sgombe-rom di S. Bontempelli

 

sgomberom

Anche nei paesi di origine si praticano quotidianamente sgomberi e allontanamenti forzati. La denuncia di Amnesty

 Ruspe in azione: una ditta ha acquistato un terreno per costruirvi un centro commerciale, e le precarie abitazioni che punteggiano l’area devono essere demolite. I mezzi pesanti buttano giù i muri, portano via i detriti e si accaniscono sugli effetti personali degli abitanti.
In quegli alloggi risiedevano stabilmente una trentina di famiglie rom: circa 150 persone, molte delle quali minorenni. Che ora si ritrovano in mezzo a una strada: nessun assistente sociale ha fornito a questa piccola comunità una qualche soluzione alternativa, e il Comune, più volte sollecitato, ha fatto orecchie da mercante.
Potrebbe essere la descrizione di uno dei tanti sgomberi che avvenivano – e avvengono tuttora – in molte città italiane. Potremmo essere a Roma, nei quartieri della periferia capitolina. O a Milano, in qualche terreno occupato dai rom romeni. O ancora a Bologna, nei campi lungo il fiume Reno.
E invece no, non siamo in Italia. Siamo nella capitale dell’Albania, Tirana, nell’area chiamata Rruga Kavaja. I rom sgomberati – tutti albanesi “autoctoni” – sono finiti in mezzo a una strada, nonostante le proteste delle Ong e la denuncia di Amnesty International. Proprio come accadeva – e accade tuttora – in Italia.
Gli sgomberi forzati non sono una peculiarità del Belpaese. E il caso di Rruga Kavaja non è un’eccezione nemmeno nei territori dell’Est Europa, dove i rom sono una minoranza numericamente importante. Amnesty International ha recentemente pubblicato un dettagliato rapporto sul fenomeno degli sgomberi forzati in Romania, paese di origine di molti rom immigrati in Italia (qui il testo).
I romeni più anziani ricordano ancora le folli politiche di Ceausescu, che negli anni ’70 varò il cosiddetto “programma di sistematizzazione”: interi villaggi, soprattutto nelle aree rurali, dovevano essere cancellati, e la popolazione trasferita nelle metropoli, o comunque nelle città più grandi. L’obiettivo era l’urbanizzazione della società rumena e la sparizione dei piccoli borghi di campagna. Secondo alcune stime, furono demoliti almeno 500 villaggi, e migliaia di persone furono costrette a traslocare nei “blocuri”, i casermoni fatiscenti delle periferie urbane.
Quelle vicende appartengono al passato (per fortuna). Eppure, anche oggi la Romania promuove trasferimenti forzati di popolazione: le vittime non sono più i contadini romeni, come ai tempi di Ceaucescu, ma le minoranze etniche. Soprattutto, manco a dirlo, i rom.

Emblematico è il caso di Baia Mare, capoluogo del distretto di Maramureş nella regione storica della Transilvania. Qui, nel sobborgo di Craica – il “quartiere rom” della città – circa 500 persone sono state allontanate con la forza: le loro case sono state demolite dalle ruspe, proprio come accade in Italia, e gli abitanti sono stati trasferiti nell’ex area industriale di Cuprum, all’esterno della cinta urbana.
«Al momento dello sgombero dell’insediamento di Craica», denuncia Amnesty, «gli edifici di Cuprum non vennero adattati ad un uso residenziale. A ciascuna famiglia furono assegnate una o due stanze, senza riscaldamento e con strutture igienico-sanitarie fatiscenti. I servizi igienici erano in comune, e ciascun bagno era condiviso da almeno 20 persone. Non c’erano cucine, e i rom dovevano improvvisare la preparazione dei cibi in camera da letto».
Lo sgombero a Craica è avvenuto in varie tappe, ma il ciclo più intenso di demolizioni e trasferimenti si è registrato tra Maggio e Giugno del 2012: guarda caso, proprio nel periodo della campagna elettorale per le amministrative. Il Sindaco Cătălin Cherecheș, esponente del centro-destra ed ex deputato, doveva farsi rieleggere, e gli “zingari” sono sempre un buon argomento per chi è a caccia di consensi. Il 10 Giugno, gli elettori hanno premiato l’intraprendenza del primo cittadino, regalandogli una rielezione con l’86 dei voti: una percentuale che, se non fossimo in Romania, potremmo definire bulgara…

Secondo dati diffusi recentemente da Amnesty International, in Romania vivono 1 milione e 850.000 rom, che rappresentano l’8,63 per cento della popolazione totale. L’80 per cento vive in condizioni di povertà, e quasi il 60 per cento risiede in “comunità segregate” senza accesso ai servizi pubblici essenziali. Il 23 per cento delle famiglie rom (su una media nazionale del 2 per cento) subisce multiple privazioni relative all’alloggio, tra cui il mancato accesso a fonti d’acqua potabile e a servizi igienico-sanitari.
E’ in questo quadro che va collocato il fenomeno degli sgomberi forzati. Le comunità rom abitano per lo più nei sobborghi poveri delle grandi città, o in villaggi rurali segregati dal contesto circostante. Questi insediamenti esistono da tempo, e molte famiglie vi abitano da decenni (a volte addirittura dal periodo socialista): spesso, però, non hanno titoli di proprietà formalizzati. Così, può accadere che una multinazionale, o un grande proprietario, acquistino un terreno o un villaggio, e i rom da un giorno all’altro diventino “abusivi” da cacciare e allontanare.

Perché è importante tutta questa storia? Perché spesso, in Italia, sentiamo parlare di sgomberi di rom stranieri. E alla domanda “dove vanno le famiglie sgomberate?” segue invariabilmente il ritornello “in Italia sono ospiti, che se ne tornino a casa loro”.
Ecco, è giusto sapere che le discriminazioni esistono ovunque, anche nei paesi di origine. E che “gli zingari” sono considerati stranieri un po’ dappertutto. Anche «a casa loro».

Sergio Bontempelli




Chiavacci visto da Antonietta Potente

 

 

coccinelle
“Chiavacci, teologo classico e postmoderno”

di Antonietta Potente

 

Non amo fare commemorazioni di nessun genere e, ancor meno, di persone con le quali ho condiviso parte del cammino professionale. Oltre tutto, in questo caso mi viene chiesto di ricordare un collega che incontrai a Firenze quando ero appena all’inizio del mio itinerario riflessivo nell’ambito dell’università, un ambito diverso da quello da cui provenivo. Dunque, conosciuto prima attraverso la sua sintesi e poi conosciuto personalmente.

Con Enrico Chiavacci, avevo una sintonia di fondo, la stessa passione: la realtà contemporanea, con le sue più intriganti trasformazioni. La metodologia, l’approccio, lo stile, certamente erano diversi e, inoltre, dopo pochi anni persi le sue tracce, perché io feci il salto nell’altra prospettiva e partii per il Sudamerica. Così di Enrico Chiavacci, mi arrivavano solo echi e sintesi di pensiero scritte. Non lo sentii mai, in tutti questi anni, perdere il gusto e la passione per le problematiche storiche. Le sue sintesi etiche non lasciavano mai un gusto puramente ecclesiale. Le coordinate su cui si muoveva erano molto vaste, anche se il suo osservatorio non ha mai lasciato il territorio fiorentino.Ed è proprio questo che mi sembra di dover ricordare di Enrico Chiavacci: il suo pensiero era accompagnato e supportato dalla ricchezza del “suo” territorio geografico e culturale, oltre che ambientale. Chiavacci era un teologo colto e la sua morale sociale, oltre ad ispirarsi al clima postconciliare (i suoi commenti alla Gaudium et Spes erano sempre molto belli), si ispirava, a mio avviso, a questo ricco bagaglio culturale, che ispirava in lui anche la sua teologia.Acuto e critico, come un vero teologo postconciliare; e postmoderno, come chi non vuole mistificare la realtà. Ed è proprio questa realtà che si ritrova costantemente nei suoi testi, l’ambigua realtà che lui sapeva mettere in luce per trovare vie di un’etica cristiana saggiamente dialogante.

Enrico Chiavacci ha ispirato molte persone; molti studenti che attualmente sono preti della Chiesa fiorentina e, sottolineo, ha ispirato, perché la sua non mi risulta sia stata una scuola, ma piuttosto la consegna di elementi e strumenti, criteri di lettura importanti perché ciascuno impari a rileggere la vita e la storia che la vita faticosamente partorisce. Allora, forse, tra questi studenti che oggi sono preti fiorentini, si trovano persone diverse, impegnate nella storia in modo diverso, perché ciascuno ha ricevuto da Enrico Chiavacci strumenti di lettura, informazioni preziose, criteri di conoscenza delle situazioni.Come tante altre persone, anche Enrico Chiavacci, sparisce lasciando una scia tra luci e ombre che, a mio avviso non significano aspetti positivi e negativi, ma piuttosto tanti interrogativi.

Domande inquiete a cui aveva dedicato il suo studio attento e la sua fine e distinta passione per la realtà. Chiavacci infatti nella mia memoria, resta come un acuto, fine e distinto teologo della contemporaneità, proprio come la sua cravatta.Non patetico, ma elegantemente solidale. Non eroe, o rivoluzionario, ma intelligentemente impegnato a rileggere l’etica cristiana in mezzo alle molteplici ambiguità del cristianesimo e della Chiesa contemporanea.

* teologa domenicana




Siria, Papa: Basta con la guerra, sabato giornata di digiuno

http://it.news-republic.com/Web/ArticleWeb.aspx?regionid=6&articleid=12565569




Gesù liberatore (Alberto Maggi)

 

cuore naturale

(…)Perché tanto astio attorno la figura di Gesù? Cosa ha detto e fatto di tanto grave da attirarsi contemporaneamente addosso diffidenza, ostilità, rabbia omicida e lo condurranno a finire, nella più completa solitudine abbandonato dalla famiglia, dai suoi discepoli e deriso dalle autorità religiose, inchiodato al patibolo riservato ai maledetti da Dio (Dt 21,23)?
Gesù nell’insegnamento e nella pratica ha distrutto il concetto stesso di religione proponendo – e dimostrando di essere – il Dio con noi (Mt 1,23), un Dio a servizio degli uomini, un Dio liberatore..L’immagine di Dio con Gesù cambia radicalmente: non più l’uomo al servizio di Dio ma Dio al servizio degli uomini, come insegna Paolo nel discorso di Atene:
“[Dio]non si lascia servire dall’uomo come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (At 17,24-25).
L’immagine di un Dio che si mette a servizio degli uomini per liberarli era completamente sconosciuta nel panorama religioso contemporaneo a Gesù. In ogni religione veniva insegnato che l’uomo – creato o no dal suo dio – aveva compito di servire il suo Dio. Un Dio presentato sempre come Sovrano. Un uomo sempre nella condizione di servo.
Un Dio che continuamente chiede agli uomini, sottraendo loro cose, tempo, energie.
La nuova immagine proposta da Gesù di un Dio a servizio degli uomini, è alla base della libertà dell’individuo. Questo nuovo rapporto con il Padre non incide soltanto nel rapporto dell’uomo verso Dio, ma pure quello nei rapporti tra gli uomini, inaugurando una nuova relazione nella quale viene esclusa qualunque forma di dominio o di potere nell’ambito dei rapporti umani: se Dio stesso non domina ma serve nessuno può più dominare gli altri – tantomeno in nome di Dio.
Ciò causa l’allarme nei tre ambiti dove dominio e potere venivano esercitati e il concetto di libertà era completamente sconosciuto:
La famiglia dove il marito era il padrone della moglie e dei figli,
la nazione dove chi deteneva il comando spadroneggiava sui sudditi,
e la religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri ambiti di potere si fermavano: l’intimo della persona, la coscienza.
Questi tre poteri si scateneranno contro Gesù e i suoi discepoli:(…)
http://www.studibiblici.it/appunti/Presentazione%20del%20Vangelo.pdf




i trucchi di Berlusconi

una riflessione di C. Maltese

La minaccia di far cadere il governo era un bluff, come prevedibile, ed è durato ancora meno del previsto. Berlusconi in persona ha dato il contrordine, falchi e colombe sono rientrati nel pollaio. È andata male. Qualcuno del resto poteva credere che si facesse sul serio? La permanenza del governo Letta è l’unico salvacondotto possibile rimasto a Berlusconi. Un’ancora alla quale si è aggrappato con forza. Le ipotesi alternative sarebbero state una follia.

Da un lato, c’era la prospettiva di un Letta bis senza i voti decisivi del Cavaliere. Dall’altro, l’avventura di elezioni anticipate in autunno, che sarebbero state drammatiche per il Paese e probabilmente catastrofiche per il centrodestra. In entrambi i casi, per Berlusconi avrebbe significato la condanna all’irrilevanza politica. Come sempre, ha scelto la soluzione migliore per i propri interessi. Non senza aver inflitto al Paese l’ennesimo trucco. Per settimane i media sono corsi dietro al bestiario di falchi e colombe e pitonesse, prima di rendersi conto che era il solito teatrino di cortigiani dove il padrone passa ogni tanto a distribuire le parti in commedia.

La recita è finita secondo la logica. Il governo va avanti e il Parlamento voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. La guerra o la guerricciola istituzionale è finita. Peccato che la destra si sia dimenticata di avvisare qualche amico del Pd. Nessuno per esempio ha avvertito Luciano Violante, che continua a combattere nella jungla come un soldato giapponese la sua battaglia contro il nemico che più l’ossessiona: l’antiberlusconismo.

Per la verità sono molte le cose delle quali il senatore sembra rimasto all’oscuro, almeno a giudicare dalla sortita di ieri. Il senatore Violante ha ricordato il diritto alla difesa di Berlusconi contro le tentazioni del Pd di trasformarlo in un nemico assoluto e ha esortato il proprio partito ad ascoltare le ragioni dell’avversario.

Violante non è stato informato che Berlusconi oggi non è più il nemico assoluto e tecnicamente neppure un avversario del Pd, ma il suo principale alleato di governo. Come tale le sue ragioni sono ascoltate tutti i giorni dal partito di Violante e anzi, secondo molti elettori del centrosinistra, perfino un po’ troppo.

Altra informazione non pervenuta al senatore è che il processo a Berlusconi si è già celebrato in questi anni, in cui l’imputato ha potuto largamente usare e anche abusare del diritto alla difesa dentro e fuori le aule, nel processo e dal processo. Ormai non rimane, secondo Costituzione, che prendere atto della sentenza definitiva. Berlusconi non intende farlo, ma ci vuole un bel coraggio per definire un simile atteggiamento «diritto alla difesa».

Ancora una volta il Pd riesce a trasformare un problema della destra in uno proprio. Alla fine la destra ha compiuto la scelta più raziocinante, la più conveniente. Ha evitato il voto anticipato e lo spettro di un’esclusione dalla maggioranza. La scelta più conveniente per il Pd, una volta svanita la minaccia e il bluff della destra, sarebbe stata di chiudere la vicenda in fretta, archiviare il caso Berlusconi e tornare a occuparsi dei problemi seri del Paese. Ecco che invece il partito riprende a lacerarsi con una discussione assurda e fuori tempo. È davvero difficile capirne la necessità. Chissà, forse siamo noi a non essere bene informati.

Dal ’96 in poi ci siamo chiesti perché il governo di centrosinistra non avesse approvato in Parlamento una legge sul conflitto d’interessi e sul sistema televisivo. Prima di apprendere un giorno, anni dopo, dalla voce dello stesso Violante in Parlamento che c’era un accordo sottobanco fra i dirigenti della sinistra e Berlusconi per «non toccare le televisioni e le aziende ». Se anche stavolta esistono «patti della crostata» fra vertici di centrosinistra e Berlusconi, i cittadini dovranno aspettare altri nove anni per saperlo?