mai stata pubblicata), è risultata al 100% sangue del sangue dei genitori bruni. E dopo aver passato alcune notti in mano ai servizi sociali di Dublino è potuta tornare con loro. A «rapirla», se di rapimento si vuole parlare, erano state le autorità irlandesi.

La vicenda greca intanto, con le sue immagini di bambini biondi in mano a genitori bruni, ha fatto molta impressione da un capo all’altro dell’Europa. Testimonia soprattutto della nostra incapacità di pensare fuori dai pregiudizi «razziali», sintomo forse di un sostrato razzista di cui neppure noi siamo consapevoli.

I figli biondissimi o rossi di persone con carnagione  occhi e capelli scuri devono il loro aspetto a geni recessivi che si incontrano fortunosamente nel ciclo delle generazioni e poi riemergono nei loro tratti insoliti. «Anche se può sembrarci che gli svedesi siano tutti biondi e i rom tutti scuri (e magari i genovesi tutti tirchi), non è così. Lo si pensava nell’Ottocento, quando era molto forte il paradigma razziale. Ma oggi sappiamo bene che le popolazioni umane sono molto variabili, sia nell’aspetto fisico che nel loro Dna, e comprendono persone dall’aspetto diverso, e a volte molto diverso. Una bambina rom bionda è insolita, ma non più di uno svedese bruno come Ingemar Stenmark», ammonisce Guido Barbujani, genetista dell’università di Ferrara e autore di L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana (Bompiani).

Eppure se quella bimba apparsa su tutti i siti e giornali non fosse stata così bionda, quasi l’immagine ideale della bambola che tutte le bambine hanno tenuto in braccio,  ci avrebbe colpito meno. Il punto non è che scambiarsi i figli, anche se mossi da condizioni di disperata povertà, è giustamente illegale in Europa (il padre e la madre biologici della bimba, due bulgari, hanno raccontato di averla ceduta perché non potevano mantenerla). Il punto non è neppure che, sempre in Europa, i romanì vivono nelle favelas  e difficilmente accedono a sevizi sociali basilari che possono alleviare quella povertà, fossero solo le case popolari.

Il punto è che quelle immagini di genitori e figli con i tratti somatici così «dissonanti» hanno risvegliato di colpo pregiudizi radicati che di solito ci concediamo il privilegio di ignorare. Il più caparbio è quello della «zingara rapitrice». Lo conoscono tutti e si riassume in una frase: «Le zingare rubano i bambini» – e poi una sfilza di spiegazioni pseudo-razionali (“Li usano per chiedere l’elemosina», «Per loro sono il valore più grande», etc etc).

Non è vero. In un libro documentatissimo (La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze, Roma, Cisu, 2008, 144 pp.), Sabrina Tosi Cambini è andata a verificare ogni singolo caso di presunto rapimento imputato a persone rom e sinte in Italia tra il 1985 e il 2007: nessuno è stato accertato. Gli unici «rapimenti» sono quelli in cui romanì vanno a riprendersi i figli affidati ai servizi sociali (cosa illegale e deprecabile, ma ben diversa dall’andare a rubare i figli altrui)

Tosi Cambini racconta come i casi riportati dalla cronaca abbiano tutti le stesse caratteristiche: le protagoniste sono sempre donne; la madre, o una parente stretta del bimbo, accusa una donna romanì di aver voluto rapire il piccolo e sostiene di averlo impedito; di solito il fatto avviene in luogo affollato, ma senza testimoni e senza che nessuno aiuti la mamma (o parente del minore). Secondo Tosi Cambini – che si affida alle ricerche psicologiche sulla percezione –  questi «fatti»si assomigliano tutti perché  sono il frutto di eventi travisati a causa delle nostre aspettative su quello che zingare fanno («rubare i bambini»). Il pregiudizio diventa il filtro attraverso il quale apprendiamo la realtà.

Anche Filip Borev, sul Guardian, ci ricorda che «quello della zingara ruba-bambini è un vecchio stereotipo razzista» e infatti ai tempi d’oro dell’antisemitismo si diceva anche degli ebrei. Forse il caso della bambina bionda trovata in Grecia può insegnarci che di pregiudizi ne abbiamo ancora molti, ed è il caso di abbandonarli.




una campagna internazionale contro i rom

bimba bionda
Dunque anche Maria, la bimba bionda la foto della quale ha fatto il giro d’Europa, non era stata rapita. Semplicemente le persone che si occupavano di lei non erano degne di essere credute, in quanto Rom.

I suoi genitori biologici, Sasha e Atanas Roussev, Rom bulgari, erano troppo poveri per mantenerla e l’avevano affidata alla coppia residente in Grecia alla quale Maria era stata sottratta. Questi l’avevano detto fin dall’inizio ma non erano stati creduti. Troppo poveri i genitori di Maria, così poveri da non poter tenere neanche i figli. Ovvero sottoproletari il babbo e la mamma di quella bimba bionda che per i media razzisti -in quanto bionda- doveva essere una principessina sottratta a chissà quale castello di fate. Fosse stata bruna non se ne sarebbero mai curati, anche se le persone che la tenevano fossero state vichinghe.

Dunque una volta di più (ricordo sempre il libro della Caritas “la zingara rapitrice”) non c’è stato né sequestro né compravendita di bambini, solo troppo disagio, forme di vita troppo arcaiche e inaccettabili per noi che ci sentiamo così civili. Ma basta guardarsi indietro e solo due o tre generazioni fa l’Italia e l’Europa erano pieni di figli di genitori troppo poveri per tenerli, affidati a terzi quando andava bene, abbandonati negli altri casi. Ne abbiamo cancellato perfino la memoria e con questa l’umanità, la capacità di capire l’universo povertà.

Oggi non ci piace come vivono i poveri, non ci piacciono i proletari, ci fanno schifo i lumpen, non ci piacciono i Rom. Ma di questo si tratta perché questa è solo una storia di troppa povertà per loro e troppo razzismo e classismo.  Per noi.




Un milione di posti di lavoro … ma per la ‘casta’!

 

Un mondo di portaborse

UN MONDO DI PORTABORSE CONSULENTI, ADDETTI STAMPA, COLLABORATORI. DAI MINISTERI ALLE REGIONI FIN DENTRO I COMUNI UN PAESE NEL PAESE CHE RISPONDE SOLO A CHI NOMINA.

così Salvatore Cannavò su ‘il Fatto quotidiano’ odierno:

Un milione di persone. Nemmeno Max Weber, quando scriveva La politica e la scienza come professioni pensava ci si potesse spingere a tanto. Il grande sociologo tedesco scriveva infatti nel 1919: “Si vive ‘per’ la politica oppure ‘di’ politica”. Chi vive ‘per’ la politica costruisce in senso interiore tutta la propria esistenza intorno ad essa” […] Mentre della politica come professione vive colui che cerca di trarre da essa una fonte durevole di guadagno”. 

Secondo uno studio della Uil, invece, coloro che cercano “di trarre dalla politica una fonte durevole di guadagno” sono più di un milione: 1.128.722. Un “paese nel paese” ma non nella forma poetica in cui Pier Paolo Pasolini definiva il Pci. Piuttosto “un mondo a sé”, come lo descrive il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy che ha curato la ricerca. La cifra viene ricavata sommando voci tra loro diverse ma tutte legate alla politica: gli eletti e gli incarichi di Parlamento e governo (1.067) quelli nelle Regioni (1.356), nelle Province (3.853) o nei Comuni (137.660). L’incidenza delle cariche elettive sul numero totale non è molto alta, il 12%.

La forza del sottobosco

I numeri si fanno più forti man mano che ci si addentra nel sottobosco: i Cda delle aziende pubbliche ammontano, infatti, a 24.432 persone; si sale a 44.165 per i Collegi dei revisori e i Collegi sindacali delle aziende pubbliche; 38.120 sono quelli che lavorano a “supporto politico” nelle varie assemblee elettive. I numeri fondamentali della ricerca sono riscontrabili nelle due ultime voci, quelle decisive: 390.120 di “Apparato politico” e 487.949 per “Incarichi e consulenze di aziende pubbliche”. “Quest’ultimo dato si basa su numeri certi e verificati” assicura Loy, mentre quello relativo agli “apparati” costituisce una “stima della stessa Uil ma una stima attendibile”. Nella nota metodologica, infatti, il sindacato spiega che i numeri derivano da banche dati ufficiali e da quello “che ruota intorno ai partiti” (comitati elettorali, segreterie partiti, collegi elettorali, “portaborse”, ecc.”. Loy la spiega così: “Ventimila voti di preferenza non sono il risultato solo di un voto ideologico ma espressione di relazioni concrete”. E, in tempi in cui l’ideologia è fortemente in crisi, “si affermano gli interessi e la spinta ad aumentare il proprio tenore di vita, l’affermazione di un sistema economico”.

La politica si fa industria, quindi. E il dato è riscontrabile nei numeri. Si pensi al costo dei CdA dei quasi settemila enti e società pubbliche: si tratta di 2,65 miliardi mentre per “incarichi e consulenze” la cifra è di oltre 1,5 miliardi di euro.

Stiamo parlando di gente che lavora, ovviamente. Alcuni di loro, come i dipendenti di Rifondazione comunista, sono anche finiti in cassa integrazione oppure, come in An, licenziati. “Ma non hanno fatto alcuna selezione pubblica, non hanno seguitonessun merito” commenta Loy, “e vengono pagati con soldi di tutti”. Parliamo di collaborazioni dirette nei vari ministeri, assessorati, consigli elettivi, incarichi elargiti da questo o quel politico di turno. Oltre ai Francesco Belsito, Franco Fiorito, ai diamanti della Lega, alle ricevute di Formigoni o alle consulenze di Alemanno, gli esempi possono essere tutti leciti ma del tutto interiorizzati dalla politica.

I vari ministeri hano speso, nel 2012, oltre 200 milioni per collaborazioni dirette. Tra i dicasteri più attivi, gli Interni, l’Economia e Finanze, la Difesa e la Giustizia. Del ministero diretto da Alfano ci occupiamo a parte. Il Mef dispensa centinia di incarichi nelle società partecipate. Alla Difesa, il ministro dispone di ben 18 collaboratori quanti ne ha quello della Giustizia. Gli incarichi sono quasi tutti di pertinenza politica. Come proprio addetto stampa, ad esempio, il ministro ha la stessa persona che ha lavorato per Pierferdinando Casini dal 2006 al 2013 e prima, ancora, con l’Udc Vietti, attuale videpresidente del Csm. Una “ricollocazione” avvenuta tutta nei rapporti della politica.

Fedeli al ministro

Nell’Ufficio di gabinetto troviamo l’autrice di un libro, Guerra ai cristiani, troppo presto dimenticato e scritto insieme allo stesso Mauro. Più esemplare è il caso del “Consigliere per gli affari delegati, del Sottosegretario di stato alla Difesa On. dott. Gioacchino Alfano”, Nicola Marcurio. L’interessato ha iniziato la carriera politica nel Comune di Sant’Antonio Abate, dove organizzava le iniziative religiose per il Giubileo. Diviene consigliere comunale nel 2000 e di nuovo nel 2005. Poi va a lavorare presso il Commissariato per l’emergenza di Pompei, da lì alla Protezione civile per il G8 dell’Aquila. Finisce al ministero come consigliere di Gioacchino Alfano il quale, guarda caso, è stato sindaco proprio di Sant’Antonio Abate. L’altro sottosegretario, Roberta Pinotti, Pd, tiene nel proprio staff Pier Fausto Recchia, deputato non rieletto alle ultime elezioni e quindi ricollocato. Tra i collaboratori del ministro della Giustizia, Cancellieri, troviamo Roberto Rao, già deputato, non rieletto, e già portavoce di Casini ma anche Luca Spataro, già segretario Pd di Catania. Se un deputato non viene rieletto gli si trova un nuovo incarico. Come a Osvaldo Napoli, pidiellino molto presente in tv, bocciato lo scorso febbraio e oggi vicepresidente dell’Osservatorio Torino-Lione. Moltiplicando questi casi per l’intero numero delle cariche elettive si può avere un’idea del fenomeno. Alla Regione Lazio, il presidente Zingaretti dispone di un ufficio stampa con ben dieci addetti mentre in Lombardia, i consulenti della Regione sono passati, con la gestione Maroni, da 57 a 93, tutti riscontrabili sul sito ufficiale. Per questa voce l’ente regionale spende 2,6 milioni di euro l’anno. L’esercito della politica vive e si autoalimenta così.

Da Il Fatto Quotidiano del 28/10/2013.




Aung San Suu Kyi: “ la mia rivoluzione della gentilezza”

La nobel che ha sconfitto la paura

“Aiutateci a essere liberi” : l’appello di Aung San Suu Kyi la Nobel che ha sconfitto la paura

La pasionaria birmana a Roma: gelati e l’abbraccio con Baggio. Il colloquio.

le riflessioni di Concita de Gregorio:

«Bello. È tutto rimasto intatto». Quarant’anni dopo Aung San Suu Kyi torna ad affacciarsi su Roma di notte. I Fori, il mercato di Traiano. Era una studentessa ad Oxford, allora. Una ragazza. Oggi è premio Nobel per la Pace, vent’anni quasi ininterrotti di arresti domiciliari, le vessazioni e gli attentati di un regime che ha cercato di eliminarla senza riuscire a farlo, senza poterlo fare. La vita che le è scivolata di mano mentre la teneva salda sulla rotta di un’idea, di un compito arrivato in dote dalla famiglia e dalla coscienza e dalla storia, il marito morto lontano senza che potesse salutarlo, i figli bambini e poi ragazzi via da lei altrove. La cupola di San Pietro, a sinistra il Gianicolo. «Mi ricordo i gelati, buonissimi, che compravo per strada. Sono ancora buoni i gelati? ». Sorride. Le dicono che per anni — durante la prigionia in Birmania — la sua foto, il suo volto è stato uno stendardo sulla facciata del Campidoglio. Sorride più forte, inclinando la testa adorna di rare roselline gialle. Significa grazie. Ma no, dice: «Non ho fatto sacrifici».

«NON ho mai pensato né penso a me stessa come ad una persona che si sia sacrificata. In verità non ho fatto niente di particolare, solo una cosa semplice: ho scelto una strada e l’ho seguita, tutto qui. Il coraggio non c’entra. È stata una decisione». Tranquillissima, elegante nella camicia di seta crema abbottonata fino al collo, diritta come se fosse intelaiata su fil di ferro, gentile. Solo — di unico — quella fermezza nello sguardo, una specie di durezza inflessibile, implacabile, inevitabile. Anche lei intatta, identica alle sue foto di dieci venti trent’anni fa divenute simboli ai quattro angoli del globo: una piccola donna fatta solo di muscoli e ossa, i capelli ancora corvini adornati di fiori che lei stessa intreccia ogni mattina, un’odissea trovare stamani proprio quelle roselline gialle e crema, a Roma. La gonna tradizionale lunga fino ai piedi, color caffè. La pelle tesa, lo sguardo fermo. Non mi sono sacrificata, ho scelto. La cena in suo onore, sulla terrazza del Campidoglio, è l’epilogo della celebrazione in cui il sindaco Ignazio Marino le consegna la cittadinanza onoraria che le fu attribuita da Rutelli, il premio Roma per la pace che le fu assegnato da Veltroni negli anni della sua carcerazione. Tutti presenti, gli ex sindaci, per sovrapprezzo anche Carraro. Tutti sugli scranni tranne Alemanno che non è venuto. C’è Emma Bonino che le è amica, la bacia, oggi la riceve alla Farnesina. C’è Baggio il calciatore che su indicazione di Aung San Suu Kyi ritirò i premi per lei quando lei non poteva e che la incontra ora per la prima volta, emozionatissimo, le da del tu, le consegna i video girati in questi anni e lei chiede, proprio come una fan: ma i suoi gol ci sono? Perché io vorrei vedere i suoi gol. Poi, sembra una ragazzina, si rivolge alle autorità — il rabbino alla sua sinistra, il ministro, i sindaci ed ex sindaci — e dice: quando mi avete assegnato la cittadinanza e il premio ho pensato a Baggio, perché nel mio paese Roberto Baggio è l’italiano più amato fra i giovani, tutti lo conoscono, e io non lo conoscevo ma mi son fatta raccontare da loro, dai giovani, chi fosse e perché lo amassero e così l’ho amato anche io. Si baciano, corre una lacrima, parlano del Dalai Lama. I giovani, le donne. «Il futuro del mio paese, ma forse di tutti i paesi, è soprattutto nelle mani delle donne e dei ragazzi». Parla veloce, dice che i diritti sono ancora molto lontani da venire, che certo la battaglia per i diritti delle donne «è fondamentale, perché le donne hanno nel corpo e nella memoria la forza delle cose, ma anche gli uomini, anche degli uomini abbiamo a cuore i diritti, e vogliamo che sappiano che quando avremo conquistato i nostri saremo gentili con loro, non devono avere paura di noi». Sorride ancora di quel sorriso antico dovuto e inflessibile. Dice che ogni gesto è importante, «ogni persona, ogni singolo gesto di ogni singola persona, anche quello minuscolo come un granello di sabbia». Adesso il suo lavoro è per cambiare la Costituzione, in Birmania. «La costituzione più difficile al mondo da cambiare, ci vorrà il voto anche dei militari, ma con la consapevolezza dell’opinione pubblica e con la pressione del mondo intero ce la faremo. Usate la vostra libertà che è immensa per aiutare la nostra, che è giovane e fragile». Poi dice una cosa enorme, che parla davvero a ciascuno di noi, noi che godiamo di una libertà immensa. Dice «lottare contro la paura e l’odio non basta, bisogna comprendere le ragioni di chi odia e di chi ha paura. Nessuno può giudicare nessun altro con superiorità. Nessuno può dubitare della dignità delle idee diverse dalla propria. Bisogna ascoltarle, capirle, discuterle. Bisogna lavorare insieme per una meta comune, non contro qualcuno per imporre una visione propria». A Ignazio Marino ha portato in dono una piccola scatola d’argento che custodisce incensi e oli profumati. Per strada, lungo la visita ai Fori, si ferma a respirare il profumo di tre rose. Si avvicina a Baggio per vedere dappresso la luce del suo orecchino, vorrebbe toccarlo. Al rabbino che cena con un suo diverso menù chiede di assaggiare dal piatto le pietanze. Le piccolissime cose, come un filo di acciaio invisibile teso nella storia e nel tempo. Al cospetto di Marco Aurelio un apprezzamento femminile, compiaciuto: «È più bello di Costantino, effettivamente». Ma è un attimo. Ancora nei Musei riprende la perorazione per la causa del policlinico di Rangoon, l’ospedale più importante del suo paese. «Vorrei che mandaste medici, giovani ricercatori, vorrei che ci aiutaste a farlo crescere». Marino, medico prima che sindaco, si impegna in pubblico. Qualcuno, sulla terrazza, le chiede cosa sia cambiato col Nobel. «Per me personalmente non saprei dirlo, né d’altra parte credo sia rilevante. Di me, della mia persona, cosa può importare? Cambia il senso che si dà alla libertà, al diritto di avere diritti, alla storia dei popoli». E di suo padre, oppositore al regime ucciso quando lei aveva due anni, sente di portare l’eredità? «Non sento il peso del passato, sento quello del futuro. Mio padre è mio padre, ma è del mio popolo che sento di essere figlia. Della mia gente. È per loro che sono qui a Roma oggi, cittadina romana cioè del mondo intero. Per chi verrà, per i neonati di Rangoon e delle mie campagne. Per chi ha la vita davanti, non per chi è già stato».

Da La Repubblica del 28/10/2013.