Boff, Ratzinger e Francesco …

 

 

 

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Boff: “Con Francesco dialogo continuo anche se a distanza”

Il teologo della liberazione loda Ratzinger.
“Andandosene ha pensato al bene della Chiesa”

«Bisogna lodare Ratzinger».

Scusi? Ma lei è l’ex francescano Leonardo Boff, avversario storico del cardinale Joseph Ratzinger per decenni. Lei non è quello che, quando fu eletto Papa, disse che con Benedetto XVI arrivava «l’inverno della Chiesa»? Il sorriso si apre in mezzo alla folta barba candida di Boff e ci vuol poco a capire che nella Chiesa di Francesco stanno evaporando anche i conflitti teologici che hanno impegnato il Vaticano fin dagli anni Settanta.

Certo, lo scrittore brasiliano rende omaggio al Papa emerito soprattutto perché si è fatto da parte, ma per Ratzinger ha solo parole di stima. E non è la sola sorpresa che l’esponente di spicco della teologia della liberazione svela, sprofondato in una poltrona d’albergo, dopo aver aperto in anteprima la rassegna «Torino Spiritualità». Difficile fino a poco tempo fa immaginare che un autore con un profilo come quello di Leonardo Boff potesse essere considerato consulente da un pontefice. Eppure è proprio quello che Papa Francesco sta facendo con lui, racconta Boff: si scrivono e dialogano attraverso un’amica comune in Argentina.

Lei dice che Benedetto XVI merita una lode. Perché?
«Quando ha letto il rapporto sugli scandali nella Chiesa, ha capito di non avere più la forza fisica, psicologica e spirituale per affrontare un problema di questa gravità. E in forma umile e sincera, con coraggio a mio avviso, ha rinunciato. Ha voluto pensare più alla Chiesa che a se stesso».

Avete avuto un rapporto burrascoso nel corso degli anni, l’allora cardinale Ratzinger nel 1984 l’ha anche sottoposta a un «processo».
«Eravamo amici, è una persona estremamente elegante, fine, non alza mai la voce. Ha sempre mostrato per me grande rispetto. Il problema è che quando è diventato prefetto, si è rivelato troppo “tedesco”. Io predicavo una Chiesa che promuove la libertà nella società. Ratzinger lo ha capito come un discorso protestante. Mi diceva: “Così parla Lutero”. Io replicavo: “Bene, ascoltiamolo: sono 500 anni che la Chiesa non ascolta abbastanza Lutero”».

Lei ora ripone molte speranze in Papa Francesco. Perché?
«Perché prima di fare la riforma della curia, ha fatto quella del papato. Di solito uno diventa Papa e assume tutti i riti del potere. Lui ha fatto alla rovescia, è rimasto quello che era e ha abituato tutti a cambiare secondo la sua tradizione personale».

Il nome che ha scelto cosa le suggerisce?
«Più che un nome, Francesco è un progetto di Chiesa e di mondo. Una Chiesa nella povertà e umiltà umane. L’attenzione che ha il Papa per i poveri viene da questa intuizione, propria dell’America Latina. Bisogna ricordare che viene da un altro tipo di Chiesa e di teologia, è la tradizione della teologia del popolo argentina. Lui si definisce un Papa peronista e giustizialista».

Lei chiede l’apertura di un Concilio Vaticano III per riformare la Chiesa. Questa Papa riuscirà a portare il cambiamento che lei auspica?
«È molto intelligente, non vuole presiedere la Chiesa in modo monarchico, ma collegialmente. Per questo ha scelto otto cardinali di tutti i continenti che con lui faranno la riforma della curia e guideranno la Chiesa in modo collegiale. Penso sia arrivato il momento, come gli ho scritto perché mi ha chiesto un’opinione».

Dialoga con il Papa? In che modo?
«Abbiamo un’amica comune in Argentina, lui la sente ogni domenica, le parla spesso. Io mando a lei delle cose, lui me ne chiede altre».

Cosa ha suggerito al Papa fino ad ora?
«Per esempio che tutte le chiese, specie quella cattolica, sono occidentali e saranno sempre più accidentali. Andiamo verso una nuova fase dell’umanità che sarà globalizzata. La Chiesa non ha trovato un posto in questo processo, ma è ora di definirlo con le altre chiese. Le differenze dottrinali sono piccole e anche le chiese protestanti accettano un Papa che non domina, ma che fa da riferimento simbolico del cristianesimo, come fenomeno storico e memoria di Gesù».

Se guarda indietro al suo rapporto con la Chiesa, gli scontri, l’addio all’ordine francescano, ha rimpianti?
«Ho lasciato la funzione istituzionale di prete, ma non di teologo. Ho cambiato trincea, ma non battaglia. E in Brasile non ho mai avuto conflitti con la Chiesa. Continuo a fare il teologo nelle comunità di base. E io celebro, faccio battesimi, matrimoni, tutti i sacramenti quando non c’è un sacerdote. I vescovi lo sanno e mi dicono: vai avanti. Mi sento bene, in questa veste di laico. Dopotutto, Gesù non era un sacerdote».




il metodo di papa Francesco: lontano dalle grandi ecicliche?

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A. Prosperi ne ‘la Repubblica’ di oggi riflette sul metodo umanissimo di papa Francesco che sconvolge ogni ritualità e formalismo:

 

Il metodo di Francesco

di Adriano Prosperi
C’è una strategia che si dispiega sotto i nostri occhi negli atti e nelle parole di papa Francesco: fermarsi alla superficie, allo sconvolgimento delle forme rituali dei contatti e degli approcci, ci farebbe perdere di vista la sostanza. Un giornale gli pone alcune domande: e lui risponde con disponibilità larghissima di parole e spontanea e dimessa gentilezza di forme. Siamo lontani dall’epoca delle lettere encicliche. Lo dice un semplice confronto con l’ultima, appena uscita a due nomi, quello del papa dimissionario e quello di quest’uomo che non definiremo “pontefice regnante” ma piuttosto un uomo che tasta cautamente il terreno del governo della Chiesa ma che, intanto, guarda fuori dalle mura vaticane, saggia uomini e coglie occasioni. La lettera a Eugenio Scalfari arriva dopo la visita a Lampedusa; e dopo la parola sottolineata nella sua visita al Centro Astalli di Roma: “Solidarietà, questa parola che fa paura per il mondo sviluppato. Cercano di non dirla. È quasi una parolaccia per loro. Ma è la nostra parola”. Il dialogo con Scalfari è un esempio del metodo di Francesco. Un non credente di convinzioni illuministiche e razionaliste ha invitato il Papa a un dialogo, a un confronto di idee e di convinzioni intellettuali; e lui ha accolto immediatamente e con grandissima disponibilità l’invito. Ma come ha risposto? Ha aperto il suo cielo cristiano senza limiti a chi segue la retta coscienza e così ha spostato il terreno dalla teologia e dai dogmi alla morale. E ha dato una bella lezione a questa Italia di cui Leopardi scriveva che “non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana… sia più rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno”. Cioè poco creduta dentro e poco praticata fuori. Morale, non dogma. Nell’Italia dove i monsignori vaticani dovevano meditare non molto tempo fa se si poteva concedere l’Eucarestia a un divorziato molto ricco e molto potente, oggi si comincia a parlare un’altra lingua. Intorno alla solidarietà si gioca l’offerta di un gran pezzo di strada da fare insieme tra gli eredi della dichiarazione settecentesca dei diritti, dove la fraternità saldava il nodo tra libertà e uguaglianza, e gli eredi del celebre, indimenticabile elogio della carità di San Paolo. Che ce ne sia bisogno, in Italia, non c’è dubbio. Da quando il crollo del muro di Berlino ha seppellito l’idea della lotta per una maggiore giustizia sociale, rivolta a quelli che l’inno dei lavoratori di Filippo Turati chiamava “fratelli e compagni”, si è imposta una morale d’uso che vede dovunque “un mercato e in tutto la specolazione”, per dirla con le parole del giacobino Vincenzio Russo. In questa Italia d’oggi, la parola di papa Francesco comincia a scuotere un’opinione pubblica dove, come dicono i sondaggi, c’è un gran mucchio di persone che concepisce la libertà come qualcosa che va in direzione opposta rispetto all’uguaglianza. Qui, grazie a una poliennale e pervasiva educazione morale a mezzo televisione, al vincolo collettivo della solidarietà si oppone il diritto all’egoismo come esito necessario della libertà: libertà di godimento dei beni che mi so procurare; libertà di evadere anche il fisco; sacro egoismo in un mondo abitato dalla belva umana, che consapevole della brevità della vita vuole godere di tutto quello che si offre ai suoi appetiti e attraversa ogni volta che può le barriere fissate dalla legge. E se i giudici lo condannano, noi vediamo quello che fa. La partita che si è aperta è questa: riguarda la morale. La loro morale e la nostra, si potrebbe dire con un celebre scritto di Lev Trotzski (molto favorevole ai gesuiti). Fu su questo terreno che le avanguardie missionarie del cristianesimo europeo varcarono i limiti teologici tra cristianesimo e cultura cinese. Poi però ci fu nella Chiesa chi li condannò come eretici. Oggi un gesuita è diventato papa. Ma intanto molte cose sono cambiate. Tra la morale della Chiesa quale abbiamo visto all’opera in tanti recenti e laceranti conflitti nel paese Italia, dominato ancora dalle regole del Concordato del 1929, e quella dei diritti di libertà sanciti nelle costituzioni moderne a partire dal 1789, esistono fratture profonde. A questo ha fatto una delicata allusione ieri su la Repubblica
Umberto Veronesi. Ma la cosa è così importante che bisogna ricordarla ancora, a rischio di sembrare importuni. È qui che aspettiamo alla prova quest’uomo di buona volontà che oggi siede sul trono di Pietro.




papa Francesco delude le donne

gatto nero

La “porta chiusa” di papa Francesco

La delusione delle donne sul tema del sacerdozio femminile

Se i riconoscimenti tributati a papa Francesco in occasione della Giornata mondiale della gioventù dello scorso luglio sono stati tanti ed entusiastici, molte donne sono rimaste però profondamente deluse dalle sue parole di chiusura rispetto all’ordinazione femminile: «Questa porta è chiusa», aveva detto il papa nel suo colloquio con i giornalisti sul volo di ritorno dalla Gmg, aggiungendo che una «teologia della donna» resta ancora da fare e che, come Maria è più importante degli apostoli, così la donna nella Chiesa lo è rispetto a vescovi e preti.

Non ha nascosto il suo disappunto, in un articolo pubblicato su Brasil de Fato (2/8), la nota teologa brasiliana Ivone Gebara, la quale, pur riconoscendo come, «di fronte alle acclamazioni generali», qualsiasi annotazione critica «potrebbe risultare inopportuna», esclama: «Dopo tanti anni di lotta, povera me, se me ne stessi zitta!». La teologa non nasconde la gioia provata «nel sentire la simpatia, l’affetto e la vicinanza» del papa argentino come pure la coerenza di alcune posizioni rispetto alle strutture della Curia romana, ma si domanda: «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?». Evidenziando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». E, rivolgendosi a Bergoglio, lo invita ad informarsi «su alcuni aspetti della teologia femminista, almeno nel mondo cattolico. Forse – aggiunge – il tuo possibile interesse potrebbe aprire percorsi nuovi per cogliere il pluralismo di genere nella produzione teologica!». Quanto alle parole del papa sulla grandezza di Maria, si tratta ancora una volta, sottolinea, di un’espressione consolatoria astratta della teologia maschile: «Si ama la Vergine distante, e vicina all’intimità personale, ma non si ascoltano le grida delle donne in carne e ossa. È più facile innalzare lodi alla Vergine e inginocchiarsi di fronte alla sua immagine che rivolgere l’attenzione a quel che avviene alle donne in molti luoghi lontani del nostro mondo». Di più: il rischio, a suo giudizio, è che, se Benedetto XVI, «con le sue posizioni rigide», aveva alimentato «una critica del clericalismo e dell’istituzione papale», ora molti fedeli e operatori di pastorale «si abbandonino alla simpatica e amorevole figura di Francesco promuovendo un nuovo clericalismo maschile e una nuova forma di adulazione del papato». «Il momento – conclude – esige prudenza e una critica vigile, non per screditare il papa, ma per aiutarlo» a realizzare «una Chiesa plurale e rispettosa dei suoi molti volti». Ma Ivone Gebara non è l’unica delusa.

Nel suo blog su Religión Digital, la teologa laica Patricia Paz, pur convinta della necessità di condurre una rilettura del ministero ordinato «alla luce del Vangelo e della prassi di Gesù» e dunque «non particolarmente interessata» alla questione dell’ordinazione delle donne, rivolge una critica dettagliata alle parole del papa. «Possono esserci – si chiede – formulazioni definitive in un mondo in cui si scoprono in ogni momento cose nuove e cadono paradigmi di ogni tipo?». E aggiunge: «Che dolore sentire che qualcosa di tanto importante per tanta gente si scontri con una “porta chiusa”! Forse non seguiamo Gesù proprio perché ha aperto tante porte», superando «paradigmi sociali, culturali e religiosi?». E ancora: «Mi risulta inaccettabile continuare a sentir parlare delle donne come se fossimo un gruppo di persone immature che non possono assumere decisioni e hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne». Non se ne può più, dice, del fatto «che esaltino la nostra dignità, la nostra importanza, il nostro genio e poi ci escludano». E, infine, «in che senso siamo più importanti dei vescovi e dei preti se manchiamo di autorità e di potere decisionale?».

È quanto sottolinea anche la teologa statunitense Mary Hunt, contestando «la stessa teologia trita e ritrita secondo cui la Vergine Maria è più importante di chiunque altro nella storia» quando «di fatto le donne non possono prendere decisioni a livello ecclesiale né esercitare il ministero sacramentale e neppure compiere scelte etiche». Respingendo qualsiasi esaltazione della donna che non sia accompagnata da «cambiamenti strutturali concreti», la teologa assicura che «le donne non resteranno a guardare passivamente gli uomini, papa compreso, mentre cercano scuse» per il rifiuto dell’ordinazione femminile. (claudia fanti)

da: Adista Notizie n. 29 del 31/08/2013




A. Potente ricorda il teologo Chiavacci

 

 

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“Chiavacci, teologo classico e postmoderno”

di Antonietta Potente

Non amo fare commemorazioni di nessun genere e, ancor meno, di persone con le quali ho condiviso parte del cammino professionale. Oltre tutto, in questo caso mi viene chiesto di ricordare un collega che incontrai a Firenze quando ero appena all’inizio del mio itinerario riflessivo nell’ambito dell’università, un ambito diverso da quello da cui provenivo. Dunque, conosciuto prima attraverso la sua sintesi e poi conosciuto personalmente.

Con Enrico Chiavacci, avevo una sintonia di fondo, la stessa passione: la realtà contemporanea, con le sue più intriganti trasformazioni. La metodologia, l’approccio, lo stile, certamente erano diversi e, inoltre, dopo pochi anni persi le sue tracce, perché io feci il salto nell’altra prospettiva e partii per il Sudamerica. Così di Enrico Chiavacci, mi arrivavano solo echi e sintesi di pensiero scritte. Non lo sentii mai, in tutti questi anni, perdere il gusto e la passione per le problematiche storiche. Le sue sintesi etiche non lasciavano mai un gusto puramente ecclesiale. Le coordinate su cui si muoveva erano molto vaste, anche se il suo osservatorio non ha mai lasciato il territorio fiorentino.Ed è proprio questo che mi sembra di dover ricordare di Enrico Chiavacci: il suo pensiero era accompagnato e supportato dalla ricchezza del “suo” territorio geografico e culturale, oltre che ambientale. Chiavacci era un teologo colto e la sua morale sociale, oltre ad ispirarsi al clima postconciliare (i suoi commenti alla Gaudium et Spes erano sempre molto belli), si ispirava, a mio avviso, a questo ricco bagaglio culturale, che ispirava in lui anche la sua teologia.Acuto e critico, come un vero teologo postconciliare; e postmoderno, come chi non vuole mistificare la realtà. Ed è proprio questa realtà che si ritrova costantemente nei suoi testi, l’ambigua realtà che lui sapeva mettere in luce per trovare vie di un’etica cristiana saggiamente dialogante.

Enrico Chiavacci ha ispirato molte persone; molti studenti che attualmente sono preti della Chiesa fiorentina e, sottolineo, ha ispirato, perché la sua non mi risulta sia stata una scuola, ma piuttosto la consegna di elementi e strumenti, criteri di lettura importanti perché ciascuno impari a rileggere la vita e la storia che la vita faticosamente partorisce. Allora, forse, tra questi studenti che oggi sono preti fiorentini, si trovano persone diverse, impegnate nella storia in modo diverso, perché ciascuno ha ricevuto da Enrico Chiavacci strumenti di lettura, informazioni preziose, criteri di conoscenza delle situazioni.Come tante altre persone, anche Enrico Chiavacci, sparisce lasciando una scia tra luci e ombre che, a mio avviso non significano aspetti positivi e negativi, ma piuttosto tanti interrogativi.

Domande inquiete a cui aveva dedicato il suo studio attento e la sua fine e distinta passione per la realtà. Chiavacci infatti nella mia memoria, resta come un acuto, fine e distinto teologo della contemporaneità, proprio come la sua cravatta.Non patetico, ma elegantemente solidale. Non eroe, o rivoluzionario, ma intelligentemente impegnato a rileggere l’etica cristiana in mezzo alle molteplici ambiguità del cristianesimo e della Chiesa contemporanea.

* teologa domenicana




p. Pagola commenta tl vangelo

bel crocifisso

IL GESTO PIÙ SCANDALOSO

commento di p. Pagola al vangelo di domani 15.9.2013, 24° domenica del tempo ordinario

Lc 15, 1-32

Il gesto più provocante e scandaloso di Gesù fu, indubbiamente, il suo modo di accogliere con speciale simpatia peccatrici e peccatori, esclusi dai capi religiosi e marcati socialmente per la loro condotta ai margini della Legge. Quello che più irritava era la sua abitudine di mangiare amichevolmente con loro.

Di solito dimentichiamo che Gesù ha creato una situazione sorprendente nella società del suo tempo. I peccatori non fuggono da lui. Al contrario, si sentono attratti dalla sua persona e dal suo messaggio. Luca ci dice che i peccatori e i pubblicani erano soliti avvicinarsi a Gesù per ascoltarlo. Sembra che trovino in lui un’accoglienza e una comprensione che non trovano da nessun’altra parte.

Nel frattempo, i settori farisei e i dottori della Legge, gli uomini di maggior prestigio morale e religioso davanti al popolo, sanno solo criticare scandalizzati il comportamento di Gesù: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro. Come può un uomo di Dio mangiare alla stessa mensa con quella gente peccatrice e spregevole?

Gesù non ha mai fatto caso alle loro critiche. Sapeva che Dio non è il Giudice severo e rigoroso di cui parlavano con tanta sicurezza quei maestri che occupavano i primi posti nella sinagoga. Egli conosce bene il cuore del Padre. Dio capisce i peccatori; offre il suo perdono a tutti, non esclude nessuno; perdona tutto. Nessuno deve oscurare e sfigurare il suo perdono insondabile e gratuito.

Per questo Gesù offre loro la sua comprensione e la sua amicizia. Quelle prostitute e quegli esattori devono sentirsi accolti da Dio. È la prima cosa. Non devono temere nulla. Possono sedersi alla sua mensa, possono bere vino e cantare cantici insieme a Gesù. La sua accoglienza li va guarendo dal di dentro. Li libera dalla vergogna e dall’umiliazione. Ridona loro la gioia di vivere.

Gesù li accoglie così come sono, senza esigere da loro previamente nulla. Li va contagiando della sua pace e della sua fiducia in Dio, senza essere sicuro che risponderanno cambiando la loro condotta di vita. Lo fa confidando totalmente nella misericordia di Dio che li sta già aspettando con le braccia aperte, come un padre buono che corre incontro al suo figlio perduto.

Il primo compito di una Chiesa fedele a Gesù non è condannare i peccatori, ma comprenderli e accoglierli amichevolmente. A Roma ho potuto costatare qualche mese fa che ogni volta che Papa Francesco insisteva che Dio perdona sempre, perdona tutto, perdona tutti…, la gente applaudiva con entusiasmo. Certamente è quello che tanta gente di fede piccola e vacillante ha bisogno di ascoltare oggi con chiarezza dalla Chiesa.

José Antonio Pagola




p. Maggi commenta il vangelo

 

 

XXIV DOMENICA DEL  TEMPO ORDINARIO

15 settembre 2013

croce

CI SARA’ GIOIA IN CIELO PER UN SOLO PECCATORE CHE SI CONVERTE Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 15,1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

 Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi.
Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

“Siate santi perché io sono santo”. E’ questo l’imperativo che cadenza i libri dell’Antico Testamento. Ebbene, quest’invito alla santità mai risuona, stranamente, nelle parole di Gesù. Mai Gesù invita gli uomini alla santità. Perché?
La santità intesa come osservanza di regole, di leggi, di precetti, che, se messi in pratica poi allontanano dal resto della gente, non fa parte del panorama dell’invito di Gesù. Gesù sostituisce “siate santi” col “siate compassionevoli”. Mentre la santità separa dal resto delle persone, la compassione è ciò che avvicina.
Le persone, attraverso la santità, attraverso l’accumulo di preghiere, di devozioni, pensano di salire per poter raggiungere il Signore. E, d’altro canto il Signore è sceso proprio per incontrare gli uomini, allora le persone pie, le persone religiose, salgono per incontrare il Signore, e non lo incontrano mai perché il Signore è sceso per incontrare gli uomini.
Da qui è l’incompatibilità, e poi l’ostilità, tra il mondo della religione, delle persone religiose, e Gesù. E’ quello che ci insegna questo bellissimo brano, il capitolo 15 del vangelo di Luca di questa domenica. Scrive l’evangelista, “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo”. Gesù ha appena posto le tre radicali condizioni per seguirlo, essere liberi dagli affetti, dai vincoli familiari, libertà dalla propria reputazione, prendere la croce, liberi dal possesso dei beni. 2
Quindi sono condizioni abbastanza severe, dure, e aveva concluso il suo insegnamento con le parole “chi ha orecchie per ascoltare ascolti”. Quelli che hanno orecchie per ascoltare si sentono attratti da questo messaggio anche se molto impegnativo, molto severo, sono i rifiuti della società: i pubblicani, gli esattori del dazio, che erano considerati irrimediabilmente impuri, e i peccatori. Peccatori in generale si intende tutti quelli che non vogliono o non possono osservare tutti i comandi della legge.
Ebbene, bisognerebbe rallegrarsi che finalmente questa gente che si è sentita sempre emarginata, esclusa e che vive indubbiamente nell’inganno e vive nel peccato, accorra a Gesù. No! Le persone religiose di questo non si rallegrano. Lo zelo della loro dottrina, lo zelo che mettono nella difesa della legge è come una trave conficcata nel loro occhio che impedisce di scorgere quell’unico sguardo possibile, quello dell’amore, della compassione.
Infatti ecco la reazione, “I farisei”, pii laici che mettevano in pratica tutti i precetti della legge, “e gli scribi”, zelanti custodi dell’ortodossia, “mormoravano” – non sono d’accordo, mormorano – “«Costui …»” Queste persone pie, è una costante dei vangeli, si rivolgono a Gesù sempre con un’espressione carica di astio e di disprezzo, mai lo nominano, evitano sempre di nominare Gesù. Costui, questo. “«… Accoglie i peccatori e mangia con loro»”.
Sono due crimini intollerabili. I peccatori non vanno accolti, ma vanno evitati, non vanno accolti ma bisogna minacciarli. E Gesù, non soltanto li accoglie, mangia con loro. Mangiare con una persona che è impura significa che la sua impurità si trasmette agli altri. Le persone religiose non hanno capito che con Gesù è finita l’epoca in cui i peccatori devono purificarsi per accogliere il Signore, ma è iniziata quella in cui l’accoglienza del Signore è quello che purifica. Ma non lo capiscono.
Ebbene, a loro – quindi non è rivolta al gruppo di discepoli – Gesù dice una parabola che è articolata in tre parti, la prima è quella del pastore che perde una pecora sui monti e lascia le novantanove in cerca della pecora perduta e, dice l’evangelista “Quando l’ha trovata, pieno di gioia”, e la gioia sarà la caratteristica di tutto questo brano, sarà ripetuto il termine “gioia” e l’espressione “rallegrarsi”.
Quello che farisei e scribi non hanno mai capito è che Dio, anziché preoccuparsi di essere obbedito e rispettato, è preoccupato per la felicità degli esseri umani. E’ questo che il Signore ha a cuore. Quindi, “pieno di gioia, se la carica sulle spalle”. La pecora perduta è immagine di un peccatore che se ne è andato. Ebbene, quando il pastore la trova, non la minaccia, non la prende a calci nel sedere, ma se la mette sulle spalle, cioè le comunica la sua forza a colei che forza non ha.
E poi chiama tutti gli amici per rallegrarsi. Ugualmente per la parabola della moneta perduta, anche questa accomunata dalla stessa espressione dell’invito alla gioia. E infine, la terza, la più articolata, dove si parla di quel figlio scellerato che torna dal padre non perché gli mancasse il padre, ma gli mancava il pane; non per il rimorso, ma per il morso della fame.
Ebbene torna e non trova un giudice, ma trova quasi una figura materna, piena d’amore. E il padre, nella sequela di azioni che l’evangelista elenca, il vestito, l’anello e i sandali, vuole
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restituire al figlio un’autorità più grande di quella che aveva avuto prima, una dignità come mai aveva conosciuto, e una grande libertà.
Perché questo è Dio, Dio comunica amore e lo comunica in una maniera assoluta. Il Dio di Gesù non è buono, ma è esclusivamente buono.
Ebbene, qual è la reazione a tutto questo? Gesù ce lo dice nel finale di questa parabola dove presenta il figlio più grande che si trovava nel campo. Torna a casa, sente gioia nella casa del lutto, avrebbe dovuto precipitarsi, ma no, nella casa del padre c’è soltanto serietà e mestizia, lui non capisce cosa sia la gioia, la felicità.
E non vuole entrare, manda un servo a chiedere. E il servo gli dice che è tornato il fratello. Mentre il padre, espressione dell’amore di Dio, si rallegra, questo fratello maggiore, immagine di scribi e farisei, si indigna. Ecco, come si diceva prima, è lo zelo per la dottrina che acceca le persone e impedisce loro di guardare a situazioni e avvenimenti con l’unico occhio con cui è possibile guardare, quello della carità.
Gesù ridicolizza l’atteggiamento di questo figlio e ne fa una caricatura di come la religione possa rendere infantili le persone. Ed ecco come piagnucola questo figlio maggiore, “«Io ti servo da tanti anni, non ho mai disobbedito a un tuo comando e non mi hai dato mai un capretto»”.
E’ l’immagine della persone che serve Dio, non ha la relazione del figlio con il padre, ma quella di un servo. E per questo obbedisce a suo padre e non gli assomiglia nel comportamento. Il Dio di Gesù non chiede obbedienza, ma chiede assomiglianza al suo amore.
E per questo si aspetta la ricompensa, lui non collabora all’azione del padre. Quindi è una caricatura molto feroce che Gesù fa delle persone religiose che rimangono sempre in una condizione di infantilismo e per questo spiano e sono gelosi della libertà che il Signore concede a quanti lo accolgono.
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celibato dei preti: ritorna la discussione

VATICAN-SIRYA-POPE-PRAYER

Celibato dei preti: una “discussione” in vista in Vaticano?

di Stéphanie Le Bars

 Una breve frase sul celibato dei preti, pronunciata dal nuovo numero due del Vaticano, Pietro Parolin, attualmente nunzio apostolico in Venezuela, annuncia forse un cambiamento importante nella “tradizione” della Chiesa cattolica? Difficile per ora dare un giudizio. In un’intervista pubblicato dal quotidiano venezuelano El Universal l’8 settembre, il segretario di Stato, che entrerà in carica il 15 ottobre, ricorda che il celibato dei preti “non è un dogma” e che questa “tradizione ecclesiastica può essere discussa”. Questo tema è già stato affrontato da questa angolazione da diversi cardinali in questi ultimi anni, in particolare come una risposta possibile alla crisi delle vocazioni nei paesi occidentali, ma i vertici vaticani avevano immediatamente chiuso la porta, cosa che il papa attuale non ha, per il momento, ancora fatto. Mai questo argomento era stato affrontato a un così alto livello nel governo del Vaticano, ma Mons. Parolin tende a sminuire l’importanza della cosa, affermando: “Bisogna tener presente lo sforzo che ha fatto la Chiesa per instaurare il celibato dei preti. Non si può dire semplicemente che appartiene al passato. È una grande sfida per il papa, che è a capo del magistero dell’unità, e tutte le decisioni devono essere prese con l’obiettivo di unire la Chiesa, non di dividerla”, ha proseguito Mons. Parolin. “Possiamo anche parlare, riflettere e approfondire questi temi e pensare a delle modifiche, ma sempre tenendo conto dell’unità, della volontà di Dio (…) o dell’apertura ai segni dei tempi”. L’idea originale di Jorge Bergoglio nel 2010 Dopo che il Concilio di Trento, tenutosi alla metà del XVI secolo, ha “rafforzato” questa misura, applicata progressivamente nella Chiesa “nel corso del primo millennio”, tutti i papi hanno riaffermato questa regola. Jorge Bergoglio non ha mai affrontato l’argomento come papa, ma nel 2010, quando era arcivescovo di Buenos Aires, si era dichiarata favorevole “al mantenimento per il momento del celibato con i suo vantaggi e i suoi svantaggi”. Se un cambiamento dovrà esserci, aggiungeva, “sarà per ragioni culturali, in un luogo preciso e non in maniera universale”. Un approccio originale che sarebbe difficilmente mantenibile con l’esigenza “di unità della Chiesa” che Mons. Parolin ha ricordato nell’intervista. A parte questa uscita sul celibato, Mons. Parolin inserisce chiaramente il nuovo pontificato nella continuità. “La Chiesa ha una costituzione, una struttura, un contenuto che sono quelli della fede, e nessuno può cambiarli”.




Mancuso sulla lettera del papa a Scalfari

 

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merita di essere letto attentamente l’articolo odierno di Vito Mancuso su ‘la Repubblica’ in riferimento alla lettera di papa Francesco a Scalfari: è un buon contributo alla riflessione.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino

di Vito Mancuso

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”. Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno. Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”. “Scimmia pensante… bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura
dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”. Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico. Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo. Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.




bisogno di teologia della liberazione?

 

Boff
Perché ritorna la teologia della liberazione?

di Aldo Maria Valli

  Papa Francesco che riceve a Santa Marta Gustavo Gutiérrez, il padre della teologia della liberazione, è una notizia. Una visita in qualche modo anticipata dall’Osservatore romano che aveva parlato diffusamente del sacerdote peruviano. È vero che il domenicano, a differenza di altri esponenti di quel filone teologico, non è mai stato condannato da Roma, ed è altrettanto vero che l’attuale prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, è addirittura un allievo di Gutiérrez nonché suo intimo amico. Ma lo spazio che il giornale della Santa Sede ha recentemente dedicato al libro scritto da Gutierrez e Müller (Dalla parte dei poveri. Teologia della liberazione, teologia della Chiesa, Edizioni Messaggero – Emi) segna comunque una svolta ed è indice di un clima cambiato. L’edizione italiana del libro scritto da Gutiérrez e Müller (uscito in Germania nel 2004) è stata presentata nei giorni scorsi a Mantova alla presenza dei due autori e anche a questo incontro l’Osservatore romano ha dato spazio grazie a una bella intervista di padre Ugo Sartorio al teologo peruviano. Nel libro il teologo Müller mette nero su bianco: «Il movimento ecclesiale e teologico dell’America Latina, noto come teologia della liberazione e che dopo il Vaticano II ha trovato un’eco mondiale, è da annoverare, a mio giudizio, tra le correnti più significative della teologia cattolica del XX secolo». E ancora: «Solo per mezzo della teologia della liberazione la teologia cattolica ha potuto emanciparsi dal dilemma dualistico di aldiquà e aldilà, di felicità terrena e salvezza ultraterrena». Papa Francesco è su questa stessa linea. Il che non autorizza certamente a sostenere che il pontefice argentino sia diventato un supporter della teologia della liberazione. Lui, semmai, è legato alla cosiddetta teologia del pueblo, che ha in Lucio Gera (immigrato italiano arrivato in Argentina da bambino) il fondatore e che recupera la religiosità popolare e accoglie l’opzione preferenziale per i poveri rifiutando però la dottrina marxista della lotta di classe e il rischio di ridurre la Chiesa a una sorta di agenzia sociale. Tuttavia è indubbio che in altri tempi il giornale della Santa Sede non avrebbe dedicato tanta attenzione a Gutierrez. Papa Francesco sa bene che il confronto con la cultura atea, terreno privilegiato da Joseph Ratzinger e in generale dalla teologia europea, non può essere l’unico sul quale impegnarsi. Certo, resta un terreno importante (come dimostra la lettera inviata dal papa a Eugenio Scalfari), ma accanto ad esso occorre recuperare quell’altra grande sfida rappresentata dalle vecchie e nuove povertà. Una sfida che la Chiesa può raccogliere in modo credibile e fruttuoso soltanto se a sua volta vive la povertà. In questo senso l’esperienza del teologo Müller è significativa. L’attuale prefetto dell’ex Sant’Uffizio conobbe Gutierrez e la teologia della liberazione negli anni Ottanta, durante un soggiorno in Perù. Vissero due settimane con i contadini delle Ande e con i poveri delle baraccopoli e solo dopo tennero una settimana di riflessione e di studio. Fu così che Müller capì che la teologia della liberazione non nasceva da una disputa teorica ma aveva concretamente a che fare con la vita dura e con la sofferenza dei poveri e con le cause che provocano la povertà. Papa Bergoglio è passato da un’esperienza analoga. Anche lui, in Argentina, ha toccato con mano la povertà ed è andato dai poveri, e anche lui, come Müller, ritiene che se il marxismo è stato il grande problema del XX secolo, il neoliberismo selvaggio è il grande scandalo del secolo XXI. Ecco perché Francesco, pur condannando un certo “progressismo adolescenziale” che ancora fa breccia nei cuori di alcuni cattolici, non esita a recuperare quanto, dal suo punto di vista, ci può essere di buono e di valido nella teologia della liberazione. Ed ecco perché, come spiega padre Sartorio sull’Osservatore, «con una papa latinoamericano, la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da alcuni anni, almeno in Europa».




 

Paoli
Fratel Arturo Paoli

dialogo sull’uomo e su Dio

a Palazzo Ducale, Lucca
Giovedì, 12 Settembre 2013 

La riflessione sull’uomo e il suo viaggio interiore verso se stesso e verso Dio è stato il tema dell’incontro che si è svolto oggi (12 settembre), a Palazzo Ducale, organizzato da Provincia, Comune di Lucca e Scuola per la Pace. A introdurre l’incontro il presidente della Provincia Stefano Baccelli e il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini. Dopo la proiezione del video dedicato al Volto Santo realizzato dalla giovane autrice Silvia Bellia, gli interventi dell’arcivescovo Italo Castellani e di fratel Arturo Paoli, moderati da Ilaria Vietina, vice-sindaco del Comune di Lucca, nonché coordinatrice della Scuola per la Pace.