il pericolo di mettere da parte la costituzione

 

 

 

 

altro gatto fiorito

il maggior danno che potremmo fare al nostro paese è mettere da parte la costituzione e fare come se tutto sia possibile per ‘sanare’ alcuni problemi immediati

in proposito un bell’articolo di Gianluigi Pellegrini su ‘La Repubblica’ odierna:

Se la Costituzione viene dimenticata

 

Il maggior danno che si sta facendo al Paese è quello di dare per plausibile ciò che pacificamente non lo è. Plausibile che un Parlamento violi smaccatamente un norma anticorruzione che ha appena approvato. Plausibile chiedere al capo dello Stato di abbuonare la pena ad un conclamato evasore fiscale, plurinquisito e pluricodannato in vari gradi di giudizio. E questo perché è «un leader politico al quale assicurare agibilità», costituzionalizzando cosi il principio che fare politica garantirebbe uno statuto legale privilegiato, una minore soggezione alla legge. E dimenticando che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale (art. 87 della Costituzione) e non può certo mettere i suoi poteri a servizio della pretesa di una parte politica che abbia pure il dieci, il venti o il trenta per cento dei voti.
I pareri affannosamente depositati ieri dalla difesa di Berlusconi in realtà già nel loro affastellarsi e nello sforzo comprensibilmente titanico dei redattori, finiscono con il dar conto di come davvero non vi sia nessuno spazio per il Senato, di non dichiarare la dovuta decadenza dal seggio di Silvio Berlusconi. Decadenza che peraltro è destinata a conseguire anche in via automatica non appena si sarà perfezionata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, rinviata dalla Cassazione con qualche generosità per l’imputato (che nessuno però sottolinea). E se è comprensibile che dalla parte del Cavaliere tutti si impegnino nel disperato tentativo, gli altri dovrebbero fare più attenzione prima di essere costretti a smentire e rettificare, a non cadere in trappole di strumentalizzazione buone sole a sbandare ulteriormente il grande pubblico dei non addetti ai
lavori. Perché non ha nessun senso dire che in astratto la giunta delle elezioni potrebbe rimettere la questione alla Consulta, se allo stesso tempo non si dice dove sarebbe questa pretesa incostituzionalità della legge che per semplicità chiamiamo Severino ma che in realtà l’intero Parlamento a larghissima maggioranza e lo stesso Pdl hanno confezionato e approvato pochi mesi addietro e ora si pretende di non applicare ad personam.
Sul punto i pareri prodotti da Berlusconi cercano di allegare una violazione dell’articolo 66 della Carta che attribuisce alla Camera di appartenenza l’accertamento della sussistenza della causa di decadenza. Ma basta leggere il precedente articolo 65 per trovarvi la disposizione che è «la legge» che «determina i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di deputato e senatore ». Sicché la norma del 2012 altro non ha fatto che applicare la Costituzione che è l’opposto di violarla. E ha poi puntualmente rimesso alla giunta di accertare che in effetti la causa di decadenza si sia verificata come avviene per tutte le altre cause di incompatibilità. Dove sia quindi l’incostituzionalità risulta davvero misterioso.
Il secondo affannato argomento è quello della cosiddetta retroattività. Ma di retroattivo non c’è un bel niente atteso che la decadenza opererà in avanti, non certo indietro, e l’ordinamento, sol che venga rispettato, è ricco di norme che a tutela dell’interesse pubblico prevedono preclusioni per i soggetti condannati. Un esempio per tutti la disciplina in tema di pubblici appalti che nessuno
si è mai sognato di applicare a corrente alternata in base a quando furono compiuti i delitti. Ciò che in realtà viene evocato dai pidiellini è la pretesa applicazione del favor rei, senza però citarlo per non ricordare che di un reo accertato si sta parlando e perché è noto che quel principio riguarda le pene, non certo le misure di salvaguardia istituzionale: nel caso a tutela del Parlamento e dell’interesse pubblico alla sua composizione.
Così crollata anche la seconda questione un giudice che sollevasse una inesistente eccezione di costituzionalità al solo fine di prendere tempo meriterebbe per questo un procedimento disciplinare. Lo facesse il Parlamento calpestando clamorosamente le sue stesse leggi, se ne imporrebbe lo scioglimento come per l’ultimo Consiglio comunale.
Il punto allora non è come finirà una vicenda dall’esito costituzionalmente dovuto; ma quanto sia ancora tollerabile questo dare tutto per plausibile, l’abbandono di ogni fermezza morale, il ritenere tutto negoziabile. Con la dialettica democratica strozzata dalle larghe intese, e con le istituzioni di garanzia assediate e costrette ad affermare elementari ma fondanti valori di una democrazia costituzionale, come «la legge uguale per tutti». È questa deriva di etica civica il colpo di coda di un ventennio che l’ha prosciugata e svilita; e che se non interrompiamo con un sussulto inequivoco, rischiamo di pagare tanto, anche molto più di un benvenuto risparmio di una rata di Imu.

La Repubblica 29.08.13

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beati voi lgbt: il vangelo o è questo o non è

 

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Le Beatitudini delle persone LGBT

 

Beati voi, fratelli e sorelle gay, lesbiche, etero, bisessuali e transessuali: ognuno di voi è unico ed è il riflesso glorioso dell’amore di Dio e della Sua stupefacente creatività.
Beati voi quando avete il coraggio di portare nelle relazioni affettive la verità di chi siete: voi sanate e rafforzate il corpo di Cristo!
Beati voi che sfidate gli stereotipi e le caricature: voi portate luce al mondo!
Beati voi che denunciate le ipocrisie della religione: voi contribuite all’affermarsi della pace e della giustizia!

Beati voi quando lottate per la piena uguaglianza ed inclusione: voi rendete onore alla sacralità di ogni persona!
Beati voi quando formate nuovi tipi di famiglia fondati sull’amore più che sulla legge: voi incarnate la verità che tutti gli uomini sono una grande famiglia!
Beati voi che aspirate ad adorare in Spirito e Verità, che fate sorgere le vostre preghiere da un cuore umile: lo Spirito Santo vi guiderà e darà ispirazione!

Beati voi che date da mangiare agli affamati, offrite conforto ai morenti, cure agli infermi, ospitalità ai senza tetto, vicinanza a chi è da solo, fiducia a chi è senza speranza: voi siete Vangelo, siete la Buona Notizia che questo mondo ferito ha un disperato bisogno di ascoltare.
Beati voi che siete umiliati e perseguitati, e nonostante tutto perseverate nella Fede, nella Speranza e nella Carità! Rallegratevi e siatene fieri, perché Dio si manifesta in voi!

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per una riforma radicale della chiesa

 

fiorita

Per una riforma radicale della chiesa: Il pensiero di Küng

Nel prezioso libro di Roberto Garaventa Per una riforma radicale della chiesa – Con Hans Kung oltre Joseph Ratzinger* si legge fra l’altro: «La “cattolicità” non è una proprietà esclusiva dei cristiani cattolici, che la riceverebbero aproblematicamente per via ereditaria». Essa, anzi, si fa «cattolicesimo», divenendo ideologia, «laddove la realtà storica della chiesa cattolica viene accettata passivamente, invece di essere posta in discussione alla luce dell’unico vero criterio, dell’unica vera unità di misura, che è il messaggio cristiano originario, l’evangelo di Gesù Cristo». Perciò «il teologo autenticamente cattolico deve essere sempre intenzionalmente evangelico e il teologo autenticamente evangelico deve restare sempre cattolicamente aperto». E più che mai controverso è il concetto stesso di «tradizione». A confrontarsi, in realtà, sono diversi paradigmi, intesi come costellazioni di convinzioni, valori, modi di procedere condivisi in una comunità. Così la Chiesa di Roma è ancora in gran parte legata al paradigma medievale, maturato a iniziare dall’XI secolo, «ignora largamente» quello ebraico-cristiano e «accetta solo in maniera selettiva» quello greco-ellenistico del primo millennio. Non a caso Ratzinger, aspramente polemico nei confronti della modernità tout court e pronto ad accettare solo «l’illuminismo greco-classico», identifica la chiesa antica «più con quella dei padri latini che con quella dei padri greci» e «non con quella dei padri vissuti prima del concilio di Nicea (325)». Egli, inoltre, in nome della tradizione magisteriale, giunge a porre il primato della «rivelazione» rispetto alle Scritture. Più in generale, come sostiene Küng, l’uomo e la donna di oggi sentono estranei dogmi concepiti ed espressi con le categorie del pensiero greco. Da qui l’esigenza di tornare al Gesù storico. Garaventa, inoltre, ricorda i falsi con i quali tra il VI e il IX secolo i papi (per primo fu il vescovo romano Siricio, verso la fine del IV secolo, ad assumere il titolo di «papa», «dal greco pappas, denominazione onorifica e affettuosa per indicare il padre», che già in Oriente indicava tutti i vescovi) «cercarono di rafforzare e ampliare il loro potere»: la «donazione di Costantino», le «falsificazioni simmachiane» e le «decretali pseudo-isidoriane». Da qui, secondo Küng, l’esigenza di una riflessione autocritica da parte cattolico-romana «sull’umile ruolo giocato da Pietro nella cristianità originaria» e sulla funzione di diaconia svolta dalla chiesa romana primitiva, al fine di sviluppare «l’idea di un servizio di Pietro», non di un suo potere. Avvincente è poi il capitolo dedicato al profondo rapporto umano e intellettuale fra Barth e Küng, che risale addirittura alla tesi di dottorato di quest’ultimo, discussa nel 1957 e dedicata alla dottrina della giustificazione del grande teologo protestante. Alcuni fraintendimenti, sostenne il giovane teologo cattolico, erano scaturiti da motivi lessicali: l’evento salvifico «oggettivo» è chiamato «redenzione» nella terminologia tridentina, la quale definisce «giustificazione» l’evento salvifico «soggettivo», con il quale l’essere umano «si sottomette attivamente alla giustificazione divina». E il commento di Barth ci dice molto della sua apertura, pur non priva di ironia: se ciò che scrivi, rispose in sostanza, è davvero la dottrina della tua chiesa emergerà dal consenso che la dissertazione susciterà. Ma il testo del giovane Küng «fu preso in scarsa considerazione dai vertici della chiesa di Roma». Garaventa, infine, non manca di ricordare, motivandole, le proposte di Küng per cambiare davvero il volto del cattolicesimo: «ristrutturazione radicale della curia romana, eliminazione completa di ogni pratica inquisitoria, riforma profonda del Codice di diritto canonico».
Roberto Garaventa, Per una riforma radicale della chiesa – Con Hans Küng oltre Joseph Ratzinger, Orthotes

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il valore antropologico e teologico del silenzio

bei fiori

“l’uomo è diventato un’appendice del rumore” dice Max Picard

purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà più assente nelle nostre giornate, eppure abbiamo bisogno di esso perché questo è linguaggio d’amore, di profondità, di presenza vera dell’altro, di ascolto autentico

in merito una bella riflessione di Enzo Bianchi:

 

La profezia del silenzio 

Se nella nostra società «l’uomo è diventato un’appendice del rumore» (Max Picard), si fa sempre più urgente l’esigenza che ciascuno ritrovi la propria umanità attraverso la riscoperta del silenzio e l’apprendimento dell’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”. Impresa certo non semplice, se già Eraclito definiva i propri simili come «incapaci di ascoltare e di parlare»: da allora forse abbiamo l’impressione di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma certo quanto ad ascolto sembriamo tornati indietro di secoli. Abbiamo bisogno di una pedagogia dell’ascolto che può prendere le mosse solo dal silenzio. Sì, “ascoltare il silenzio” può sembrare un ossimoro, invece è la chiave che apre il mondo dell’ascolto autentico e della comprensione di ciò che si sente.
La tradizione spirituale non solo cristiana ha sempre riconosciuto l’essenzialità del silenzio per una vita interiore autentica. «La preghiera – ha detto il Savonarola, che pur di discorsi appassionati ben si intendeva – ha per padre il silenzio e per madre la solitudine». Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, cioè l’accoglienza in sé non soltanto della parola pronunciata, ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio di amore, di profondità, di presenza all’altro. Del resto, nell’esperienza amorosa il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo delle parole.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nelle nostre giornate: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a slogan o invettive. Ora, «quando diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio» (Susan Sontag). Dobbiamo confessarlo: abbiamo bisogno del silenzio! Ci è necessario da un punto di vista prettamente antropologico, perché l’uomo, che è un essere di relazione, comunica in modo equilibrato e significativo soltanto grazie all’armonico rapporto fra parola e silenzio.
Ma abbiamo bisogno del silenzio anche dal punto di vista spirituale. Per la fede ebraica e cristiana il silenzio è una dimensione teologica: sul monte Oreb, il profeta Elia percepì di essere alla presenza di Dio non nel frastuono di venti, tuoni e terremoto ma solo quando ascoltò «la voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12). Ignazio di Antiochia dirà che Cristo è «la Parola che procede dal silenzio». Non si tratta semplicemente dell’astenersi dal parlare o dell’assenza di rumori, ma del silenzio interiore, quella dimensione che ci restituisce a noi stessi, ci pone sul piano dell’essere, di fronte all’essenziale. «Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali» (Dietrich Bonhoeffer).
Il silenzio è custode dell’interiorità in quanto ci conduce da una dimensione primaria e “negativa” di sobrietà, disciplina nel parlare o addirittura di astensione da parole, a un livello più profondo, di intensa vita spirituale: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giudizi, le mormorazioni che nascono nel cuore. È il difficile silenzio interiore, quello che trova il proprio ambito vitale nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera l’attenzione, l’accoglienza, l’empatia nei confronti dell’altro. Il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’alterità, per farne risuonare la parola e, al tempo stesso, ci dispone all’ascolto intelligente, al parlare misurato, al discernimento di ciò che brucia nel cuore dell’altro e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello. «Il silenzioso diventa fonte di grazia per chi ascolta», aveva affermato san Basilio. Per il cristiano, il rimando all’ascolto obbediente della Parola di Dio, all’accoglienza del Verbo fatto carne è evidente ed estremamente eloquente.
Non a caso è questo il silenzio che proviene a noi da una lunga storia spirituale: è il silenzio cercato e praticato dagli esicasti per ottenere l’unificazione del cuore, il silenzio della tradizione monastica finalizzato all’accoglienza in sé della parola di Dio, il silenzio della preghiera di adorazione della presenza di Dio. Ma è anche il silenzio caro ai mistici di ogni tradizione religiosa e, ancor prima, è il silenzio di cui è intriso il linguaggio poetico, il silenzio che costituisce la materia stessa della musica, il silenzio essenziale a ogni atto comunicativo. Il silenzio, evento di profondità e di unificazione, rende il corpo eloquente conducendoci ad abitare il nostro corpo, a nutrire la nostra vita interiore, guidandoci a quell’habitare secum così prezioso per la tradizione monastica come per quella filosofica. Il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona intera.
Proviamo allora a ricavare nel ritmo del nostro vivere un tempo per ascoltare il silenzio: riusciremo a cogliere gli sforzi compiuti per crearlo e custodirlo, a discernere i suoni impercettibili della presenza di altre creature accanto a noi, a comprendere il non-detto che abita la gran quantità di parole, ad avere intelligenza di quanto accade – cioè, letteralmente, a “leggere dentro” gli eventi – e, finalmente, anche ad ascoltare meglio noi stessi e gli altri quando parlano al nostro cuore e alla nostra mente, e non solo ai nostri orecchi.

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giustizia solo apparente

circo Italia
lo diceva già don Milani che “niente è più ingiusto che trattare allo stesso modo chi è sazio e chi ha fame”

Brunetta non ci arriva: una bella tiratina d’orecchi ne ‘l’amaca’ odierna di Serra:

Il socialista (cose da pazzi) Brunetta annuncia gongolante che non si pagherà l’Imu sulla prima casa, qualunque reddito si abbia. Non può non sapere che niente è più iniquo che trattare allo stesso modo i poveri e i ricchi, ma non sembra importargliene più di tanto: l’importante era far pagare il prezzo politico della campagna elettorale del suo capo a tutto il Paese.
Perché mai uno come me (e come tanti italiani che l’Imu volevano e potevano pagarla) debba essere esentato da quella tassa allo stesso modo del pensionato o dell’operaio monoreddito, non si capisce. Neppure si capisce che genere di copertura, e a spese di chi, sarà escogitata per coprire il buco, sempre per pagare la campagna elettorale di Berlusconi. Una politica onesta dovrebbe dire ai cittadini che abolire una tassa (specie una tassa come l’Imu) pesa sulle finanze degli enti locali, costringendo a tagliare i servizi sociali. E dunque penalizzando i deboli. La demagogia disonesta si guarda bene dal fare questo genere di conti in pubblico. Strilla “vi levo l’Imu” per avere gli applausi e i voti degli sprovveduti. Che poi si domandano furibondi perché non passa più l’autobus, o perché aumentano i ticket sui farmaci.

Da La Repubblica del 29/08/2013…

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domande e risposte sulla guerra (senmpre da evitare)

 

 

 

 

 

 

no guerra

dal sito di FAMIGLIA CRISTIANA

http://www.famigliacristiana.it/articolo/sacco-pax-christi-.aspx

«Quello che è successo in Afghanistan, Iraq e Libia evidentemente non
ha insegnato nulla», spiega il coordinatore nazionale del movimento
don Renato Sacco, «l’Occidente prima vende le armi a questi regimi e
poi li attacca»

«In Siria un conflitto c’è già, si tratta di vedere come spegnere il
fuoco non come alimentarlo. Di fronte a una guerra non si può
rispondere con un’altra guerra. Vuol dire che di una tragedia ne
facciamo due».
Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, si dice
«triste ed amareggiato» per la piega che stanno prendendo gli eventi
in Siria.

L’America dice che non si può più restare inermi di fronte ai crimini
commessi dal regime di Assad.
«La guerra, ogni guerra è un’avventura senza ritorno. Anzi, come ha
detto papa Francesco, è il suicidio dell’umanità. Basta vedere a
quello che è successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia: il
rovesciamento del capo del regime non ha portato affatto la pace. È
una storia che si ripete sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre
cullato i dittatori, li abbiamo ritenuti nostri amici, li abbiamo
armati e poi abbiamo detto che bisognava fargli la guerra. È successo
con Saddam e poi con Gheddafi. La comunità internazionale ha fatto di
tutto con la sua indifferenza a far precipitare della situazione,
l’Italia stessa ha venduto le armi alla Libia e poi si è detto che
bisognava bombardare. Questa non è pace. La guerra non è mai la strada
da percorrere, come afferma la Dottrina sociale della Chiesa e come ha
ribadito qualche giorno fa mons. Tomasi, osservatore permanente della
Santa Sede presso l’Ufficio Onu di Ginevra.
Una chiave di questo precipitare degli eventi potrebbe essere quella
delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle armi. Qualcuno
parla già di accordi economici e militari tra Usa e Arabia Saudita».

Ma le vittime degli attacchi di Assad non vanno tutelate?
«Chi oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per
arrivare alla guerra lo fa per interessi. Poi le vittime vengono
dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese di luglio ci sono
stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e
nessuno parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare
una guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei
propri affari e dei propri interessi. Essere in Afghanistan ci dà la
visibilità di sedere al tavolo degli accordi internazionali. Poi
succede che alcuni piccoli progetti di cooperazione in alcuni villaggi
afghani non vengono finanziati dalla comunità internazionale perché
sono troppo piccoli e non fanno notizia. Invece sarebbero i passi per
la pace».

Come se ne esce dal pasticcio siriano?
«La soluzione in tasca non ce l’ha nessuno, bisogna cercarla. L’unica
cosa di cui sono certo è che la guerra non è la soluzione. È come
avere un figlio che dà problemi, l’unica cosa che so è che non lo devo
uccidere anche se mi fa disperare. L’intervento armato a sostegno
dell’uno o dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale,
renderebbe esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con
conseguenze devastanti per tutti, a cominciare dall’Europa.. Io credo
che la comunità internazionale in passato non abbia fatto quasi nulla
per fermarsi e vedere cosa stava succedendo in Siria. La soluzione
passa dall’abbandono dell’intervento militare. Non forniamo più armi,
isoliamo le lobby degli armamenti. È una strada in salita, quella
della pace, faticosa, è un cammino, come diceva don Tonino Bello. La
Siria, come la Libia, fa notizia adesso, fra un mese o due non se ne
parlerà più. A nessuno interessa da dove arriva il gas, chi glielo
fornisce. Come è successo a Sarajevo, per anni abbiamo fatto finta di
non vedere, abbiamo venduto le armi a chi bombardava Sarajevo, io ho
le foto e le testimonianze, poi abbiamo deciso di intervenire e fare
la guerra. Così abbiamo guadagnato due volte vendendo le armi agli uni
e agli altri. Temo che con la Siria finisca proprio così».

28 agosto 2013

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50 anni fà: “i have a dream”

bel giglio

Cinquant’anni fa, il 28 agosto 1963 a conclusione di una marcia sui diritti civili a Washington, Martin Luther King tenne il suo famoso discorso :

«I have a dream».

Sono orgoglioso di unirmi a voi oggi in quella che passerà alla storia come la piú grande manifestazione per la libertà nella storia del nostro paese.

Cento anni fa, un grande Americano, sulla cui ombra simbolica ci troviamo oggi, firmó la Proclamazione per l’ Emancipazione. Questo decreto importantissimo arrivò come un faro di speranza per milioni di schiavi Negri bruciati dalle fiamme di questa raggelante ingiustizia. Arrivó come una gioiosa aurora dopo una lunga notte di schiavitú.

Peró cento anni dopo, il Negro non è ancora libero; cento anni dopo, la vita del Negro è ancora dolorosamente segnata dai ferri della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il Negro vive in un’ isola deserta in mezzo a un immenso oceano di prosperità materiale; cento anni dopo, il Negro tuttora langue negli angoli della società americana e si trova in esilio nella propria terra.

Cosí siamo venuti qui oggi a denunciare una condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli artefici della nostra repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’Indipendenza, stavano firmando una cambiale di cui ogni americano era garante. Questa cambiale era la promessa che tutti gli uomini, sia, l’uomo negro e l’uomo bianco, avrebbero avuto garantiti i diritti inalienabili alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità.

È ovvio oggi che l’America è venuta meno a questa promessa per quanto riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo obbligo sacro, l’America ha dato alla gente negra un assegno a vuoto; un assegno che è tornato indietro con il timbro fondi insufficienti. Peró ci rifiutiamo di credere che la Banca della Giustizia sia fallita. Ci rifiutiamo di credere che non ci siano fondi sufficienti nelle grandi casseforti dell’opportunità di questo paese. E allora siamo venuti a incassare quest’assegno, l’assegno che ci darà a richiesta le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia.

Inoltre siamo venuti in questo luogo sacro per ricordare all’America l’urgenza impetuosa del momento presente. Questo non è il momento di raffreddarsi o prendere i tranquillanti della gradualità. Ora è il momento di realizzare le promesse di Democrazia; ora è il momento di uscire dall’oscura e desolata valle della segregazione verso il cammino illuminato della giustizia razziale; ora è il momento di tirar fuori il nostro paese dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale sul terreno solido della fraternità; ora è il momento di fare della giustizia una realtà per tutti i figli di Dio. Sarebbe fatale per la nazione passar sopra l’urgenza di questo momento. Quest’estate soffocante per il malcontento legittimo del Negro non terminerà fino a quando non venga un autunno vigoroso di libertà e uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un principio. E coloro che speravano che il Negro avesse bisogno di sfogarsi per essere contento, avranno un duro risveglio se il paese ritornerà alla solita situazione. Non ci sarà riposo né tranquillità in America fino a quando al Negro non verranno garantiti i suoi diritti di cittadino. Il turbine della ribellione continuerà a scuotere le basi della nostra nazione fino a che non sorgerà il giorno splendente della giustizia.

Però c’è qualcosa che io debbo dire alla mia gente, che sta sulla soglia logora che conduce al palazzo di giustizia. Nel processo di conquista del posto che ci spetta, non dobbiamo essere colpevoli di azioni inique. Non cerchiamo di soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla tazza del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano di dignità e disciplina. Non dobbiamo permettere che le nostre proteste creative degenerino in violenza fisica. Ancora una volta dobbiamo elevarci alle altezze maestose dell’incontro tra forza fisica e forza dell’anima. La nuova meravigliosa militanza, che ha inghiottito la comunità negra, non dovrà condurci a diffidare di tutta la gente bianca. In quanto parecchi dei nostri fratelli bianchi, come oggi si vede dalla loro presenza qui, si sono resi conto che il loro destino è legato al nostro. E si sono resi conto che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra. Non possiamo camminare soli. E camminando, dobbiamo fare la promessa che marceremo sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro.

Ci sono coloro che stanno chiedendo ai devoti dei Diritti Civili, Quando sarete soddisfatti? Non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro sarà vittima degli orrori indescrivibili della crudeltà poliziesca; non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, pesanti per la stanchezza del viaggio, non potranno riposare negli alberghi delle autostrade e delle città; non potremo mai essere soddisfatti finché la possibiltà di movimento del Negro sarà da un piccolo ghetto ad uno piú grande; non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della propria personalità e derubati della dignità da un avviso scritto Solo Per Bianchi; non potremo mai essere soddisfatti finché il Negro del Mississippi non potrà votare ed il Negro di New York crederà di non avere nessuno per cui votare. No! No, non siamo soddisfatti, e non saremo soddisfatti fino a quando la giustizia non scorrerà come l’acqua e la rettitudine come una forte corrente.

Sono ben consapevole che alcuni di voi son venuti fin qui con grandi dolori e tribolazioni. Alcuni sono arrivati freschi da anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da luoghi dove la ricerca della libertà li ha lasciati colpiti dalla tormenta della persecuzione e barcollanti per i venti della brutalità poliziesca. Voialtri siete i veterani della sofferenza creativa. Continuate a lavorare con la fede che le sofferenze immeritate redimono. Tornate nel Mississippi; tornate in Alabama; tornate nella Carolina del Sud; tornate in Georgia; tornate in Louisiana; tornate nei tuguri e nei ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in un modo o nell’altro questa situazione può essere e sarà cambiata. Non ci rotoliamo nella valle della disperazione.

Per cui vi dico, amici miei, che anche se affronteremo le difficoltà di oggi e di domani, ancora io ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno Americano, che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà nel vero significato del suo credo, noialtri manteniamo questa verità evidente, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io sogno che nella terra rossa di Georgia, i figli di quelli che erano schiavi ed i figli di quelli che erano padroni degli schiavi si potranno sedere assieme alla tavola della fraternità. Io sogno che un giorno anche lo stato di Mississippi, uno stato ardente per il calore della giustizia, ardente per il calore dell’oppressione, sarà trasformato in un oasi di libertà e giustizia. Io sogno che i miei quattro figli piccoli un giorno vivranno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per il contenuto della loro personalità.

Oggi ho un sogno!

Sogno che un giorno in Alabama, con i suoi razzisti immorali, con un Governatore dalle labbra sgocciolanti parole d’interposizione e annullamento, un giorno, là in Alabama, piccoli Negri, bambini e bambine, potranno unire le loro mani con piccoli bianchi, bambini e bambine, come fratelli e sorelle.

Oggi ho un sogno!

Sogno che un giorno ogni valle sarà elevata, ed ogni collina e montagna sarà spianata. I luoghi asperi saranno piani ed i luoghi tortuosi saranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata ed il genere umano sarà riunito.

Questa è la nostra speranza. Questa è la fede con cui ritorno al Sud. Con questa fede potremo tagliare una pietra di speranza dalla montagna della disperazione. Con questa fede potremo trasformare il suono dissonante della nostra nazione in un armoniosa sinfonia di fraternità. Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in carcere insieme, sollevarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi, e questo è il giorno. Questo sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio potranno cantare con nuovo significato Il mio paese è tuo, dolce terra di libertà, di te io canto. Terra dove è morto mio padre, terra orgoglio del pellegrino, da ogni lato della montagna facciamo risuonare la libertà. E se l’America sarà una grande nazione, questo si deve avverare.

E quindi lasciate risuonare la libertà dalle cime dei prodigiosi monti del New Hampshire.
Lasciate risuonare la libertà dalle poderose montagne di New York.
Lasciate risuonare la libertà dalle altitudini degli Alleghenies della Pennsylvania.
Lasciate risuonare la libertà dalle rocce coperte di neve di Colorado.
Lasciate risuonare la libertà dalle coste tortuose della California.
Ma non solo.
Lasciate risuonare la libertà dalla Montagna di Pietra della Georgia.
Lasciate risuonare la libertà dalla montagna Lookout del Tennessee.

Lasciate risuonare la libertà da ogni collina e montagna del Mississippi, da ogni lato della montagna lasciate risuonare la libertà. E quando questo accadrà, e quando lasceremo risuonare la libertà, quando la lasceremo risuonare da ogni villaggio e da ogni casale, da ogni stato e da ogni città, saremo capaci di anticipare il giorno in cui tutti i figli di Dio, uomo Negro e uomo Bianco, Ebreo e Cristiano, Protestante e Cattolico, potremo unire le nostre mani a cantare le parole del vecchio spiritual Negro: Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie

Dio Onnipotente, siamo finalmente liberi.

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il ‘phupping’: un segno preoccupante

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pregi e limiti, anche rischi e seri pericoli di una tecnologia non usata con equilibrio

si danno perfino casi di gruppi di ragazzi o famiglie che non parlano tra loro ma con i loro strumenti tecnologici, facendo foto, taggandosi, ecc., dando l’impressione di fare tutto meno che sentirsi vicini  …

il blog ‘pollicinoeraungrande’ dedica una bella riflessione su questo di grande interesse:

 

Smartphone, Phubbing, Nomofobia. Se ci sei batti un click!

( Lo stress da imparare a riconoscere)

Michele: Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi ed io sto buttato in un angolo… no. Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate “Michele vieni di là con noi, dai” ed io “andate, andate, vi raggiungo dopo”. Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo.

Nanni Moretti “Ecce Bombo”

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Apparire esistenti. Far in modo che si sappia che si è. Dare notizia di sé più che farsi conoscere. Questo sembra fare la differenza oggi. Il Michele di “Ecce Bombo” ( 1978) avrebbe il suo da fare, rendendo i suoi dubbi ancora più complessi e faticosi. Facebook, Twitter, Google+, Instagram, Pinterest, You Tube ma non solo, tutto sta diventando necessario e non accessorio perché ci si possa dire veramente esistenti. Avere uno smartphone poi per connettere la propria esistenza a questi network è il passo “naturalmente” conseguente. Nelle belle sere di estate, in vacanza, ho visto famiglie che non parlavano tra loro ma con i loro strumenti tecnologici, si facevano foto, si taggavano e commentavano, ma non sembravano esserci sul serio.

Parole d’ordine: aggiornare, commentare, postare. Il numero di amici e di “Mi piace” sul profilo Facebook sono la cartina tornasole del proprio potere sociale. Certo la tecnologia è stimolante per combattere una certa solitudine, accorcia le distanze dalle persone care e lontane, tiene informati. Ma poi? I momenti non li viviamo quasi più. Li fotografiamo e poi, dopo, li riguardiamo con malinconia. “Come dovevo essere felice!” si penserà, ma la verità è che non si era neppure presenti, si stava facendo la foto del momento che è altra cosa che il momento stesso. In persone cosidette ” a rischio” la dipendenza è facile da incontrare. Si sviluppa un vero e proprio legame morboso con il cellulare, non lo si lascia mai. Lo si custodisce con delicatezza, ci si sente persi senza. Intervistata sul proprio cellulare e sulla vita possibile senza “lui” una classe delle medie riteneva la cosa impensabile, terribile, impossibile. In una serie TV un adolescente vuole convincere l’amica che tra lui e la ragazza che gli piace le cose sono serie. “Ha aggiornato il suo status?” chiede lei. E una crepa vìola la certezza di lui.

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Quando si cominciano a prediligere gli scambi, le relazioni online, mediate dalla tastiera a quelle dirette, vive, allora dobbiamo fare attenzione che il nostro cellulare non abbia preso il posto di altro, che non lo si stia utilizzando per placare la sofferenza di una separazione, che non stia riempiendo un vuoto dovuto alla sofferenza di temersi fuori dal mondo se con questo non si sarà in continuazione connessi. E se da una parte viene asserita la pericolosità per la salute di una eccessiva esposizione a smartphone, tablet, I-Phones, si comincia anche a conoscere il timore per l’equilibrio psichico di milioni di persone che non possono stare senza neppure la notte, che prima di dire “Buongiorno” controllano i propri profili, che cercano in continuazione notizie sui propri amici, conoscenti, idoli. Il desiderio di essere presente in più parti, nel momento presente e in quello vissuto da altri, in una sorta di ubiquità che permetta di controllare tutto, tutto sapere, essere ovunque senza poi essere realmente da nessuna parte. Stiamo diventando pericolosamente tecno-dipendenti. Il termine tecnico, coniato da poco, è quello di “nomofobia” ossia la paura di essere sconnessi dal mondo, di essere fuori dalla rete perchè non si ha il proprio telefono con sè o si sia in un posto dove questi non abbiano campo sufficiente. Una paura che causa incidenti e mette in condizioni di rischio moltissime persone ogni giorno, pensiamo agli incidenti provocati da chi, pur di rispondere ad un sms o aggiornare un profilo, si metta a farlo mentre guida o è preso da delicate azioni con macchinari etc senza che le multe previste possano scalfire il bisogno di esserci.

Un video ci porta a riflettere sul tema. Si chiama ” I Forgot my Phone” ( la protagonista l’ha quindi dimenticato, badiamo, non ne è priva, condizione che sembrerebbe impensabile anche alla regista). Pubblicato il 22/08/2013 ha al momento più di cinque milioni di visualizzazioni con commenti diversi. Ci fa vedere come ci si sente “diversi” senza il proprio strumento con sè, pronto a farci entrare nel mondo.

Istantanea – 25082013 – 19:09:46

La tecnologia è una gran cosa e come tutte le gran cose ha un gran potere e questo, come ogni supereroe sa lascia nelle proprie mani una grande responsabilità. Responsabilità di usarlo nel giusto mondo e non abusandone fino a trasformarlo in un pericolo. Invece molto spesso, sempre più spesso, lo smartphone non è più solo strumento ma fautore di ogni significato, “decide” cosa vale la pena fare, indica come dover apparire, il posto da frequentare, gli amici da desiderare e quelli da etichettare, allontanare, facendo da cassa di risonanza molto spesso inconsapevole del suo stesso potere, anche distruttivo. Se non si è al passo, non si è, si è fuori e fuori è un posto doloroso, solitario, devastante sopratutto per i più giovani. Bisogna avere una certa capacità interiore nel discernere dove sia il limite con la moderna tecnologia, per continuare ad usarla e non farsi usare.

Primo passo sarebbe uscire fuori da qualunque spazio ci rinchiuda appena possibile. Non aggiornare il proprio profilo ma respirare fuori da casa, uffici, negozi. Un po’ di aria fresca potrebbe essere la rivoluzionaria novità per evitare lo stress che questo stile di vita può portare è a diversi livelli. Pensiamo solo al continuo stimolo a cui sottoponiamo il nostro cervello, che pure fantastica macchina qual è, finisce con l’affaticarsi qualora non ci sia un momento di pausa per lui e pausa è pausa. Il Web, le foto, le e-mail, gli sms, sono un continuo metterlo in azione, inserire informazioni, chiedere risposte senza che possa poi riprendersi dal tanto lavoro. Abbiamo parlato anche in altri post di come, allontanarsi dalla tecnologia possa essere un toccasana per il nostro benessere, migliorando anche la nostra creatività. Una continua richiesta di preseImnmagine tratta dal sito Stop Phubbing nza porta alla lunga a minore capacità di sottostare allo stress che questo comporta. Si diventa con più facilità vittima di nervosismo, diventa difficile fronteggiare emozioni che possono nascere proprio dall’eccesso di attività dovuta al perenne chiedere di essere presente, onnipresente. Abbiamo davvero bisogno di rispondere in tempo reale a tutto? Di dare la buonanotte su tutti i nostri profili sempre? Di fotografare e commentare ogni passo del nostro bambino o menù della domenica? Tutte le email di lavoro sono urgenti e fondamentali?

E intanto, due iniziative sono da riportare in merito a questa novella dipendenza da tecnologia. La prima è in Sudcorea , a Seoul, dove nascono già i campi estivi per insegnare ai ragazzi che non esiste solo internet. In questi spazi si cerca di motivare con canti, giochi e attività a tirar fuori i giovani da una conclamata dipendenza da smartphone che sembra colpire un adolescente su 5. La seconda iniziativa che è interessante sapere è quella che accade in Australia, da una idea di Alex Haigh, un ragazzo di ventitré anni, che ha creato la campagna ” Stop Phupping”, messa in atto, appunto, per limitare il Phubbing, definito nello stesso sito come lo snobbare qualcuno in contesto di socialità guardando al proprio cellulare invece di dargli attenzione. Nel sito si può inviare anche una email ad un amico o ex che abbia snobbato, fino alla rottura, la persona inviante.

Lungi dal demonizzare la tecnologia, Facebook, Smartphone o altro, si vuole solo portare l’attenzione su un tema che sarà sempre più prioritario negli anni e che dobbiamo imparare a gestire. Non di meno, questo post è scritto online e chi lo legge lo farà su un pc, Mac, tablet etc etc. La differenza è ancora data dall’educazione del singolo alla consapevolezza e alla misura. Non dimentichiamolo. Buona rete a tutti.

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tempi cambiati, in peggio!

il male profondo che sta vivendo la politica italiana: il trionfo dell’irrazionalità, della prepotenza, dell’irresponsabilità, ben espressi da M. Serra nell’ ‘amaca’ odierna:

 

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L’AMACA del 28/08/2013

(Michele Serra).

 

Vent’anni fa si spariva dalla vita politica per un avviso di garanzia. Oggi nemmeno una condanna in Cassazione viene considerata quanto basta (e avanza) per levarsi di torno. È questo vero e proprio precipizio a descrivere meglio di ogni altra cosa il male profondo che Berlusconi e la sua sconcia claque hanno fatto all’Italia e agli italiani.
Così, mentre Luciano Violante – per fortuna a nome personale – e Mario Monti, con accenti non dissimili, giustificano eventuali cavilli per non trarre le ovvie conseguenze dalla condanna di Berlusconi, si ripensa alla vicenda di Josefa Idem, della quale nessuno parla più perché a nessuno conviene parlarne. Si è dimessa per una multa da tremila euro, come era doveroso fare e come ha fatto. Ha pagato un prezzo pieno per un errore che, al cospetto della fedina penale di Berlusconi, è meno di zero. Le hanno dato addosso, anche insultandola, molti dei farisei che oggi considerano del tutto normale che Berlusconi continui a fare politica e non decada da senatore. Siamo, e da un bel pezzo, dentro l’apologo del lupo e dell’agnello. Con il lupo che fa la vittima, e l’agnello già mangiato e digerito da un paese smemorato, ipnotizzato, incapace di ritrovare il bandolo della propria dignità.

Da La Repubblica del 28/08/2013.

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tre ‘s’ come tre stili di vita

 

 

 

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Le 3 esse dei nuovi stili di vita:

  • più salute per se stessi,
  • più salute per l’ambiente 
  • più salute per il proprio portafoglio.

Le prassi messe in atto dai nuovi stili di vita conducono a tre grandi benefici e vantaggi:
1.
Più salute per se stessi: i nuovi stili di vita creano un beneficio alla propria vita personale, perché recuperano la lentezza superando la frenesia quotidiana e lo stress che sono le cause di piccoli e grandi malesseri e malattie; arricchiscono la vita di relazioni umane dando gusto e sapore al vivere; aumentano il livello culturale promuovendo lo slancio del pensiero e superando ogni forma di schiavismo e sudditanza, fanno diventare più responsabili e solidali riscattando e valorizzando la propria umanità.

2.
Più salute all’ambiente: i nuovi stili di vita provocano un minore impatto ambientale e generano una maggiore sostenibilità ambientale, perché inquinano meno l’ambiente; valorizzano le piccole e grandi potenzialità di madre terra; recuperano un rapporto amichevole e rispettoso dei ritmi della natura senza violentarli; rendono più pulito il mondo e quindi il nostro habitat; ridanno alla terra la possibilità di produrre in maniera naturale e integrale.

3.
Più salute al portafoglio (alla propria economia): i nuovi stili di vita generano un risparmio a vari livelli permettendo di recuperare risorse economiche invece di sperperarle; tutti questi risparmi possono diventare degli investimenti in settori importanti della vita, come quello di prodotti di qualità, oppure nel settore culturale, ludico, relazionale; permettendo anche di ridurre l’orario lavorativo per poter guadagnare ore libere.

Questi sono i tre grandi frutti dei nuovi stili di vita: le 3 saluti. In conclusione, significa recuperare una vita di qualità e non di quantità, una vita basata non più sul PIL (Prodotto interno lordo) ma sul FIL (Felicità interna lorda), oppure sul BES (Benessere equo e sostenibile) come sostiene il Cnel e l’Istat.

Per dare un volto concreto a queste tre saluti, voglio presentare 4 esempi, uno per ogni nuovo rapporto (con le cose, con le persone, con la natura e con la mondialità), in modo da aiutare a scoprire i tre benefici, prendendo maggiormente coscienza di quanto è importante cambiare stili di vita.

Una alimentazione sostenibile, mediante un consumo responsabile, promuove frutta e verdura di stagione, la filiera corta a km.0, come pure l’autoproduzione. Si tratta di prodotti che sono di qualità e che fanno bene alla salute, mediante l’agricoltura biologica che rispetta la natura, generando più salute all’ambiente e dando un risparmio perché si compera direttamente dal produttore senza tanti passaggi, oppure a spese molto ridotte mediante la propria produzione.


La mobilità sostenibile, che stimola a mettere in moto i piedi, usare la bicicletta e i mezzi pubblici, con un uso intelligente dell’automobile, genera più salute alla persona perché si cammina di più e si usa la bicicletta, altrimenti si è costretti ad andare in palestra e fare la cyclette o il tapis roulant. Inoltre, inquina meno l’ambiente perché l’impatto ambientale è molto ridotto e crea risparmio al portafoglio perché si spende meno al distributore nel consumare meno combustibile.


Una vita ricca di relazioni, a partire dal saluto che è il ponte delle relazione fino al recupero del silenzio che è la profondità della relazione, genera un alto beneficio alla salute perché le relazioni sono l’ossigeno della vita, rinnovando e rafforzando i rapporti con i vicini di casa senza fare tanti chilometri e quindi riducendo l’impatto ambientale, promuovendo lo scambio di saperi e di servizi per saper mettere in atto stili di vita che custodiscano l’ambiente e che generano risparmi sul portafoglio.


La convivialità delle differenze, mediante l’incontro con popoli che hanno usi, costumi e culture differenti, promuovono un mondo di pace, dove i popoli sappiano convivere insieme nelle diversità. La pace è la pienezza della salute per ogni persona umana, ma è anche una dimensione fondamentale per un giusto rapporto con l’ambiente senza più sfruttarlo e inquinarlo. La convivialità delle differenze suscitano scambi culturali a vari livelli, come il turismo solidale dove l’accoglienza avviene nelle case della gente, oppure mediante forme alternative nell’organizzare i viaggi che generano la possibilità di visitare i paesi con costi ridotti.

Con altre parole, le tre saluti generano una vita che ha come paradigma il Ben Vivere per tutti, e non più il vivere meglio di alcuni che genera l’altra faccia del vivere peggio di molti.

Padova 27 giugno 2013

Adriano Sella

(discepolo e missionario dei nuovi stili di vita)

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