caro papa …

 

 

lettera a papa Francesco di don Vitaliano

caro papa, la vera indifferenza è quella della chiesa

Santo Padre,

quando alcuni anni fa alle porte della mia canonica bussò un gruppo di immigrati clandestini, non mi ero mai occupato di migranti, ma decisi di ospitarli e farmi carico della loro situazione. In nome del Vangelo non me la sono sentita di dare un’elemosina di circostanza per liberarmene. E come me anche la mia comunità parrocchiale. Ospitavamo gli immigrati nelle aule del catechismo. E, forse, per i bambini del catechismo è stata la più bella esperienza di catechesi concreta, vissuta. Anche quella volta il mio vescovo di allora mi rimproverò e nessuno del presbiterio mi difese.

Nello stesso periodo insieme a pochissimi confratelli e ai famigerati “no global”, affittammo una nave, andammo in Albania e cercammo di portare in Italia il maggior numero di albanesi; nel tragitto anche noi lanciammo una corona di fiori per ricordare i morti di un barcone affondato la notte di Natale. Se non volevamo più piangere i morti – ci dicemmo – conveniva andare noi a prenderli prima che si imbarcassero su pericolose carrette del mare. Anche allora né la Cei, né i partiti e i governi che si spacciano per cristiani, mossero un dito quando ci bloccarono, al ritorno, nel porto di Brindisi. Gli esempi di tragedie di immigrati, dell’omertà della maggior parte dei cattolici e della denuncia inascoltata di pochi, potrebbero essere tanti.

Per anni ho guardato i telegiornali e letto i quotidiani con grande sofferenza e rabbia, anche se con una non spenta speranza di sentire la voce forte e rappresentativa dei vertici della Chiesa italiana che finalmente facesse diventare scelte concrete le bellissime parole dei documenti ufficiali: quando non accogliamo i migranti, spranghiamo la porta a Gesù Cristo presente, vivo e vero nel povero, per trastullarci con l’adorazione eucaristica e le processioni del Corpus Domini, con un’ostia fin troppo asettica che non ci contamina le mani come le carni del povero. Perciò ho seguito con emozione in tv la tua visita a Lampedusa. Mai avrei immaginato che un papa potesse fare un gesto del genere. Ma anche se sono certo della tua sincerità, non mi fido di chi ti circonda: gli stessi che non hanno mai denunciato ciò che tu stai denunciando, gli stessi che hanno fatto arrivare “Pietro” troppo tardi a Lampedusa. Anch’io mi sono posto con te le domande: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?». E sono d’accordo con te quando dici: «Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!». Per la verità nella società di cui parli c’è una minoranza, forse una maggioranza silenziosa, che sa ancora piangere per e con chi è colpito dall’ingiustizia; ci sono tanti testardi che non si rassegnano al pensiero unico e cercano di opporsi alla peggiore globalizzazione e all’indifferenza; tra questi, tanti fedeli laici, alcune suore e preti, pochissimi vescovi.

Santo Padre, accettare fino in fondo il Vangelo di Nostro Signore e l’insegnamento della Chiesa dovrebbe portare proprio noi cristiani a denunciare fermamente l’imperante ondata di razzismo, ponendoci di fronte ad un dissidio inconciliabile: all’impossibilità, cioè, di rispettare le leggi dello Stato che si ergono come muro ad arginare la massa dei disperati che preme. Perciò, per non ridurre il tuo grandissimo gesto a qualcosa di stravagante, ti chiedo di far capire anche ai vescovi che una presa di posizione forte della Chiesa Italiana in merito alla questione è inderogabile, una voce levata alta che faccia capire senza equivoci da che parte i cattolici, laici e gerarchia, stanno e devono stare. La storia procede anche senza di noi: le migrazioni sono inarrestabili ed è una forma di grande miopia storica cercare di opporsi a questo fenomeno.




papa Francesco: “la laicità dello stato favorisce il dialogo fra le religioni”

così papa Francesco sulla laicità dello stato e sul rapporto corretto tra stato e chiesa, tale da favorire di fatto la convivenza e i rapporti positivi tra le religioni, in questo dando dei numeri anche ai nostri politici

(vedi link qui sotto)

Bergoglio a Rio: “La laicità dello Stato favorisce la convivenza tra religioni” – Il Fatto Quotidiano.




papa francesco: chi sono io per giudicare i gay?

così, sorprendendo tutti, papa Francesco si espresso oggi sull’aereo nel suo viaggio di ritorno dalla G. M. G. di Rio de Janeiro rispondendo puntualmente ad ogni domanda per un’ora e mezza

La lobby gay non va bene, perche’ non vanno bene le lobby, dice papa Francesco. I gay? ”Io non giudico, se e’ una persona di buona volonta’, chi sono io per giudicare?”. ”Non ho trovato carte d’identita’ di gay in Vaticano, dicono che ce ne sono, credo che si deve distinguere il fatto che e’ gay dal fatto che fa lobby”, afferma il Papa in volo da Rio a Roma. Quanto allo Ior, non sa ancora quale forma avra’ ma comunque dovra’ basarsi su ”trasparenza e onesta”’. Nella mia borsa? ‘Il rasoio, il breviario, l’agenda, un libro da legge




bambino rom nai nato ma vivo e vegeto

 

 

 

 

Dominic è venuto al mondo, ma il mondo non lo sa

mai nato ma vivo

Una storia di apolidia.

Pistoia. C’è un bambino che si chiama Dominic. È venuto al mondo l’anno scorso, una mattina di novembre, mentre fuori imperversava la bufera e la sua casa (la sua baracca) faceva acqua da tutte le parti. Dominic è venuto al mondo ma non è mai nato. Come si può venire al mondo senza mai nascere?, domanderete voi. Ve lo spiego io, ma prima devo ricordarvi che nel mondo dei rom tutto è possibile, tutto è magico, tutto è fantasia. Dovete dunque immaginare due giovani genitori vissuti, come nelle favole, ai margini del bosco, che non sanno di preciso neppure quando sono nati. Dovete immaginare che questi giovani genitori hanno alle spalle una famiglia migrante, o meglio: camminante. Anche se loro ormai non camminano più da tanti anni. Una famiglia che affonda le proprie radici nella Jugoslavia che non esiste più e, ancora più profonde, nella millenaria cultura del popolo rom. Forse esistevano anche, da qualche parte, dei passaporti jugoslavi, ma la carta – c’insegna la storia – è fragile, si strappa, si bagna, si deteriora, ed è per questo, per esempio, che conserviamo ancora gli originali del Petrarca (che era ricco, disponeva di aiutanti e scriveva su della buona pergamena) e invece quelli di Dante, profugo e dalle altalenanti fortune, non esistono più. Dovete immaginare che oggi, dopo tutte queste storie e soprattutto dopo una guerra che ha frantumato un Paese, i due giovani genitori non vantano alcuna cittadinanza, non possiedono né permesso di soggiorno né carta di identità, e dunque – ‘ai fini amministrativi’, come si dice – banalmente ‘non risultano’. Strano, perché io sono stata a casa loro tante volte, ho bevuto il caffè nelle loro tazzine, ho preso in braccio il piccolo Dominic e ho dunque verificato che ‘ai fini della vita’ queste persone ‘risultano’. Come dicevo hanno smesso di camminare, da sempre abitano nella stessa città, percorrono le stesse strade, anche se si trovano nella penosa condizione di ‘apolidia de facto’ che li accomuna a parecchie centinaia di rom ex-jugoslavi in Italia. E dunque che è successo? A novembre, quando è nato Dominic, nessuno ha potuto formare il suo Atto di nascita perché i due giovani genitori non risultano identificabili con certezza. Così Dominic per il momento non risulta mai nato. E qui bisogna addentrarsi in un piccolo paradosso. Tutti concordano su alcune certezze: che l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente e che i bambini sono titolari di alcuni diritti inviolabili, fra i quali il diritto di vivere, di avere un babbo e una mamma, di vedere il proprio nome trascritto su un registro ufficiale (lo dice, fra l’altro, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo); che gli atti di stato civile vengono formati sia nell’interesse delle persone a cui si riferiscono sia in considerazione dell’interesse generale a che determinati fatti siano registrati e conoscibili da chiunque; che questa condizione di ‘invisibilità’ deve cessare di tramandarsi di padre in figlio per generazioni. Il problema è che nessuno dispone di soluzioni che non siano ‘arte di arrangiarsi’ ma piuttosto proposte serie e replicabili per tutti i casi come il nostro. Siamo in un mondo moderno e ben organizzato dove ognuno, fin dalla nascita, inciampa in una sua casella da riempire. Ciascuno di noi deve dimostrare di essere se stesso. Ma per qualcuno tutto ciò non è previsto. Dunque chi deve porre rimedio a quella che a questo punto è una carenza nelle previsioni normative? È consentito cavarsela con un “non c’avevamo pensato”? Da un lato il Comune, pur con la migliore volontà di risolvere la faccenda, non trova il modo di formare atti riguardanti persone la cui identità è incerta. D’altro canto sia Procura della Repubblica che Prefettura ammettono la loro incompetenza in merito, rimandando la questione al Ministero di riferimento, il quale chissà quando risponderà…Neppure le autorità consolari degli Stati sorti dalla dissoluzione della Jugoslavia, molto spesso, riescono a rispondere in tempi rapidi riguardo lo status giuridico di molti rom, ormai italiani di fatto ma non di diritto. Nel frattempo, aspettando che la Pubblica Amministrazione superi i propri imbarazzi e si decida a esprimersi chiaramente sulla condizione dei rom apolidi, nelle nostre città vivono persone inesistenti, che non possono avere un documento, non possono iscriversi al servizio sanitario, non possono prendere la patente, non possono lavorare, non possono sposarsi e, come abbiamo visto, non riescono neppure a nascere.

Barbara Beneforti




‘ma mi faccia il piacere’

le gustose battute di Travaglio nella rubrica ‘ma mi faccia il piacere’ del fattoquotidiano del lunedì

(vedi link qui sotto)

Ma mi faccia il piacere (Marco Travaglio)..




la chiesa che sogna papa Francesco

 

 

pellerossa

la chiesa che ha in mente papa Francesco non è affatto la chiesa dalle grandi strutture e che si impone per la sua solennità ieratica ma lontana dai problemi della gente

delinea con chiarezza una ‘chiesa di strada’ che si fa prossima ai poveri e ai lontani: “i ‘vip’ da invitare in parrocchia sono i poveri e i lontani”

così a Rio de Janeiro in occasione della giornata  mondiale della gioventù:

 

 La cattedrale è a forma di piramide Maya, una struttura grandiosa di 80 metri, ma celebrando davanti a un migliaio di vescovi da tutto il mondo il Papa afferma che i veri «vip» da invitare in parrocchia sono «i poveri e i lontani». Nel Teatro municipale davanti a politici, diplomatici, imprenditori e intellettuali chiede una «visione umanistica dell’economia e una politica che realizzi partecipazione», contro gli elitarismi, e per «sradicare la povertà».

Tra gli orgogli architettonici della Chiesa e della società brasiliane papa Francesco propone la sua visione della convivenza sociale che non escluda nessuno. Ma è poche ore dopo, durante il pranzo nel palazzo arcivescovile Sao Joaquin con i cardinali del Brasile, la presidenza della Conferenza episcopale e i vescovi della regione, che traccia il suo sogno di una «chiesa di strada» in grado di fronteggiare il «lato oscuro della globalizzazione» e di tornare a parlare a quelli che si sono allontanati.

Molti di quanti hanno lasciato la Chiesa cattolica brasiliana sono confluiti nelle sette e movimenti pentecostali: in Brasile i cattolici praticanti sono oggi attorno al 64 per cento, 8 anni fa, in occasione della visita di Benedetto XVI, le statistiche li davano a più dell’80 per cento. Ma papa Bergoglio non nomina le sette nè cita le statistiche. Piuttosto offre una riflessione molto articolata, innervata nel documento di Aparecida, la V assemblea di tutti i vescovi latinoamericani, alla cui stesura ha collaborato da cardinale, nel 2007.

È il suo sogno di una chiesa aperta, che vada verso le periferie, agli «incroci», «una Chiesa di ‘riconciliazione’, ‘di strada’ , non un ‘transatlantico alla deriva’, ma una ‘bussola’ per l’uomo contemporaneo, che ha «smarrito senso, non ha un nido, subisce violenze sottili e rotture interiori, solitudine e abbandono».

Papa Francesco denuncia «il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa; di persone che – dice – dopo essersi lasciate illudere da altre proposte, ritengono che ormai la Chiesa, la loro Gerusalemme, non possa offrire più qualcosa di significativo e importante, e allora vanno per strada da soli, con la loro delusione».

Tanti se ne sono andati, ricorda, «perchè chiedono qualcosa di più alto, di più forte, di più veloce». Il Papa chiede ai vescovi di imparare dai pescatori (il miracolo di Aparecida è collegato a alcuni pescatori, ndr) e dai poveri la capacità di «parlare del mistero», di lavorare contro «muri, abissi, distanze», di ricordare che «le reti della Chiesa sono fragili, forse rammendate, e la barca della Chiesa non ha la potenza dei grandi transatlantici che varcano gli oceani». Questa Chiesa deve reimparare «la grammatica della semplicità».

«Priorità della formazione», «collegialità e solidarietà», «stato permanente di missione e conversione pastorale», ha detto, sono le «sfide» per la Chiesa, che deve essere «capace di riscoprire le viscere materne della misericordia». E se non vuole rischiare la «sterilità» deve smettere di «ridurre l’impegno attivo delle donne nella Chiesa, bensì promuovere il loro ruolo». Infine l’esempio della Chiesa in Amazzonia, dove non va «con la valigia in mano per andarsene dopo aver sfruttato». «Educazione, salute e pace», le «urgenze brasiliane», interpellano la Chiesa in Brasile.