“la speranza si è messa in cammino”

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Jacques Noyers – Vescovo emerito di Amiens:

Francesco, l’ultimo dei papi?

«Francesco anticipa nella sua persona una forma escatologica di esistenza, che, in quanto forma
generale di vita, appartiene ancora all’avvenire» (1). È una citazione di Benedetto XVI! o piuttosto
di Joseph Ratzinger quando era semplicemente un teologo. Preciso subito che si tratta di Francesco
d’Assisi visto da san Bonaventura e non di papa Francesco annunciato dal suo predecessore.
Vedendolo abbandonare i segni sfarzosi del Sovrano Pontefice, come il primo Francesco restituì
sulla piazza di Assisi i suoi vestiti da borghese al proprio padre, si potrebbe pensarlo. Un papa che
augura «buon appetito» ai suoi interlocutori, un papa che paga il conto dell’hotel, un papa che
viaggia portando a mano il proprio bagaglio, un papa che parla di stare con i poveri e nelle periferie
e che va loro incontro a Lampedusa…
Per mesi, sono rimasto a bocca aperta davanti a tante sorprese. Avevamo delle idee sul futuro della
Chiesa, sulle qualità auspicabili del nuovo papa, sulla priorità delle riforme da intraprendere. Ma
non avevamo previsto questo: un papa che non “gioca” a fare il papa!
Aspettavo quello che sarebbe successo: una fine del mondo? Eravamo forse agli ultimi giorni della
chiesa e all’avvento della pienezza del Regno di Dio?
Ohimé, la mia età non mi permette più di volare facilmente nell’entusiasmo dell’apocalisse. Vedevo
questa chiesa, il suo peso, le sue abitudini, le sue certezze. Conoscevo la sua inerzia. Come avrebbe
potuto quella farfalla risvegliare la balena?
Mi domandavo se fosse possibile lasciar arrugginire senza rimpianti in un angolo la struttura
ingombrante e mal funzionante del Vaticano e ripartire da zero, con le parole del vangelo.
La nostra chiesa sarebbe stata capace di far la muta come il serpente che abbandona sul posto la
propria ingombrante corazza?
Al nostro papa è sufficiente uno spazio libero dove dare appuntamento a tutti gli assetati della
Buona Notizia.

La speranza

Bene! So di sognare. Non si cancella di colpo il peso di mille anni di cristianità. Ci sono
ambasciate. Ci sono cardinali. Ci sono gendarmi. Ci sono guardie svizzere. Ci sono finanze. Ci sono
uffici. C’è la curia.
Allora mi domando se saprà, col suo sorriso disarmante, trasformare lo scenario che non può
cancellare. Si sono già visti alcuni gesti profetici. Si è già vista la differenza tra un pastore che si
cura delle persone e un dottore che si cura dei discorsi. Si è ascoltato il richiamo ad andare verso le
periferie, invece dell’invito a riunirsi docili attorno al centro.
Abbiamo visto mettere al primo posto l’attenzione nei confronti di tutti coloro che questo mondo
non vuole vedere.
Si aspettano parole nuove, immagini inattese, gesti profetici. Si commenta, ci si diverte… Invece i
media vedono solo operazioni di comunicazione più o meno abili. Nella chiesa non c’è la
rivoluzione. Si sono cambiate le immagini dei papi nelle sacrestie. Ma tutto continua come prima. Del resto, potrebbe apparire offensivo per il nuovo papa immaginare che possa veramente dire cose
diverse dai suoi predecessori. Chi oserebbe mettere in pratica la consegna di papa Francesco ai
giovani: fate casino?
Tuttavia non riesco a rassegnarmi a questo comodo pessimismo. Le grandi rivoluzioni richiedono
del tempo. Bisogna che si scontrino con ciò che è diventato abitudine. Occorre che corrodano, che
minino, che le si creda soffocate perché un giorno le grandi istituzioni crollino. Posso credere nello
Spirito di Dio che in questo modo rinnova la faccia della terra?
Già so che uomini e donne scoraggiate dall’immobilismo della chiesa riprendono un po’ fiducia.
Iniziative quasi clandestine osano lentamente manifestarsi. I vescovi che avevano creduto di far
piacere al papa mandando cristiani sulle strade per difendere la morale si rendono conto che forse il
papa attende da loro altri cammini verso i poveri.
Siamo sempre in attesa. Attesa di nuove iniziative del papa per approfondire la rimessa in questione
della pseudocristianità del potere. Attesa di un’eco più chiara di questa nuova parola negli
ingranaggi complicati della chiesa. Attesa anche di reazioni che certamente non mancheranno di
sollevare tutti coloro che si sentono sicuri nelle istituzioni del passato. Attesa soprattutto che il
desiderio di avanzare sulle strade del vangelo sia permesso e incoraggiato. Mai la testa avanza senza
i piedi!
È ancora troppo presto per cantare l’alleluia dell’ultimo giorno. Ma la speranza si è già messa in
cammino.
(da “Adista”)




H. Kung di fronte alla sua morte

 

Il teologo svizzero potrebbe scegliere il suicidio assistito

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

Hans Küng, tra i più famosi sacerdoti e teologi cattolici contemporanei – noto soprattutto per le idee progressiste e di rottura rispetto alla tradizione – potrebbe scegliere la strada del suicidio assistito.

Lo studioso svizzero, nato nel 1928, è da tempo affetto dal morbo di Parkinson e nel suo ultimo libro di memorie “Erlebte Menschlichkeit” (pubblicato in lingua tedesca la scorsa settimana) esprime il proprio parere favorevole all’autodeterminazione sul fine vita.




una guerra tra poveri

un bell’articolo di Chiara Saraceno su ‘la Repubblica’ odierna sulla guerra tra poveri: “Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei”

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UNA GUERRA TRA POVERI
(Chiara Saraceno)

Quanto è difficile nel nostro paese uscire da logiche puramente categoriali: che riconoscono diritti e protezioni diversi a persone nella stessa condizione oggettiva, ma appartenenti a categorie – professionali, territoriali, di età, ecc. – differenti. Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei per omogeneità di condizione: una indennità di disoccupazione universale per tutti coloro che perdono il lavoro e non sistemi macchinosamente differenziati che si prestano a logiche clientelari e lasciano scoperti ampi gruppi di disoccupati, unitamente, appunto, ad un sostegno al reddito per i poveri.

Condivido il timore dei sindacati che, in una situazione di risorse scarse, ci sia il rischio che avvengano tagli senza compensazione. È dovere dei sindacati, oltre che dei partiti che dovrebbero avere a cuore l’equità e l’uguaglianza almeno di fronte al bisogno, sorvegliare che ciò non avvenga. Capisco, e in linea di principio condivido, anche la richiesta di risorse aggiuntive, specie dopo che la questione della mancanza di fondi non ha fermato la cancellazione della prima, e forse anche della seconda, rata dell’Imu sulla prima casa, con ovvio beneficio per i più abbienti. Ciò che non condivido è la difesa strenua della frammentazione categoriale. Come se un giovane che perde un lavoro a tempo determinato valesse meno di uno che perde un lavoro a tempo determinato e viene messo indefinitamente in cassa integrazione a zero ore; come se un esodato avesse più diritti di un/una cinquantenne che ha perso il lavoro e difficilmente ne ritroverà un altro; come se chi è povero e non appartiene a nessuna “categoria protetta” avesse meno diritti.

La frammentazione categoriale cui assistiamo oggi, con tutte le ingiustizie che produce e i buchi che lascia aperti, è frutto del modo in cui si è sviluppato il sistema di protezione sociale italiano: per progressivo incrementalismo che allargava sì la platea dei “protetti”, ma senza mai ridefinire il disegno complessivo, creando disuguaglianze anche tra gli stessi “protetti”. È avvenuto per i lavoratori, i pensionati e persino i disabili. In modo diverso è avvenuto anche per quanto riguarda il sostegno al costo dei figli, ove chi finisce con il non aver diritto a nulla sono proprio i più poveri. In effetti, non si può non rimanere colpiti dall’attenzione, nel migliore dei casi marginale, per la povertà che caratterizza il dibattito politico e la stessa posizione dei sindacati, oltre che del Pd.

Eppure la povertà è aumentata notevolmente negli ultimi anni, colpendo soprattutto le famiglie con figli minori e toccando anche ceti che fino a poco tempo fa pesavano di esserne al sicuro. A farla crescere non è stato solo l’aumento della disoccupazione, ma anche la riduzione forzata degli orari di lavoro e lo scarto tra redditi e costo della vita. Il reddito minimo, proposto dalla commissione di esperti che il ministro Giovannini sembra voler far propria, mira a coprire almeno parte della distanza tra reddito disponibile e costo di mantenimento di un livello di vita decente. Per chi non ha lavoro, o è in una forte situazione di precariato, sarebbe accompagnata da attività di formazione e accompagnamento al lavoro, per rafforzarne, come si dice, l’occupabilità. Da questo punto di vista, potrebbe essere anche inteso come uno stimolo dal lato dell’offerta di lavoro, a integrazione di quelli che si dovrebbero mettere in campo dal lato della domanda (riduzione del cuneo fiscale, sostegni a chi assume, ecc.), per evitare che i più poveri manchino anche queste opportunità.

È sicuramente legittimo chiedere risorse aggiuntive, e prima ancora chiedere che, in una situazione di risorse scarse, queste non vengano erogate principalmente a favore dei più abbienti, cui anzi si dovrebbe chiedere una solidarietà maggiore, rinunciando ad una quota dei propri benefici (disboscando le detrazioni fiscali, ad esempio, e tassando le pensioni alte). Tale richiesta sarebbe, tuttavia, più forte se si accompagnasse alla disponibilità a rivedere anche le ingiustizie che si nascondono nel categorialismo spinto del nostro frammentato sistema di protezione sociale.




in memoria

 

cento bare

(ricevo da p. Agostino e metto a disposizione per la comune riflessione)
IN MEMORIA
3 OTTOBRE 2013

Sarebbe forse stato più adatto il silenzio per aprire questa serata. Siamo infatti sommersi dalle parole, dalle immagini, scelte apposta per farci piangere di più, dalla retorica insopportabile dei politici(Alfano è corso a Lampedusa con la stessa fretta con cui AVEVA votato il pacchetto Maroni sui respingimenti) dai mezzi di comunicazione, dagli addetti ai lavori. Resta il fatto che di circa 500 persone ne sono rimaste vive 155 il resto , cioè volti, storie, affetti, speranze giù in fondo al mare dove faranno compagnia agli altri cira 25.000 , morti dal 1988 in po, di cui ci siamo dimenticati, come faremo con questi ultimi, fra qualche giorno, travolti dalle miserabili storiucce dei nostri cosiddetti governanti. Se fossimo davvero sinceri nel manifestare il dolore per queste tragedie, potremmo piangere per queste creature, ma non siamo credibili perché anche quelli che arrivano vivi li trattiamo mica tanto bene; li ammassiamo nei CPT per mesi come delinquenti dato che abbiamo creato il reato di clandestinità. oppure li sfruttiamo col lavoro nero. Questi ultimi disperati venivano da Eritrea Etiopia Somalia, scappavano dalla guerra infinita che da anni affligge quelle popolazioni, quindi erano rifugiati politici e l’articolo…. della Costituzione e la convenzione di Ginevra chiede di accoglierli. In questo caso lo loro emigrazione era dettata dal bisogno estremo di salvarsi la vita e invece hanno trovato ancora morte. L’emigrazione in genere è un effetto la cui causa trova le sue radici nel mondo occidentale: radici economiche prima di tutto ,e vendita molto lucrosa di armi(in Africa non ci sono fabbriche di armi e anche l’Italia e l’Europa tutta sopperiscono ben volentieri a questa mancanza). Di questo si dovrebbe occupare tutta l’Europa cambiando i suoi rapporti con questi paesi, e sopratutto cambiando il capitalismo di rapina che invece piace tanto a chi è già ricco e se ne sbatte di chi crepa in un modo o in un altro. Quindi piangiamo pure le vittime ma interroghiamo anche le nostre coscienze perché c’è qualcosa che uccide più della morte stessa ed è l’indifferenza, il non curarsi di chi ti è vicino, di chi soffre, di chi ha meno di te anche se ti sembra di avere poco. E’ vero, molti di noi sono poveri e altri se ne aggiungeranno se per
esempio a Piombino verrà messa la pietra tombale sulle acciaierie, ma se qui da noi ci ammaliamo abbiamo ancora ospedali che ci curano , se non abbiamo pane ci sono opere di carità che in qualche modo ci sostentano. Nei paesi da dove vengono queste persone non c’è niente di niente e le donne muoiono di parto, i bimbi per una diarrea. Che faremmo noi al loro posto se ci fosse una sola possibilità di scampare a questa sorte? Non ho altro da dire se non un grazie dal profondo del cuore ai lampedusani e a tutti quelli che in mille modi si sono affannati per salvare quelle vite. Loro non sono rimasti indifferenti.




una mostra a Roma dei ‘senza fissa dimora’

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HOMELESS

(Wlodek Goldkorn)
 
Nel mondo i senza tetto sono cento milioni. In Italia cinquantamila. Un fotografo per anni li ha ritratti. Dappertutto. E ha colto il sacro che è in loro. Il suo lavoro in mostra a Roma

A parlare sono gli occhi, gli sguardi di coloro che ha fotografato Lee Jeffries, nella sua serie di ritratti degli homeless, dei senza casa. Sono immagini che non necessitano di molte parole: e che saranno in mostra, in anteprima mondiale, al Museo di Roma a Trastevere, a partire dal 19 ottobre (twitter.com/Lee Jeffries). Jeffries l’autore, o forse co-autore, perché i soggetti dei suoi ritratti sono partecipi all’opera, è un inglese di Manchester, ha 41 anni, ed è stato per vari anni in giro per le strade di Londra, Parigi, New York, Miami, Las Vegas e anche di Roma. Era alla«ricerca di un incontro», dice nel breve testo scritto per il catalogo della mostra.

Voleva entrare in contatto con uomini e donne che in strada vivono ogni giorno e ogni notte perché non hanno né tetto né letto; i senza fissa dimora li chiamiamo nel gergo burocratico. La sua intenzione non era tanto quella di documentare un fenomeno sociale, quanto stabilire un rapporto che durasse nel tempo, attraverso l’immagine impressa dalla camera. Ha finito per creare intimità, con le persone ritratte. Basta vedere le immagini: i protagonisti della sua opera si danno con estrema generosità; come ci si affida a un amico, fratello, amante. L’artista tuttavia non ha voluto fornire né i nomi delle persone né raccontare i luoghi e le circostanze in cui le ha fotografate. Non perché i senza casa, “i barboni”, si assomiglino tutti. Al contrario, l’ipotesi di Jeffries, un’ipotesi che ogni spettatore può verificare, è questa: i volti degli homeless sono segnati da elementi di santità. E sono i corpi non le parole a raccontare le pene patite.

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Detto così, può sembrare una teoria sentimentale, new age, da sazi signori facili a commuoversi di fronte alla sofferenza: basta sia sofferenza altrui. Verrebbe naturale muovergli l’accusa di voyeurismo: spesso ai fotografi si rimprovera questo peccato. Ad assolvere Jeffries da ogni presunta colpa e, anzi, far ammirare la sua opera, è, come si è detto, il centro della sua narrazione, gli occhi appunto (perfino gli occhi ciechi, ma espressivi del ragazzo a pagina 82). Infatti, Jeffries sembra aver capito che gli occhi servono non solo a guardare, ma anche a essere guardati, a svelare i segreti; sono gli occhi a raccontare le nostre gioie, tristezze, speranze, sogni. Si dice, a ragione, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ma l’anima cosa è? Secondo la geniale intuizione del filosofo Franz Rosenzweig, l’anima non è altro che la luce di dio in ciascuno di noi. Ecco spiegato il tentativo di Jeffries: fotografare l’anima; cogliere la luce divina che emanano (quando ne sono capaci) gli umani. Più prosaicamente, il fotografo tenta di compiere un’operazione simile a quella che guida ogni artista: si immedesima nell’oggetto del racconto, cerca di provare le sue stesse emozioni, per dar loro una forma. Un procedimento che i grandi scrittori e narratori chiamano empatia. O se vogliamo: il fotografo si dà il compito di rubare l’anima del soggetto protagonista del suo lavoro; gli antropologi sanno che esistono popolazioni e tribù che per questo motivo rifiutano di farsi fotografare.

Dice Jeffries: «La sofferenza e la spiritualità sono sinonimi. Il mio scopo è far appello al senso di fede e all’umanità degli spettatori». La stessa frase può essere detta, laicamente, così: siamo tutti vagabondi sulla Terra e l’esperienza del lasciare la casa paterna per andare a esplorare strade ignote è l’essenza di ogni narrazione; i miti in fondo di questo parlano. È un vagabondo che sfida il destino Ulisse; lo è Abramo che lascia la sua dimora in Mesopotamia per seguire la voce divina. Ed è vagabondo il folle don Chisciotte nella ricerca della gloria e del riscatto. Cervantes non raccontò solo il nobile avventuriero: dalla sua penna sono uscite narrazioni di picari veri, reietti, marginali che vagavano per le strade di Spagna. E siamo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo in cui comincia a darsi forma la modernità con il suo impellente bisogno di ordine e razionalità e con il conseguente rifiuto degli esseri umani considerati superflui, disadattati al lavoro e alla quotidiana disciplina. È il periodo in cui “le corti dei miracoli”, gli assembramenti di coloro che non possiedono altro che la loro nuda vita e i loro corpi, magari deformati dalle malattie, dipinti meravigliosamente qualche anno prima (come se fossero a futura memoria) da Peter Bruegel, vengono soppressi d’autorità. Caravaggio, ancora saprà usare i volti dei marginali per dare forma ai santi (e la poetica di Jeffreis vi assomiglia). Poi su quel mondo cadrà la scure della Ragione.

Racconta lo storico polacco Bronislaw Geremek che alla vita dei vagabondi e dei marginali ha dedicato la carriera di studioso (in italiano con Laterza), come nel Seicento, a Parigi, capitale emergente del mondo della Ragione, appunto, viene sancito il divieto di accattonaggio. I senza casa sono rinchiusi negli “Ospedali dei poveri”. Sveglia all’alba, lavoro pesante, poco cibo, gli uomini separati dalle donne e chi non produce non mangia. In altre parole: con la Razionalità (Spinoza in quel periodo separa la filosofia dalla teologia e il mito dalla storia) nasce il modello qualche secolo più tardi conosciuto come Lager. È un modello che non prevede spazi per coloro che rifiutano l’equazione tra lavoro e felicità. E c’è chi vede negli “Ospedali dei poveri”, il prototipo della fabbrica industriale.

C’è un bellissimo e poco frequentato libro di Jack London, “Il popolo degli abissi” (Robin edizioni) che richiama le foto di Jeffries. E che testimonia come il regno della Razionalità, che a parole tenderebbe ad abolire la marginalità e la follia, in realtà le moltiplica. A partire dai poveri e dai senza casa, appunto. Lo scrittore americano, nel 1902, andò a vivere per qualche mese a East End a Londra; quartiere dei miserabili, dei pazzi, degli homeless. Il suo racconto è integrato da decine di foto: bambini che dormono sulle panche, poveri sotto la neve nei giardini pubblici, venditori di stracci. Aveva il dono dell’empatia London, come pochi scrittori prima e dopo di lui. Ecco, nel libro usa espresioni strane: «Ho visto cose che avrei preferito non vedere»; «una donna che non assomigliava più a un essere umano». E anche «sono cose inenarrabili». Ebbene, con 40 anni di anticipo, London adopera, come toccato da una premonizione, gli stessi termini che verranno usati di fronte alla necessità di narrare la Shoah. Il limite dell’indicibile si era spostato più in là dai tempi di London. Ma, l’intuizione è di Zygmunt Bauman, chi cerca di eliminare marginalità, non solo la moltiplica, finisce per sterminare le masse di presunti marginali.

Rimane il fatto che gli homeless vivono tra di noi. I dati globali parlano di cento milioni di persone, ma sono difficili da verificare. In Italia, secondo Istat e Caritas i senza fissa dimora sono oltre 50 mila. Sei su dieci si trovano in questa condizione perché hanno perso il lavoro. Più precisi i dati della Fondazione De Benedetti che riguardano la sola Milano. Nella metropoli del Nord i senza casa sono oltre 2.600. Il 72 per cento dorme in strada. Nove su dieci ha esperienze di lavoro. Hanno fiducia solo negli assistenti sociali e un po’ nel Comune. In altre parole: sono il risultato del crollo di quel modello che prevedeva la fabbrica come centro della vita e il lavoro come strumento della crescita personale.

La deindustrializzazione ha finito per far tornare nelle nostre strade i vagabondi, le Madri Coraggio, descritte nel Seicento in Germania da Grimmelshausen da cui Brecht ha tratto il suo celebre dramma; donne disposte a tutto perché hanno perso tutto. Ma poi, guardiamo le foto di Jeffries. Forse ha ragione lui; forse la sofferenza va insieme con la spiritualità, e basti pensare all’emozione che suscita anche in non credenti il corpo nudo di Cristo sulla croce (e Gesù era un vagabondo) o i corpi dei santoni indiani sulle rive del Gange a Benares; oppure basta ascoltare quel poeta che alla stazione Santa Maria Novella di Firenze la sera recita versi bellissimi, mescolati con terribili improperi in spagnolo.